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L'armonia raggiunta: le Grazie del Foscolo




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L'armonia raggiunta: le Grazie  del Foscolo



Un percorso dalle tenebre alla luce


L'ultima opera del Foscolo non conobbe una stesura definitiva, ma restò allo stato frammentario. Il poeta, che lavorò a questa, che è la sua creazione poetica più dichiaratamente (fin dalla dedica al Canova) "neoclassica", a partire dal 1811, continuò a limare i perfetti endecasillabi, a modificare e spostare episodi e sezioni, a cercare una architettura generale in cui inserire i quadri staccati tra loro, ma quanto ci è giunto del poemetto resta un insieme di luminosi frammenti, privi di una coesione complessiva, quasi una raccolta di tessere di un mosaico di cui si intravede un disegno complessivo, che però le lacune non consentono di cogliere ed interpretare pienamente, conferendogli il fascino misterioso dell'incompiuto. Questa situazione ha anche condizionato le valutazioni critiche sul poemetto e sul posto da esso occupato nell'insieme della produzione del poeta di Zacinto. Due sono state le interpretazioni storicamente più importanti dell'opera poetica del Foscolo, ed il loro netto divergere si può connettere con due contrapposte concezioni poetiche: sono quella ottocentesca del De Sanctis e quella novecentesca del Croce. Il primo critico dispone le opere foscoliane su una parabola: sull'arco ascendente egli colloca, considerando che ciascuna testimoni rispetto alla precedente un miglioramento artistico, l'Ortis, i Sonetti e le Odi, seguite, all'acme della parabola, dal capolavoro Dei Sepolcri; mentre pone sulla sezione discendente (pur apprezzandone le soluzioni formali) il poemetto delle Grazie, commentando come in esse predomini l'artista, mentre sia quasi assente il poeta. Se noi riflettiamo sul significato che il critico napoletano dà a questi termini ed in particolare alla connotazione negativa che attribuisce ad "artista" (come colui che ha per motto ARS GRATIA ARTIS, cioè l'idea dell'arte per l'arte, e non come il vero poeta ARS GRATIA VITAE) possiamo valutare il peso negativo, o almeno limitativo, di tale giudizio. Non dimentichiamo poi che la critica dell'Ottocento ama le opere organiche e non è ancora abituata al frammento, diversamente dal 900: ed infatti il critico novecentesco, Croce, propone, per le opere foscoliane, una retta ascendente, e colloca nel punto più alto, considerandole quindi il capolavoro, proprio le Grazie, cui l'incompiutezza toglierebbe l'aspetto allotrio della "struttura", da lui considerata "non poesia", per lasciare soltanto, luminosa nei suoi preziosi frammenti, la poesia allo stato puro; la frammentarietà e l'incompletezza, lungi dal costituire un difetto, rappresentano proprio il pregio del poemetto. Tale posizione è ripresa ed approfondita dal De Robertis ed in generale evidente risulta l'apprezzamento per i frammenti del poemetto da parte dei poeti e dei critici ermetici. La critica successiva, pur continuando a privilegiare il carme dei Sepolcri, ha riletto con maggior attenzione le Grazie, riconoscendo in esse il fiore supremo, se pur fragile ed esile, del neoclassicimo europeo (su questa posizione si trovano, fra gli altri, il Fubini ed il Binni) e le hanno considerate come l'approdo coerente di un percorso che trova analogie in altri poeti di altre letterature (ed in particolare nel Goethe, nel suo procedere dal Werther all'ultima redazione del Faust).

Ritengo utile, prima di esaminare l'impostazione, le tematiche e le strutture formali dell'opera, individuare tale percorso, partendo dal 1803, quando già il poeta espone una prima idea del poemetto.

All'inizio dell'Ottocento, nella fervida vita culturale milanese (nella città, oltre all'arrivo degli esuli napoletani e del Monti ed alla presenza del giovane Manzoni, si trovava Stendhal e vi approdava spesso, per gli spettacoli della Scala, Byron) si di­batteva molto, nell'ambito della corrente dominante del Neoclassicismo, sulla tradu­zione dei classici. Monti stava lavorando alla sua bella infedele, la versione capola­voro dell'Iliade, ed alla traduzione dal latino delle Satire di Persio, dal francese della Pulzella d'Orléans di Voltaire e lo stesso Foscolo, mentre traduceva libri di Omero e la Chioma di Berenice da Callimaco-Catullo, già proget­tava un Inno alle Grazie, suggerito anche dall'attività artistica del Canova. Sull'idea di traduzione Monti e Foscolo erano decisamente su posizioni contrastanti, in quanto il primo propendeva per la traduzione artistica, il secondo per quella filologica: en­trambi comunque erano interessati al mondo antico ed al classicismo (e le Grazie sa­ranno proprio l'opera simbolo e l'esito più alto del neoclassicismo italiano). In una nota alla traduzione della Chioma di Berenice il poeta introduceva una interessante nomenclatura, scrivendo, e distinguendoli nettamente fra loro, di passionato e mirabile: col primo termine indi­cava, in un'opera d'arte, il predominio del sentimento e della passione; col secondo la ricerca dell'armonia e il prevalere del senso del bello e della contemplazione. Ed il percorso complessivo dell'opera creativa del Foscolo è proprio sostanzialmente un itinerario dal primo al secondo atteggiamento.

Chiunque abbia letto Le ultime lettere di Jacopo Ortis ha ben presente la tonalità dell'opera, il prevalere nel romanzo delle note cupe, tempestose e notturne, il vigore della passione amorosa e patriottica, le tensione verso il suicidio. Un libro sincero ed energico, basato su scottanti esperienze autobiografiche, ma con difetti derivanti dalla giovinezza e dalla passione dell'autore: eccessi di eloquenza, lampi di entusiasmo, esagerazioni di tono, eccesso di iperboli, colori lugubri e cupi del paesaggio, in consonanza con la tempesta interiore. Ma già si affacciano i successivi temi foscoliani: da un lato i miti della tomba, del tempo distruttore, dall'altro quelli della bellezza serenatrice, della poesia eternatrice; ma si resta in ogni caso nell'ambito del passionato.

Le esperienze immediatamente successive si realizzano in due direzioni (che poi approderanno ai due capolavori della piena maturità): Sonetti e Odi. Foscolo resta ancora nell'ambito delle forme chiuse, che più tardi supererà, approdando alla più libera musica dell'endecasillabo sciolto (fino ad allora peraltro già sperimentato nella tragedia Tieste e nelle traduzioni). I due generi gli servono per provarsi prima ad una specie di sintesi tra i due aspetti, poi ad un prevalere del mirabile. I Sonetti sono, per gli argomenti, collegati strettamente all'Ortis, ma, soprattutto nei quattro maggiori, il poeta giunge ad una armoniosa e placata fusione del tema passionale e di quello contemplativo, assorbendo l'agitazione e la passionalità residue in una struttura di tersa nitidezza che, senza eliminarne l'intensità, le purifica ed universalizza. Significativa e quasi simbolica di questo atteggiamento, la conclusione di Alla sera, con il doppio ossimoro.


e mentre io guardo alla tua pace, dorme

quello spirto guerrier ch'entro mi rugge,


Se parole come pace e dorme indicano lo stato d'animo della contemplazione e della calma; rugge e guerrier ci riportano al precedente momento ortisiano; ma attraverso l'accostamento, il poeta ottiene l'effetto di una sintesi tra le due tonalità, che produce un effetto, tipico del neoclassicismo foscoliano, di equilibrio non statico, ma dinamico, che deve essere continuamente raggiunto e riconquistato.

Al contrario le Odi (che sembrano voler programmaticamente anticipare i temi e le tecniche delle Grazie) segnano un distacco evidente dalle esperienze di vita vissuta, tendono alla astrazione ed alla sublimazione, a costruire un mondo ideale di bellezza ed armonia, in cui le passioni e gli avvenimenti trovano solo un vago riflesso, e sono innalzati in una atmosfera di estatica contemplazione. Ciò si realizza (sfiorando, ma senza cadervi, i rischi dell'estetismo) soprattutto nella seconda ode, All'amica risanata, ove il poeta, dopo aver cantato con disteso vigore e musicale entusiasmo la funzione consolatrice della bellezza femminile, inventa quasi una sua nuova mitologia, innalzando al mondo divino ed eterno, per virtù della poesia, la donna da lui amata, posta vicino alle donne che gli antichi poeti avevano, col loro canto, trasfigurato in dee.

La tipologia poetica già presente nei Sonetti è ripresa e confermata nel carme dei Sepolcri, ove si realizza in pieno la fusione tra gli aspetti (altre volte separati e prevalenti di volta in volta) della esperienza passionalmente vissuta e dell'arte rasserenata, dell'agire e del contemplare, del passionato e del mirabile. Le due immagini simboliche di fondo che realizzano il grande chiaroscuro del carme sono il sole e la notte, che si ripresentano, in equilibrio ossimorico, nei punti cruciali, all'inizio, al centro ed al termine. All'inizio il Sole illumina le bellezze del creato e costituisce il primo degli elementi positivi di cui la morte priverà il poeta (le altre sono la natura, le illusioni, la poesia, l'amore); ma subito dopo all'immagine del sole si contrappone quella opposta e complementare della notte dell'oblio ( e involve tutte cose l'Oblio nella sua notte). Al centro del carme l'immagine dell'astro della luce e della vita torna a confronto con l'oscurità notturna degli ipogei dei cimiteri greci, appena illuminati dalla lampada sepolcrale, dono degli amici che compiangono e ricordano:


Rapian gli amici una favilla al Sole

a illuminar la sotterranea notte


Appare qui il contrasto dinamico tra le implicazioni vitalistiche e razionali collegate alla parola Sole (con l'iniziale maiuscola a suggerirne le implicazioni) e quelle cupe connesse alla notte: tra luce neoclassica e ombra romantica, con un sostanziale equilibrio tra i due aspetti.

Nel finale del carme, proprio negli ultimi versi, all'interno della solenne profezia di Cassandra, si delinea ancora l'antitesi fra luce e tenebre, tra il Sole e la cupa vicenda delle sventure umane da esso contemplate; non solo, ma dalla notte reale (l'oscurità delle tombe e la cecità di Omero), sorge la luce metaforica della poesia. Il chiaroscuro che abbiamo analizzato sembra proprio indicare un momento di raggiunto equilibrio: e che tale scelta sia ben presente e consapevole nel poeta, sembra confermato dalla ossimorica "notte luminosa" che si accampa nell'episodio di Firenze:

Lieta dell'aer tuo veste la luna

di luce limpidissima i tuoi colli


Se dunque i Sepolcri segnano un raggiunto quanto delicato equilibrio tra i due aspetti, con le Grazie si passa invece al deciso prevalere dell'anima neoclassica del Foscolo, si realizza il definitivo approdo al mirabile, al termine di un lungo cammino che partendo infatti dal deciso prevalere della pas­sione, dall'agitazione sentimentale approdante al suicidio delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, passa attraverso il momento di equilibrio tra i due aspetti nei Sepolcri, per approdare in­fine alla serena contemplazione delle Grazie; anche nella serenità però il Foscolo non rinuncia del tutto a riferimenti alla attualità ed in particolare alle problematiche politiche dell'epoca; resta nel complesso evidente un percorso dalla tensione preromantica alla contemplazione neoclassica di un'opera, che viene così a rappresentare l'equivalente letterario della scultura del Canova.


Armoniosa melodia pittrice

(Primo Inno, a Venere)


Pur nella sostanziale frammentazione, e partendo da un progetto che prevedeva un solo inno (idea ancora confermata in un saggio del '22, Dissertazione sopra un antico inno alle Grazie), l'insieme di versi endecasillabi sciolti che possediamo, si può agevolmente suddividere in una struttura tripartita, in tre Inni: A Venere, a Vesta ed a Pallade, ciascuno (specie i primi due) logicamente articolati e ben distinti fra loro anche dallo sfondo in cui sono collocati, rispettivamente la Grecia mitica, la Toscana, l'isola di Atlantide.

Il primo inno è dedicato a Venere (che simboleggia la "bella natura apparente", chiarisce il poeta), si apre con l'invocazione alle Grazie e con la dedica al Canova, a suggerire un auspicato incontro fra le arti figurative e la poesia, che era un ideale del neoclassicismo. Segue la rievocazione della nascita delle Grazie nelle acque dello Jonio, fra Citera e Zacinto, l'isola natia nostalgicamente rievocata. La madre Venere le trae dal mare perché possano aiutare gli uomini ad uscire dallo stato ferino e a dare inizio alla vita civile: nasce così, col loro contributo, la splendida civiltà della Grecia; nella conclusione il poeta preannuncia il passaggio delle Grazie dalla Grecia all'Italia.

Un passo interessante è dunque il proemio, che il poeta articola in tre settori.

Il primo settore (vv. 1-8) propone l'invocazione alle Grazie, con la richiesta alle tre dee per ottenere una espressione poetica in cui trovino sintesi pittura e musica ("a voi chieggio l'arcana / armoniosa melodia pittrice / della vostra beltà"), e che porti consolazione all'Italia afflitta dalle guerre napoleoniche. Notiamo subito la nitida perfezione degli endecasillabi, che, conservando la marmorea compattezza dei Sepolcri, sembrano assumere in più una delicatezza di "sfumato" ed una nuova vibrazione e tonalità musicale.

Segue il riferimento autobiografico al luogo in cui il poeta si dedica alla composizione del carme: la prediletta Bellosguardo, immersa nella bellezza delle colline toscane già cantate al centro dei Sepolcri, ove egli, fuggito dalle delusioni milanesi del fiasco dell'Aiace alla Scala e dalle polemiche con gli intellettuali di quella città, si è rifugiato ed ove immagina di innalzare il meta­forico altare alle tre dee, ed invita a partecipare al rito sacro l'amico scultore:


Nella convalle tra gli aerei poggi

di Bellosguardo, ov'io cinta d'un fonte

limpido fra le quete ombre di mille

giovinetti cipressi alle tre dee

l'ara innalzo al vago rito

vieni, o Canova, e agl'inni.


La terza sezione del prologo torna ad una dichiarazione di poetica (sostanzialmente antimontiana - sdegno il verso che suona e che non crea - ) e dopo aver definito Canova artefice di Numi, prospetta una funzione di guida da parte della poesia rispetto alle arti figurative (Apollo come guida di Fidia e di Apelle); e il nome di Fidia ci riporta alla concezione del Winkelmann, teorico riconosciuto del neoclas­sicismo, che aveva indicato come vertice dell'arte ellenica proprio la ideale, calma e serena bellezza delle sculture fidiache.

Esaminando questo passo, ci accorgiamo che il poeta ha abbandonato definitivamente le forme chiuse del sonetto e dell'ode, ed è approdato alla forma più libera e flessibile dello sciolto, dando al verso tipico della poesia italiana una nitida preci­sione ed un ritmo insieme solenne ed intimo: ciò accadeva già nei Sepolcri, ove la tematica solenne tendeva a far prevalere un senso austero e scultoreo; nelle Grazie l'endecasillabo mantiene tali aspetti, aggiungendo però una maggiore fluidità ed unendo al pregio visivo della chiarezza e della luminosa precisione descrittiva vibrazioni timbriche di intensa suggestione e la misteriosa melodia del suono.

Altri momenti significativi del primo inno sono la rappresentazione degli uomini primitivi e l'invenzione delle arti figurative. Il primo episodio ci rivela come, pur nella astratta contemplazione delle Grazie, la realtà storica sia distanziata ma non completamente dimenticata: il mirabile nel Foscolo (diversamente che nel Monti) non è mai semplice involucro estetico e non si allontana mai completamente dall'esperienza della vita. Nell'episodio c'è dapprima il ricordo degli uomini primitivi, gli immani bestioni di memoria vichiano-lucreziana:


Ma dai celesti rimanea negletto

il picciol globo della Terra: e, nati

alle prede i suoi figli e alla guerra,

e dopo breve dì sacri alla morte,

vagavan tutti colle belve all'ombra

della gran selva della terra


Poi spicca il riferimento all'attualità, cioè alle stragi delle guerre napoleoniche:


Quindi in noi serpe, miseri! un natio

delirar di battaglie; e se pietose

nol placano le dee, cupo riarde

ostentando trofeo l'ossa fraterne.


Foscolo riconosce l'istinto umano alla violenza e lo condanna insieme con la guerra, cui pochi anni prima egli stesso aveva contribuito direttamente, come ufficiale dei reparti italiani nell'armata napoleonica, partecipando alla difesa di Genova nel 1799 ed ai preparativi della invasione (peraltro mai tentata) dell'Inghilterra a Boulogne nel 1805. Perfino nelle Grazie, al di là dell'intento di creare con la poesia un mondo astratto di bellezza, in una mitica dimensione fuori del tempo e dello spazio, libero ed immune dalle miserie del contingente, resta dunque qualche segno dell'esperienza autobiografica e storica, un collegarsi dell'arte alla vita.

Il tema dell'invenzione delle arti figurative consente al Foscolo di scrivere versi tipicamente neoclassici: dopo aver esaminato la pittura e l'architettura, egli pone in risalto soprattutto, e si tratta ancora di un implicito omaggio al Canova, l'arte della scultura:

Ma più assai felice

tu che primiero la tua donna in marmo

effigiasti: Amor da prima in core

t'infiammò del desio che disvelata

volea bellezza, e profanata agli occhi

degli uomini. Ma venner teco assise

le Grazie, e tal diffusero venendo

avvenenza in quel volto e leggiadria

per quelle forme, col molle concento

sì gentili spirarono gli affetti

della giovine nuda; e non l'amica

ma venerasti Citerea nel marmo.


Come già in precedenza aveva cantato (nell'ode All'amica risanata), la funzione eternatrice della poesia, ora la attribuisce anche alle altre arti: il ritratto dello scultore ha trasformato la donna in una divinità; il genio dell'artista (sia esso poeta o pittore, musicista o sculture) ha il nobile compito di trasporre il contingente nell'eterno, il tempo nell'immortalità, il finito nell'infinito.






La bellezza della musica, della danza, della poesia

(Secondo Inno, a Vesta)


Un minimo di struttura è presente comunque nelle Grazie, e consiste, come si è visto, nella suddivisione nei tre inni, distinti per tematiche ed ambientazione: abbiamo verificato come il primo inno a Ve­nere si svolga in Grecia e contempli l'originarsi delle arti e della civiltà; il secondo, cui rivolgiamo ora la nostra attenzione, è dedicato a Vesta ("custode del fuoco eterno che anima i cuori gentili", come annota il poeta), ed è ambientato in Toscana e dedicato a cantare la poesia, la musica e la danza, ol­tre ad esaltare la letteratura italiana delle origini; nel terzo inno, che esamineremo più avanti, è collocato nella mi­tica Atlantide, ove le dee minori, guidate da Pallade, ricamano il velo che proteggerà la Grazie dall'assalto degli uomini.

Nel secondo inno il poeta convoca a sé, sul colle di Bellosguardo, per farne sacerdotesse delle Grazie, tre "vaghissime amiche": Eleonora Nencini, Cornelia Martinetti e Maddalena Bignami. Chiede a Canova (interlocutore costante e presenza unificante del poemetto) di eternare nel marmo la loro bellezza e comincia a descriverle in splendidi quadri. La prima donna simboleggia la musica ed è rappresentata mentre suona l'arpa, esaltando gli ineffabili poteri della melodia; e qui si colloca la famosa similitudine dell'incanto sonoro del paesaggio del lago di Como: un passo celebre, connotato dalla armonia imitativa e dalla climax ascendente in cui si va dal sussurro del vento, ai suoni strumentali e vocali, fino ai poderosi colpi dei magli delle officine di Lecco.

La seconda sacerdotessa (la Martinetti) rappresenta la poesia ed offre alle Grazie un favo di miele, simbolo della dolcezza dell'arte della parola: e qui si apre un excursus sul passaggio delle Grazie in Italia e sulla storia della poesia italiana, in cui il Foscolo si sofferma a rievocare in particolare Dante (Genio disdegnoso, / che il passato esplorando e l'avvenire / cieli e abissi cercava), Petrarca e le rose simbolo della sua lirica, e Boccaccio col suo libro di novelle, verso il quale il poeta non riesce a celare un sospetto di immoralità (Or vive il libro / dettato dagli Dei; ma sfortunata / la damigella che mai tocchi il libro!).

Viene poi introdotta la terza sacerdotessa, la Bignami, che rappresenta la danza: ed a lei Foscolo dedica un passo di straordinaria levità e raffinatezza stilistica: ella è inferiore, quando resta immobile, alla suonatrice dell'arpa ed alla nutrice delle api; ma, quando danza, svela una bellezza indescrivibile. Il poeta, grazie alla melodiosa armonia pittrice che ormai ha dimostrato di possedere, riesce ad immettere nei versi il fascino della danza, rappresentando la dol­cezza dei movimenti prima, poi l'accelerarsi del ritmo, infine il misterioso sparire tra i mirti, con il re­siduo svolazzare del velo:


Ma se danza

Vedila! tutta l'armonia del suono

scorre dal suo bel corpo e dal sorriso

della sua bocca; e un moto, un atto, un vezzo

manda agli sguardi venustà improvvisa.

E chi pinger la può? Mentre a ritrarla

pongo industre lo sguardo, ecco m'elude,

e le carole che lente disegna

affretta rapidissima, e s'invola,

sorvolando sui fiori; e appena veggio

il vel fuggente biancheggiar tra i mirti.


Noterete come questa pagina, specie nei versi conclusivi, riesca ad esprimere con straordinaria leggerezza e precisione l'armonia e la bellezza della danza, l'arte più fragile e "momentanea", incapace di resitere oltre l'attimo fuggente: il ritmo, il suono della metrica, al di là del senso delle parole, sembrano trasfigurare la forma poetica nell'arte di Tersicore


I "miti" foscoliani del velo

(Terzo Inno, a Pallade)


Il terzo inno, dedicato a Pallade ("dea delle arti consolatrici della vita e maestra degli ingegni", secondo l'indicazione dell'autore) è il più lacunoso, ma paradossalmente contiene alcune delle pagine più poeticamente salde, unitarie e compiute di tutta l'opera, in particolare la descrizione iniziale dell'isola di Atlantide e quella del velo delle Grazie. In questo terzo inno si narra la fuga delle Grazie insidiate dall'amore passionale degli uomini; Pallade le conduce nella favolosa isola, dove alcune divinità minori tessono il velo che dovrà, ricoprendo la loro nudità, ripararle dall'assalto della sensualità.


Il luogo immaginato è Atlantide, che per il poeta esiste tuttora e dove Pallade si rifugia con le dee minori quando il nativo "delirar di battaglie" torna ad infuriare tra gli uomini, quando la terra è macchiata dalla violenza e dal sangue.


e quivi casti i balli,

quivi son puri i canti, e senza brina

i fiori e verdi i prati, ed aureo il giorno

sempre, e stellate e limpide le notti.


Ma la pagina più suggestiva del poemetto è sicuramente quella del velo delle Gra­zie; pagina assai nota, ma che credo meriti una attenta analisi, una rimeditata lettura e considerazione, in quanto in essa si concentrano i miti e le illusioni foscoliane.

Minerva conduce dunque in Atlantide le Grazie, fuggitive ed impaurite tra gli uomini, insidiate dalle passioni; e fa tessere per loro un velo, dalle dee minori, tra le quali emergono Erato, che guida col suo canto Flora, che ricama sul velo, con fili di di­verso colore, le immagini più intime, dolenti ed umane dell'ispirazione foscoliana. Il canto di Erato (vv.153-196 del III Inno) costituisce il vertice lirico, la pagina più fusa, musicale ed intensa del poemetto, uno degli esiti più tipici, significative, elevati della poesia neoclassica europea.

Cinque sono le scene rappresentate nel velo e riguardano, rispettivamente, nell'ordine, la giovinezza, l'amore coniugale, la compassione del guerriero vincitore, l'ospitalità, l'amore materno; i colori simbolici prevalenti nelle singole scene sono il rosa, il bianco, il verde, l'oro e l'azzurro; lo spazio dedicato ad ogni scena oscilla tra un minimo di sette versi (la compassione) ed un massimo di 11 (la giovinezza).

Vediamole una per una, le cinque scene, che possono apparire come una sintesi delle tematiche foscoliane, riprese fedelmente dalle opere precedenti, ma sviluppate in un'armosfera più distac­cata ed assorta, con un effetto di universalizzazione, evidente soprattutto nel tema dell'amor materno.

La prima scena, ricamata con filo rosa, è quella della giovinezza personificata, che danza ardita al centro del velo, accompagnata dal coro delle sue speranze; ma il Tempo percuote con colpi rapidi il suo plettro, e la giovinezza scende lungo il pendio della vita, dal quale mai potrà risalire. E se le Grazie fanno fiorire i prati sotto i suoi piedi, le ghirlande di fiori serviranno a profumare l'urna funerea. Parlavo di sintesi di tematiche: qui troviamo congiunta in armoniosa sintesi l'impeto baldanzoso che caratterizzava momenti dell'Ortis, certi spunti speranzosi delle Odi, ma anche il tema fondamentale dei Sepolcri, quello dell'urna consolata dal profumo dei fiori, segno e simbolo della corrispondenza d'amorosi sensi.

Quanto la prima scena è ricca di entusiasmo vitali­stico (che poi si attenua melodiosamente nel tocco funebre), altrettanto la seconda è composta, dolce e malinconicamente serena: essa canta - forse con la ritrosa nostalgia di chi lo ha so­gnato e mai raggiunto - l'affetto coniugale: i fili sono nivei, come s'addice alla pu­rezza degli amori più intimi e pacati, ed i dati narrativi esili e delicati: tra le ombre della sera due tortorelle escono da un bosco di mirti, mormorando tra i baci, e un usi­gnolo prima le osserva silenzioso poi gorgheggia un inno nuziale, finché le tortore pudiche, vergognose di essere state osservate, tornano ad occultarsi tra i rami. Leggerezza, delicatezza, castità espressiva caratterizzano il passo:

escono errando

fra l'ombre e i raggi fuor d'un mirteo bosco

due tortorelle mormorando ai baci;

mirale occulto un rosignuol, e ascolta

silenzioso, e poi canta imenei:

fuggono quelle vereconde al bosco.


Sul lato opposto del velo, fili verdi ricamano la scena (ancora ossimorica, e l'ossimoro è figura finalizzata all'armonia, funzionale quindi al mirabile) del guerriero vittorioso che prova compassione, la dote più celeste dell'uomo: il quadro, universale ed extra tem­porale, rappresenta il sogno veritiero, quello dell'alba, che invia al guerriero addor­mentato le immagini dei volti tristi del padre e della madre, mentre pregano piangendo per il figlio lontano; ed egli si sveglia e sospira, guardando i suoi prigionieri:

e quei si desta,

e i prigionieri suoi guarda e sospira.


Penso che il poeta si sia ispirato alla scena dell'Iliade, in cui Priamo e Achille piangono insieme, l'uno sul cadavere del figlio restituito, l'altro sul pensiero dei genitori lontani; di quell'episodio egli ripropone il profondo senso della humanitas, della fratellanza universale, al di là delle guerre e dell'odio.

Il filo d'oro caratterizza il mito dell'ospitalità: nel quadro la gioia, la letizia luminosa del festino (nella tipica armonia derivante dal chiaroscuro) si accorda con la discrezione, il pudore, la pietà per gli esuli; notiamo ancora una volta come nell'episodio ci sia attenzione ad evitare gli estremi, a conseguire una tonalità distac­cata ed insieme intima, universale anche nei riferimenti soggettivi: è quel "calore di fiamma lontana" di cui scrive l'eteronimo Didimo:


Or libera è la gioia, ilare il biasmo,

e candida è la lode. A parte siede

bello il silenzio


Infine, al culmine dell'episodio, viene in primo piano il sentimento più puro ed elevato: l'amor materno. Il colore azzurrino del filo con cui Flora disegna si adatta bene alla mestizia ed all'atmosfera notturna che avvolge la scena. Le allusioni classiche (c'è il ricordo di un passo lucreziano), come sempre nelle Grazie, sono appena accennate e mai insi­stite: una donna veglia su un bimbo, temendo che i suoi vagiti siano presagio di morte:


e pinta il lembo estremo abbia una donna

che con l'ombre e i silenzi unica veglia;

nutre una lampa su la culla, e teme

non i vagiti del suo primo infante

sien presagi di morte


La figura delicata, sollecita ed intima, segna il culmine di un percorso di astrazione e di universalizzazione: il tema materno è infatti una costante dell'opera foscoliana, ma segue un percorso di purificazione ed essenzializzazione. All'inizio è tema direttamente autobiografico: la donna degli agitati e scomposti sonetti giovanili per la morte del pa­dre è proprio la madre reale del poeta, Diamantina Spathis, così come proiezione diretta di lei (ci sono passi ripresi da lettere effettivamente scritte dal poeta a lei) è la madre di Jacopo nel romanzo; la donna che colle ceneri del figlio morto parla dell'altro figlio esule, va già innalzandosi verso una tipologia umana diffusa; la ma­dre che protende le braccia sul figlio lattante per difenderlo dai fantasmi nella scena medioevale dei Sepolcri, non è più legata alla autobiografia, ma è già archetipo generale della maternità; ancor più universale, nel suo atteggiamento comune a tutte le madri, a rappresentare quasi la quintessenza dell'amore materno, è questa figura delle Grazie. Mi pare che la tematica dell'amor materno sia proprio quella in cui si svela con più evidenza il percorso foscoliano dal passionato al mirabile, il processo di semplificazione, astrazione ed armonizza­zione che il poeta realizza attraverso i prodotti della sua creatività poetica.

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