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Il sottile confine tra follia e genio




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Il sottile confine tra follia e genio

























Il primo passo per comprendere a fondo l'argomento è una precisazione sul termine "folle".

Chi è il folle?

Folle è colui che ha un rapporto alterato con la realtà. Vive nel suo mondo, ha le visioni, sente voci o musiche che persone cosiddette "normali" non percepiscono.

Colui che nel linguaggio comune viene ormai, forse per errore, definito "folle" o "pazzo" che fa lo stesso, è l'individuo che più precisamente a livello medico viene definito "psicotico". Lo psicotico quindi è colui che ha un rapporto totalmente alienato con la realtà. Colui che invece può sembrare "strano" o "particolare" è invece il nevrotico . nevrotico è colui che nonostante sia ben radicato nella società che lo circonda, assume degli atteggiamenti che fanno arricciare il naso alla gente comune. Nevrotico è per esempio colui che ha un bisogno costante di lavarsi le mani, probabilmente per qualche ragione rimossa, ma anche per citare un caso famoso la rinomata paziente di Freud, Anna O. . un'altra categoria di nevrotici sono quindi anche tutti coloro che vengono definiti "isterici".

Dopo questa breve definizione del termine trovo opportuno passare in rassegna le varie tappe del mio percorso. Partendo da personaggi storici come Nerone, passando per Hitler, Stalin, Pirandello, Coleridge e Dalì, arriverò a trattare argomenti di attualità, quali la chiusura dei manicomi (ad opera di Franco Basaglia) e la cosiddetta "art brut", l'arte di coloro che sono ricoverati nei reparti psichiatrici degli ospedali.

Innanzitutto da sempre si è ricercata la causa di una malattia di questo genere. Quali risposte sono state date a questa domanda? Ai tempi di Freud per esempio si riteneva che l'origine fosse semplicemente di origine genetica. Questo è in parte vero, come molti studiosi oggi concordano. Ma in realtà è fin troppo riduttivo limitare la presenza di questo fenomeno unicamente alla componente genetica. Ciò che influenza in grande misura il presentami di sintomatologie psicotiche negli individui è il contesto storico, o per meglio dire, l'ambiente, nel quale essi sono costretti a vivere.

A questo proposito chi meglio di Nerone, prima, e di Hitler, poi, può essere scelto come testimonianza di ciò che ho affermato poco sopra?

Quando si pensa a Nerone ciò che a tutti viene in mente è l'incendio di Roma del luglio del 64. in realtà, cosa che forse non ancora tutti sanno, Nerone non ha mai incendiato Roma. Se poi si prendono in esame gli annali degli anni precedenti si vede che non era nemmeno la prima volta che Roma bruciava interamente (a questo proposito è opportuno ricordare l'incendio scatenatosi sotto i principati di Claudio e Tiberio). Ma allora perché l'incendio verificatosi sotto il principato di Nerone destò così tanto scalpore, tanto da garantirgli una delle peggiori immagini della storia?  Probabilmente Nerone era un personaggio che per la sua stravaganza e forse anche per alcuni suoi importanti provvedimenti da un lato, e atti osceni dall'altro, era inviso a molti esponenti del ceto senatorio.





Poiché molte delle fonti che possediamo su Nerone  provengono da esponenti appartenenti a

questo ceto, o comunque a loro fedeli, si comprende come in realtà, gli avvenimenti biografici della vita di

 Nerone in buona parte siano stati manomessi. A questo punto allora entra in crisi l'idea che tutti noi possediamo riguardo a questo uomo emblematico. La mia non è una difesa di questo personaggio, né un tentativo di riabilitazione. Eventi maligni e del tutto gratuiti sono stati compiuti (dei quali si ha una certa testimonianza) e tra questi possiamo annoverarne i più noti : l'uccisione della madre, Agrippina, e di Britannico, la condanna a morte di alcuni cristiani e moltissimi altri. Ciononostante è stato un personaggio particolare e per un certo senso "brillante" nel periodo nel quale visse. Con la salita al trono imperiale di Augusto si era aperto il periodo di governo della dinastia claudia. Alla morte di Augusto, nessuno dei suoi successori fu in grado di proseguire un periodo di pace e di stabilità, prestando un'attenzione particolare alle arti. Con la salita al potere di Nerone (a seguito, lo ricordiamo perché molto rilevante per comprendere chi sarà Nerone poi, dell'uccisione di Claudio da parte della madre Agrippina) , appena 17enne, questo aspetto della vita a Roma venne nuovamente esaltato.        Questo a mio proposito è un buon motivo per rivalutare, in parte almeno, questo personaggio.

Accennavo prima all'incendio verificatosi a Roma. Dai dati in nostro possesso si apprende che la parte della città che era andata bruciata era quella alla quale il giovane imperatore era più morbosamente legato. Mi riferisco alla parte della città nella quale erano conservati moltissimi manoscritti antichi, e tra i quali molti erano tra quelli prediletti di Nerone (ricordiamo a questo proposito che Nerone aveva anch'esso tentato di produrre proprie opere d'arte, come ad esempio un poemetto sulla presa di Troia, probabilmente senza un grande successo a quanto testimonia Seneca).

In più, secondo quanto comunicano alcuni storici, non avrebbe avuto la necessità di incendiare Roma per poi ricostruirla più moderna, poteva solo riprogettare alcune aree, alzando le abitazioni, sistemando e costruendo strutture sanitarie e igieniche adeguate (e questo a quanto sostengono alcuni storici, era ciò che Nerone aveva progettato).

Alla luce di tutto questo, quale perverso motivo avrebbe dovuto spingere Nerone a incendiare la città?

L'unico personaggio che sostiene questa tesi è Svetonio. Ma in fondo bisogna tener presente che questo personaggio era inviso al princeps,e che quindi tra di loro non scorresse buon sangue. Svetonio si rifà allora ad un'affermazione fatta da Nerone in persona.

Nel corso di una conversazione durante un banchetto, dopo che un giovane aveva affermato:


"Dopo la mia morte, la terra sparisca nel fuoco!", al cospetto di Nerone, questi avrebbe ribattuto:


"No, che questo avvenga mentre io vivo". A questo punto Svetonio afferma :


"Infatti, sotto il pretesto di essere infastidito dal laidume dei vecchi edifici, dalla ristrettezza e dalla sinuosità delle strade, incendiò Roma. e alcuni granai che coprivano vicino alla Domus Aurea un terreno che egli fortemente desiderava furono abbattuti con l'ausilio di macchine da guerra e, quindi, dati alle fiamme. Nerone contemplava l'incendio dall'alto della torre di Mecenate, sedotto dalla bellezza delle fiamme. Cantò la fine di Troia nel suo costume teatrale, per non mancare questa occasione".


Ma questa è solo la testimonianza di Svetonio.

Altri, suoi contemporanei, affermano invece che Nerone, quando Roma bruciò, era ad Anzio già da una settimana. Giuntagli la notizia


"si prodigò instancabilmente per ridurre le sofferenze e i disagi delle vittime, ospitate in enormi "tendopoli" erette nei suoi giardini privati ed in altri edifici pubblici ancora. Ordinò distribuzioni gratuite e di viveri e di vestiario e abbassò, contestualmente, il prezzo del grano, invitando, inoltre, le città vicine ad inviare aiuti"


Tuttavia, nonostante queste testimonianze, come racconta Gervaso


"Simili, tempestive provvidenze, tuttavia, non furono sufficienti a fugare il sospetto che la miccia fosse stata accesa dal principe stesso. L'insinuazione fu abilmente fatta circolare tra il popolino, per sua natura credulo e alla caccia perenne di capri espiatori. Non tutti vi prestarono fede, ma i più avvalorarono la diceria sbandierandola. I grandi storici dell'epoca la riecheggiarono, avvalorandola con la propria autorità"


Soltanto ai nostri giorni, gli storici, hanno definitivamente sostenuto la sua estraneità nell'incendio, ritenendo quest'ultimo di natura fortuita e non dolosa.


L'incendio di Roma fu soltanto una delle sue azioni nefaste.

Si può per esempio prendere in considerazione il suo modo di rapportarsi alle tre mogli.


 "Qua ut poteretur, virum eius Atticum Vestinum consulem in honore ipso trucidavit."


 "Eandem mox saepe frustra strangulare meditatus dimisit ut sterilem, sed improbante divortium populo nec parcente conviciis etiam relegavit, denique occidit sub crimine adulteriorum adeo impudenti falsoque, ut in quaestione pernegantibus cunctis Anicetum paedagogum suum indicem subiecerit, qui fingeret et dolo stupratam a se fateretur."


 "Tamen ipsam quoque ictu calcis occidit, quod se ex aurigatione sero reversum gravida et aegra conviciis incesserat."


Ma anche


"Antoniam Claudi filiam, recusantem post Poppaeam mortem nuptias suas quasi molitricem novarum rerum interemit"


"Privignum Rufrium Crispinum Poppaea natum impuberem adhuc, quia ferebatur ducatus et imperia ludere, mergendum mari, dum piscaretur, servis ipsius demandavit."

(e questo fa ancora di più accapponare la pelle, riferendosi ad un bambino)


Infine


"Senecam praeceptorem ad necem compulit" e "Burro praefecto remedium ad fauces pollicitus toxicum misit."


Ciò che forse ancora sembra più strano di tutte queste azioni


"Verum minis eius ac violentia territus perdere statuit; et cum ter veneno temptasset sentiretque antidotis praemunitam, lacunaria, quae noctu super dormientem laxata machina deciderent, paravit."


 Nello stesso passo si legge anche che in seguito, non funzionando questi tentativi da lui inventati, fu "costretto" a costruire un'imbarcazione che si sarebbe distrutta da sola, provocando il naufragio dell'imbarcazione.

Anche da questa minaccia la madre si salvò. Ma non durò molto. Dopo che ella ebbe inviato un messo (Agrippina aveva intuito tutto) per comunicare a Nerone di non essere in pena per la madre, che era sana e salva su di un'isola, Nerone ebbe un'altra delle sue idee geniali: avrebbe fatto finta che la madre avesse mandato Agermo (il liberto inviato dalla madre) per ucciderlo. In questo modo decise per l'uccisione della madre.

Nello stesso modo uccise anche una zia, e si impossessò, senza scrupoli, di ogni suo bene.


Ma perché Nerone avrebbe dovuto uccidere la madre?

La giustificazione da lui stesso addotta è quella che riguarda l'intenzione della madre di allontanare Nerone dal trono.

Come ogni tiranno che si rispetti insomma, Nerone (molto simile a riguardo è la figura di Hitler), soffriva di ciò che si può definire "paranoia" che viaggia di pari passo con il "delirio di onnipotenza". Gli affetti da questa patologia, temono costantemente di venir detronizzati. Qual è quindi l'unica soluzione, a loro avviso, per non incappare in questo pericolo? "distruggere" (in questo caso non metaforicamente) coloro che possono rappresentare una minaccia. Ed è proprio questo ciò che Nerone fece. Quando iniziò a fiutare la minaccia di essere detronizzato dalla madre, decise di ucciderla. E uccise anche, come si può leggere dalle testimonianze sopra riportate, tutti i liberti e tutti i suoi consiglieri che un tempo lo avevano aiutato a salire al potere. E cosa peggiore di tutte, costrinse al suicidio sia Seneca che Burro.


Perché tutto questo?

Probabilmente Nerone era effettivamente folle, o almeno in parte. Credo che a questo proposito debbano essere prese in considerazione le condizioni storiche nelle quali era costretto a vivere unito alle persone, corrotte, che abitavano la sua corte.

Bisogna ricordare, innanzitutto, il motivo per il quale Nerone era riuscito a diventare princeps. Nerone non era l'erede diretto, ma grazie alle trame di Agrippina, riuscì a salire al trono. Agrippina, pur di consentire al figlio di governare su Roma, non si fece molti scrupoli, e uccise Claudio (probabilmente secondo alcune fonti avvelenandolo). Quando Claudio morì ella si adoperò, in modo tale che erede diretto dell'ex imperatore non fosse Germanico ma Nerone. Chiaramente un esempio del genere per un ragazzo ancora in tenera età, non può non essere rilevante per comprendere la persona che si è rivelata essere. La madre indubbiamente continuò a influenzare il giovane imperatore, intervenendo in decisioni importanti, fino a quando molto probabilmente egli non si sentì così minacciato da decidere il matricidio.

Credo che poi abbia avuto un suo peso rilevante la giovane età dell'imperatore (aveva solo 17 anni quando ebbe il potere). In fin dei conti un uomo così giovane, con le immense ricchezze che Roma possedeva, era difficile si mantenesse retto e incorrotto.

Tuttavia Nerone non era un debole. Nerone aveva una sua personalità, che nel corso degli anni del suo principato si costruì. Ora, il mio tentativo di "riabilitazione" di questo personaggio storico, non dev'essere frainteso.

Ritengo che questo imperatore abbia sicuramente compiuto azioni ingiustificabili, quello che però vorrei invitare a considerare (ed è questo lo scopo del mio discorso) è il considerare anche l'altro lato della medaglia.

Chi mai prende in considerazione le azioni buone e in favore del popolo e di Roma stessa sono state compite da Nerone? Credo molto pochi.

Non bisogna quindi dimenticare che, durante il suo regno, l'impero conobbe un insolito periodo di pace, di prosperità economica e culturale. Ci furono spedizioni scientifiche, migliorie per il popolo (notevole fu la ricostruzione di Roma dopo il devastante incendio del luglio 64 e la successiva svalutazione monetaria che favoriva la ripresa economica dei ceti medi contro l'oligarchia latifondista dei senatori), per l'arte (Nerone ha cercato di ellenizzare i costumi romani, troppo rozzi e bellici, e sarà questo uno dei motivi della sua destituzione e morte). L'anima dell'imperatore era di artista, amante della musica, della poesia, della recitazione, ma era anche amante del piaceri del popolo (amava vagabondare di notte nei locali più squallidi della capitale e vivere gli eccessi con ubriacature e risse).

Certamente fu anche megalomane, un visionario, uno psicolabile, schiacciato da una madre autoritaria, arrivista e ambiziosa che gli caricò sulle spalle, a soli diciasette anni, l'enorme peso dell'Impero, mentre lui avrebbe forse preferito dedicarsi alle arti predilette. Ma ugualmente fu un monarca assoluto che usò il proprio potere in senso democratico, governando per il popolo contro le oligarchie che lo opprimevano e lo sfruttavano.

E di questo se ne ha una testimonianza nel momento dei suoi funerali : il popolo intero vi prese parte.


La follia può però essere anche una manifestazione dell'inadeguatezza nella quale si è costretti a vivere.

Emblemi di questa condizione sono due personaggi, il pittore surrealista Salvador Dalì e il protagonista della tragedia di Pirandello, Enrico IV.














Pirandello fu un grande scrittore, autore di alcuni dei primi romanzi, insieme a Svevo, della letteratura italiana. In una delle sue tragedie, ma anche poi in una novella (il treno ha fischiato), affronta il tema della pazzia. Ciò che apprezzo di più, e trovo davvero geniale, è il modo in cui questo argomento viene affrontato.






Innanzitutto sono necessari dei brevi cenni sulla trama.

Durante una corsa a cavallo, una sorta di festa in maschera, Enrico, o meglio, l'uomo che si è travestito da Enrico IV, cade da cavallo e sbatte la testa. Immediatamente, gli amici accorsi, si accorgono che a seguito della botta Enrico, credette davvero di essersi trasformato nel re dei germani Enrico IV. Il dottore consigliò ai familiari e amici di continuare a fargli credere che il personaggio era Enrico IV. Ed è questo il motivo per il quale per 20 anni Enrico visse credendosi Enrico IV, circondato da persne che si fingevano suoi consiglieri.

Dopo 20 anni appunto, Enrico inizio a dare segni di ripresa. Iniziò a ricordare. E ricordò che Matilde era colei che lui amava, e che , a seguito della sua caduta gli era stata sottratta da Belcredi, suo rivale in amore.  Un giorno (questo è narrato nel terzo e ultimo atto, ed è la parte che ci interessa), il dottore ebbe un'idea, dapprincipio geniale: per far si che Enrico ritornasse in se, coloro che avevano preso parte a quella manifestazione, avrebbero dovuto travestirsi di nuovo come quel giorno fatidico. In questo modo il dottore pensava che Enrico sarebbe rinvenuto.

Purtroppo però il dottore non sapeva che Enrico nel frattempo si era già ripreso.

Quando il gruppo (formato da Belcredi, Matilde, la figlia di lei, Frida il dottore e il fidanzato di Frida) arrivò al cospetto di Enrico IV successe l'irreparabile.



ENRICO IV: [.] mi volevate dir questo, dimostrar questo, con vostro    sacrificio, così parata per consiglio del dottore?

Ma io non sono un pazzo, a modo vostro, dottore! [.] io sono qua, da vent'anni, capite? Fisso in questa eternità        di maschera!

Li ha vissuti lei, (Matilde) se li è goduti lei, questi venti    anni,    per diventare come io non posso più riconoscerla!




Ciò che Enrico intende è che, mentre i suoi "amici", avevano vissuto questi venti anni, lui era rimasto per così dire "indietro", si era perso gli ultimi venti anni della sua vita. Matilde era invecchiata, aveva vissuto la sua vita. E ormai era diventata diversa totalmente da prima, tanto che lui non la riconosceva più. La figlia di lei invece ì, Frida, era tale e quale alla madre da giovane.

Enrico allora, usufruendo del fatto che quelle persone lo ritenevano pazzo, pensò bene di riprendersi ciò che "avrebbe dovuto essere suo", vale a dire Matilde (che per lui ora però è impersonata di Frida). Così dicendo la cinse con le braccia e cominciò a ridere come un folle.

È già da questo primo gesto che si percepisce che qualcosa di spaventoso sta per accadere.

E forse è anche questo il primo segno della sua non-follia. E Belcredi se ne accorse e infatto grida


BELCREDI: tu no! non sei pazzo!


E forse è proprio questo che nella mente di Enrico fa scattare la molla.

Gli grida di tutta risposta


ENRICO IV: non sono pazzo? Eccoti!


E dopo aver detto questo prese una spada e lo ferisce al ventre.

Enrico era stato per vent'anni della sua vita pazzo, si era travestito da Enrico, viveva in un mondo di finzione, totalmente distaccato dalla realtà. Ma quando definitivamente ritorna "normale" rientra nel mondo reale, è lui che decide di ritornare in quello della finzione. Viene quindi considerato pazzo perché piuttosto che adeguarsi al mondo reale corrotto e ipocrita, preferisce restare fedele al suo mondo di dichiarata fantasia e falsità. 


Sulle urla di Belcredi ( "no! Non è pazzo! Non è pazzo!") e sulla dolorosa decisione di Enrico, anche se forse bisognerebbe piuttosto definirla "unica conseguenza" delle sue azioni ("ora si . per forza. qua insieme. per sempre"), si conclude l'Enrico IV. 


Dove sta la genialità di Enrico?

La sua genialità è rintracciabile nella sua ultima, decisiva decisione: meglio fingersi folli, piuttosto che vivere in un mondo del genere.












Un altro personaggio che per reazione alla sua inadeguatezza risulta essere folle è Salvador  Dalì.

Dalì è uno dei maggiori esponenti del surrealismo, anche se tutto sommato, in alcuni casi scadeva in ciò che potremmo definire la più alta forma di depravazione esistente (opere per esempio come "il grande masturbatore"). E tuttavia è sempre stato un personaggio che ha destato il più vivo interesse  tra i vari critici. Perché questo? Forse per i suoi modi eccentrici, o forse per la sua condizione, da lui stesso dichiarata, di "paranoico-cronico".

Egli stesso ci da una definizione della sua paranoia




"[la paranoia] è una malattia mentale cronica, a cui sintomatologia più caratteristica consiste nelle delusioni sistematiche. Queste possono prendere la forma di mania di persecuzione o di grandezza e di ambizione."


Questo suo stato mentale, lo portò, nel corso dei vari anni, ad elaborare una sua personale forma di automatismo, da lui stesso chiamata "metodo paranoico-critico"

In cosa consisteva questo metodo?


"Durante l'intera giornata, seduto davanti al cavalletto, fissavo la tela come un medium per vederne sorgere gli elementi della mia immaginazione.

Quando le immagini si collocavano esattamente nel quadro io le dipingevo immediatamente, a caldo.

Ma, a volte, dovevo aspettare delle ore e restare in ozio col pennello immobile in mano prima di vedere nascere qualcosa."






"Sogno causato dal volo di un'ape

attorno ad una melagrana un secondo

prima del risveglio"









"Sei apparizioni di Lenin su un pianoforte"









Analizzando i termini. Paranoico quindi, si riferisce alla sua capacità di avere intuizioni, idee pensieri immediati. Nel momento in cui questi pensieri vengono tramutati in immagini e diventano un qualcosa di visibile a tutti, allora ecco che si ha il momento "critico", quello nel quale sostanzialmente non prevale più l'intuizione ma solo l'intelletto.

Alcuni critici sostengono che nella maggior parte dei suoi dipinti prevalga il momento intellettivo e quindi sostengono l'inautenticità della follia di Dalì, sostenendo al contrario il suo abuso di sostanze stupefacenti. Il personaggio creato era solo frutto della sua incapacità di adattarsi all'ambiente circostante.

Che Dalì fosse folle o meno, poco importa. In un modo o nell'altro, anche se non era effettivamente folle diciamo che restò totalmente imprigionato nel personaggio eccentrico che si creò da non riuscire più a distaccarsene.

È proprio nella discussione sulla sua follia o meno che si inserisce Freud.

Tutti i surrealisti consideravano Freud come una sorta di "padre". È dalla sua analisi e interpretazione dei sogni che iniziarono a privilegiare la dimensione del sogno nella quale l'inconscio emergeva senza restrizioni.

Freud rifiutò per più tempo questa paternità attribuitagli, definendo i surrealisti dei "pazzi integrali". Ma quando vide le opere di Dalì la sua opinione cambiò. Fu ammiratore di questo artista e si dichiarò fin da principio interessato a scoprire la genesi remota dei suoi quadri.


'Caro signore, bisogna realmente che io vi ringrazi della parola di introduzione che mi ha condotto il visitatore di ieri. Poiché fino a quel momento ero tentato di considerare i surrealisti, che apparentemente mi hanno scelto come santo patrono, come dei pazzi integrali (diciamo al 95%, come per l'alcool puro). Il giovane Spagnolo, con i suoi candidi occhi di fanatico e la sua indubbia padronanza tecnica, mi ha incitato a riconsiderare la mia opinione. In realtà, sarebbe molto interessante studiare analiticamente la genesi d'un quadro di tal genere. Si tratta qui, in ogni caso, d'un serio problema psicologico.'

(S. Freud, 20 luglio 1938, lettera a S. Zweig)



Ben presto Dalì divenne un caso clinico per Freud. Facendo ricerche, scavando nella memoria di Dalì, comprese come il vero problema, la genesi di tutto ciò che turbava l'artista, era da ricercarsi nella sua prima infanzia.

Forse non è un fatto così conosciuto che Dalì avesse un fratello più grande, morto solo a sette anni, prima della nascita della'artista. Quando Dalì nacque era talmente simile al fratello che i genitori, ancora sconvolti dalla recente perdita, decisero di chiamarlo con lo stello nome de fratello morto, Salvador, appunto.

Ma il vero problema era a costante apprensione alla quale il giovane artista era sottoposto. (Dalì adulto raccontò per esempio che un giorno, d'inverno, quando stava per uscire di casa, la madre dalla cucina gli urlò "metti la sciarpa, altrimenti morirai come tuo fratello". Mi sembra chiaro che avvenimenti di questo genere segnino profondamente un bambino.)

A seguito di tutto questo Dalì si sentì sempre più come solo "l'ombra in decomposizione" del fratello morto. Un guscio vuoto, in continua decomposizione e scioglimento.

In virtù di questo, la mollezza delle sue figure, il loro stato di decomposizione, sono tutti elementi che discendono direttamente dalla sua identificazione con il fratello morto.

Vengono così in parte spiegati i significati nascosti dietro i suoi dipinti.

Quello che comunque interessa di questo personaggio è la sua grandissima vena creativa che in un modo o nell'altro, fosse egli folle o del tutto "normale", affascina ha affascinato e continuerà ad affascinare moltissime persone.








"Apparizione di un volto e di una fruttiera sulla spiaggia"


















"L'enigma del desiderio: mia madre"




















"La tentazione di Sant'Antonio"














Quando si parla di "follia" ciò che viene in mente sono i manicomi. I manicomi all'epoca, quando erano funzionanti, ospitavano,ammassati, i cosiddetti "malati mentali".

La peculiarità di questi posti era quella di controllare e rinchiudere coloro che altrimenti sarebbero stati dannosi sia per se stessi che per gli altri. In quanto diversi insomma, andavano allontanati e tenuti a debita distanza da chi invece era in pieno possesso delle sue facoltà mentali. A nessuno importava se venivano maltrattati, se venivano legati al letto. Purché restassero lontani tutto andava bene. In fin dei conti, ed è una che arriva direttamente dal periodo vittoriano (noto come "victorian compromise") finchè noi non vediamo le cose, è come se non esistessero. Ed è proprio questo che venne fatto per anni, all'epoca le cure erano scarse, anzi, del tutto inesistenti (l'elettroshock o la lobotomia non mi sembra corretto definirle "cure"). Eppure erano gli unici mezzi che si conoscevano per poter arginare questa malattia. Appena un individuo diventava troppo pericoloso per se o per chi gli stava intorno, ecco che lo si operava. Non erano forse pratiche umane, ma come sempre in medicina, prima di arrivare alle grandi scoperte bisogna passare per fasi di sperimentazione(a questo proposito è da sottolineare che addirittura un medico vinse il nobel per l'utilizzo in medicina dell'elettroshock). La cosa più grave, secondo me, è però la forte estraneità alla quale questi individui erano soggetti. Intendo dire con questo, una profonda accentuazione dell'estraneità alla quale gli psicotici sono già sottoposti per la natura della loro malattia mentale. Fu soltanto nel 1978 che Franco Basaglia , con la legge che poi sarà nota a tutti come "legge Basaglia", abolì i manicomi. Il problema è che essi vennero sostituiti semplicemente dai reparti psichiatrici dei vari ospedali, ma a livello pratico il cambiamento era molto sottile.

Interessante è la testimonianza stessa di Basaglia riguardo alla follia umana e conseguentemente all'esistenza dei manicomi.


 La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d'essere »


Già da queste poche righe si capisce il carattere rivoluzionario delle idee di questo psichiatra, e si intuisce quindi anche ciò a cui mira eliminando i manicomi. (basta compiere questo suo ragionamento al contrario)


Cosa prevedeva la legge?

Oltre alla chiusura di tutti i manicomi, prevedeva anche la regolamentazione del Trattamento Sanitario Obbligatorio (T.S.O.), in sostanza una sorta di certificato medico, con cui il paziente veniva considerato "idoneo" a venir ricoverato in una struttura di questo tipo. Questo garantiva il ricovero di pazienti realmente bisognosi perché malati e necessitanti di essere tenuti sotto controllo e avrebbe dovuto evitare il contenimento di coloro che invece avevano solo piccoli problemi relazionali o disturbi del comportamento.

Vennero inoltre anche migliorate le terapie e le cure somministrate ai pazienti. Vennero ridotte contemporaneamente sia le cure farmacologiche e anche, cosa molto importante, il contenimento fisico.

Innanzitutto non si sarebbe più assistito, almeno sulla carta, a scene di malati legati ad un letto con cinghie e in secondo luogo i tempi di degenza venivano enormemente ridotti.

Inizialmente, nei manicomi, i "malati mentali" erano rinchiusi a vita, una volta entrati non c'era speranza di uscirne. Con la legge Basaglia invece il tempo di degenza venne ridotto a due o tre mesi. Allo scadere del periodo massimo di ricovero, a meno che il paziente non sia molto grave, esso veniva dimesso, e gli veniva fornita una cura da continuare a casa. Tutto questo comportava frequenti controlli e frequenti ricoveri, ma garantiva l'inserimento del paziente nel contesto sociale suo contemporaneo. Credo che queste siano state grandi conquiste per la medicina, anche se penso però che ancora si debba fare molta strada in questo ambito.

Quale può essere uno dei problemi dell'eccessivo contenimento fisico?

Si rischia, a mio avviso, di perdere quella potenziale creatività che risiede in alcuni dei ricoverati nei reparti psichiatrici.

E questo molto probabilmente Basaglia l'aveva intuito.

In una delle strutture da lui controllate aveva introdotto attività come cucito, pittura, scultura ecc.. tutte attività ricreative che potevano garantire al paziente sia un modo per esprimere la sua creatività prima repressa, sia la possibilità di restare in rapporto costante con l'ambiente esterno (producendo opere destinate anche a mostre ad aste e alla vendita) sia con se stesso (poiché nei loro quadri viene rappresentato ciò che proveniva dal loro inconscio).   È così quindi che nacque l'Art Brut, l'arte dei ricoverati nei reparti psichiatrici.

L'art brut quindi comprende


"Quei lavori creati dalla solitudine e da impulsi creativi puri ed autentici, dove le preoccupazioni della concorrenza, l'acclamazione e la promozione sociale non interferiscono."


L'art brut è un movimento artistico, promosso da Jean Dubuffet. Fu presentato per la prima volta nel 1946 in Francia nel ricovero di Sant'Anna. Questa viene riconosciuta come l'anno della sua nascita ufficiale.

È vero che non tutti coloro che sono rinchiusi nei centri psichiatrici possiedono una vena creativa accentuata, molti disegni, sculture sono solo scarabocchi, ma molti altri sono dei veri e propri capolavori. Penso che proprio parlando di Art Brut si evidenzi quanto sia sottile il confine tra follia e genio. 

Possiamo considerarlo come un modo diverso di intendere la realtà? E ancora, quanto si può imparare da questi individui?


Ecco una serie di dipinti con cui intendo concludere la mia esposizione.


















































































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