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La societÀ teatral e italiana tra il 1918 e il 1931




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LA SOCIETÀ TEATRAL E ITALIANA TRA IL 1918 E IL 1931




Riconosciuti in D'Annunzio e nei futuristi i prodromi del fenomeno che costituisce l'argomento del mio studio, converrà provvedere a un inquadramento storico che abbia per oggetto il sistema teatrale, la sua importanza nel contesto sociale e culturale italiano, lo standard produttivo degli allestimenti, la circolazione dei testi e l'organizzazione delle compagnie126.

Assumere il 1918 come terminus a quo implica scegliere una delimitazione temporale non immotivata, ma sicuramente arbitraria, giacché, di fatto, il primo conflitto mondiale non segna una vera frattura per la realtà teatrale italiana127. La continuità tra il periodo giolittiano e quello postbellico è assicurata da un buon numero di autori la cui maturazione o consacrazione avviene proprio negli anni Venti, ma soprattutto dal protrarsi di

un'organizzazione che almeno per un decennio conserverà la sua stabilità. L'organismo teatrale ha il suo vertice produttivo nel nucleo artistico della compagnia di giro, affidata alla gestione di un capocomico che si occupa sia degli aspetti artistici che di quelli organizzativi e legali128. La disciplina che regola le compagnie, spesso a carattere semi-familiare, soddisfa consuetudini

invalse e criteri ottocenteschi: il nomadismo, dovuto alla continua ricerca di nuove piazze ove sostare pochi giorni, al massimo un mese; l'uniformità dei repertori, basata essenzialmente sul sistema dei ruoli e necessariamente condizionata dal mercato; la ricomposizione degli organici su scadenze triennali; l'aspetto generico e dozzinale degli arredi di scena e dei costumi129. La resistenza di questo modello si deve alla notevole incidenza assunta dai teatri all'interno della vita culturale italiana: cresciuti numericamente con andamento quasi esponenziale nel corso del XIX secolo, essi sono, come ebbe a dire Gobetti, un «segno sensibilissimo della società»130.

In particolare, a cavallo tra i due secoli il teatro di prosa può dirsi il divertimento serale per eccellenza della componente borghese della società, come lo era stato quello musicale per le élites ottocentesche; «luogo di riconoscimento collettivo»131 dove i modelli di comportamento subivano una formalizzazione, il teatro è il medium che meglio e prima degli altri stabilisce cio che è già in atto, come un epifenomeno delle dinamiche sociali, attraverso la generalizzazione del verosimile e la diffusione presso un pubblico quantitativamente considerevole e qualitativamente influente.

Torino, Milano e Roma sono i centri maggiori per la prosa; le tre città all'inizio del secolo vivono la crescita demografica e industriale più spiccata, riflettendosi questa in espansione del ceto borghese, costruzione o ristrutturazione di edifici per lo spettacolo (tipicamente cinema-teatri, dal momento che il decennio vede soprattutto la proliferazione di ambienti polivalenti), costante attenzione da parte dei giornali, riscontri di pubblico notevoli e duraturi. Tre piazze obbligate quindi, nel circuito delle compagnie, di cui possono decretare il successo o il declino.

Gli attori, scarsamente tutelati e spesso sottoposti a scritture vincolanti, vivono la situazione peggiore. Le prime forme di sindacalizzazione, sostenute da alcune associazioni e organi di stampa, portano, attraverso non pochi scontri e scioperi, ad alcune conquiste, come il contratto unico di lavoro e la formazione di compagnie cooperanti, avanzamenti peraltro congelati durante il

periodo fascista132.

Tra i desiderata del mondo teatrale fin dagli ultimi anni dell'Ottocento emergono in primo luogo l'erogazione di finanziamenti pubblici e la costituzione di teatri stabili di istituzione statale. Una campagna a sostegno di queste richieste viene promossa da Umberto Fracchia e Luigi Chiarelli nel

1924: presi in esame, come in un cahier de doléances, gli storici problemi del nomadismo delle compagnie (un «sistema di vita inferiore e contrario alle attuali esigenze di qualsiasi organismo socialmente costituito [.] in aperto contrasto con le esigenze artistiche ed economiche della società moderna»133) e dell'inadeguata formazione attoriale, la proposta dei due, inviata alla Presidenza del Consiglio Nazionale del Teatro, prevede la realizzazione di

teatri stabili, analoghi per conduzione ai teatri lirici, a cui affiancare anche scuole di formazione per attori e professionisti del settore.

Per niente isolati o avventati, i punti principali della proposta si ritrovano anche in un tentativo di poco successivo lanciato da Pirandello insieme con Paolo Giordani; nel 1926 lo scrittore agrigentino presenta a Mussolini un progetto per la creazione di un Teatro Drammatico Nazionale di Stato: nell'ipotesi pirandelliana una triade di sedi - a Roma, Milano e Torino - agendo sinergicamente sotto un'unica direzione artistica, avrebbe recuperato all'arte teatrale l'educazione culturale e gestionale di cui mancava. Dopo Chiarelli e Pirandello, il dibattito prende corpo coinvolgendo altri uomini di teatro: Lamberto Picasso, Silvio D'Amico, Anton Giulio Bragaglia; anche Guido Salvini (su «La Fiera Letteraria» nel 1927) e Filippo Tommaso Marinetti formulano un progetto per un Teatro di Stato con sede a Roma nel

1927134.

Per quanto riguarda la questione economica, una prima, vincolata forma di sovvenzione viene varata e subito ritirata nel 1921: si tratta del Regio decreto n. 5/1921, che stabilisce il sostegno economico al teatro di prosa e a quello lirico (individuando i beneficiari attraverso un'apposita commissione ministeriale) mediante quota fissa annua ricavata dal gettito dei diritti erariali spettanti allo Stato sugli spettacoli. Della prima erogazione, che ammontava a

120000 lire, da destinarsi a una compagnia nuova o rinnovata operante nel

teatro di prosa, e che si rivela una tantum, beneficia, con l'appoggio non ininfluente di Marco Praga, la compagnia Talli-Borelli-Ruggeri, appositamente formatasi per ricevere il contributo135.

Tra le questioni più dibattute, inestricabilmente legate alle prime, sono anche il confronto con la realtà europea, che già dà per conclusa la transizione tra l'epoca dell'attore e quella del regista; la riforma del sistema dei ruoli136; la questione della lingua: in altre parole la grammatica dell'organizzazione teatrale. Ciononostante, è facile constatare la fecondità della drammaturgia negli anni Venti, che tiene dietro a un'altissima domanda di nuove commedie,

avidamente consumate dall'ultima intensa stagione delle compagnie capocomicali. Ed è significativo notare che le cause della "crisi" del teatro - più volte ventilata, smentita e nuovamente asserita dagli addetti ai lavori - non sono mai cercate nella carenza di autori e di testi drammatici, come avverrà nel secondo dopoguerra, bensì nella concorrenza del cinematografo e

nell'inadeguatezza degli spazi137.

Tra le circostanze che spiegano questa produttività si deve senz'altro indicare l'unificazione del repertorio della Società degli Autori e di quello della Casa Re Riccardi nel 1919. Grazie a questa acquisizione, l'Ente in quel momento diretto da Sabatino Lopez diventa così l'unico tutore e amministratore della produzione drammatica italiana e straniera, potendo anche riscuotere personalmente, dal 1921, i diritti erariali sulle rappresentazioni. L'agenzia diretta da Adolfo Re Riccardi era difatti la principale responsabile dell'invasione di testi stranieri, detenendo in esclusiva il repertorio dei più noti commediografi francesi, in specie pochades e vaudevilles, e orientando grazie a questo l'andamento di quasi tutte le compagnie italiane nei primi due decenni

del Novecento138. Ma Re Riccardi tentò anche di ottenere una prelazione sull'opera di autori italiani, avviando così con Marco Praga, direttore della giovane Società degli Autori, una controversia che pose in aperto conflitto capocomici, amministratori di compagnie, attori, proprietari di teatri e stampa specializzata, costretti a schierarsi da una parte o dall'altra139.

L'accordo ratificato tra il 1919 e il 1920 pone cosi fine a una lotta senza esclusione di colpi ingaggiata da Praga contro il suo potente deuteragonista: è noto il boicottaggio che Praga mette in atto nell'estate del 1918 ai danni di Re Riccardi, concedendo agevolazioni tariffarie ai capocomici che tenessero in repertorio solo autori italiani. Un attacco strategicamente portato nel periodo in cui Riccardi non poteva difendersi perché coinvolto nel caso passato alla storia come affaire Caillaux, con l'accusa di alto tradimento della Patria. Prosciolto definitivamente nel 1920, egli finisce col cedere a un accordo triangolare con Praga e Paolo Giordani. Era quest'ultimo il fondatore della Sitedrama (Società italiana d'arte drammatica), il secondo fronte di battaglia per la società di

Praga140. Fondata sul finire del 1918 e comprendente un piccolo ma

considerevole gruppo di autori141, la società di Giordani conquistò una credibilità notevole, lavorando in stretto rapporto con i capocomici e impegnandosi, in cambio di una percentuale sugli incassi (un altro 10%), a piazzare le opere nei teatri; agevolazione che la SIA non concedeva, limitandosi a riscuotere il 10% degli incassi. Gli interessi economici in gioco

erano più che ragguardevoli, visto che proprio negli anni della guerra e in quelli immediatamente successivi gli incassi del teatro di prosa raggiunsero un picco mai più riavvicinato142.

Il sistema di alleanze e tutele che coinvolge capocomici e autori drammatici deve fare i conti con il potentato dei gestori dei teatri, operante attraverso un vero e proprio trust, formatosi dal consorzio delle maggiori imprese dell'epoca, che detiene almeno quaranta delle migliori sale in tutta Italia. Nei primi anni del Novecento, «nascono e si diffondono società

proprietarie di teatri le quali si danno alla gestione di compagnie di giro»143;

con l'affermarsi della figura dell'imprenditore, come riassume Lamberto Trezzini, prende forma quella che potremmo definire la prima industria culturale moderna. Nei tempo in cui il teatro svolgeva il ruolo unificante e di media, a Milano si sviluppa un vero e proprio cartello in grado di condizionare la vita teatrale italiana. È il periodo in cui la cresciuta domanda di beni culturali, dovuta a un incremento del reddito pro capite, favorisce la comparsa di capitali privati che vedono in questa forma di intrattenimento una buona occasione di investimento. Questa prima industrializzazione e razionalizzazione del sistema solleva il primattore da responsabilità economiche-amministrative che diventano ormai insostenibili. È così che nasce la Società anonima Suvini-Zerboni "avente per scopo l'acquisto e l'esercizio di teatri e locali adatti a pubblici spettacoli, nonché ogni altra attività a partecipazione inerente alla industria e al commercio del teatro, del cinematografo e affini"144.


L'intesa raggruppa la società Suvini-Zerboni145, citata da Trezzini, che controlla il teatro Olimpia di Milano, Giuseppe Paradossi, che coordina la zona emiliana con una filiale a Milano146, la ditta Bosio e Gagliardi, detentrice del Politeama di Firenze, i fratelli Chiarella, i quali governano l'offerta teatrale cittadina a Torino147, e Franco Liberati nella zona romana. Dal 1916 il consorzio assume il controllo delle principali sale italiane: a Milano l'Olympia, il Diana, il Filodrammatico, il Dal Verme, il Verdi; a Torino il Carignano, il Chiarella, l'Alfieri e il Balbo; a Genova il Politeama e il Margherita; tutti i teatri di Bologna; a Roma il Valle, il Nazionale, il Quirino; a Napoli il Politeama Giacosa; a Palermo il Biondo148. Il Consorzio, che gestirà le principale sale teatrali italiane anche durante il periodo fascista, agisce quasi in regime di monopolio, disponendo a piacimento della sorte economica delle compagnie, concedendo o negando le piazze nei diversi periodi dell'anno, regolando i contratti per l'affitto dei teatri e condizionando i termini delle scritture degli attori, con largo potere di pressione anche sul repertorio.

Oltre alla complessa questione del diritto d'autore, un elemento a favore della nuova generazione drammaturgica è il fervore di iniziative editoriali a

partire dall'ultimo periodo di guerra, che fece parlare addirittura di una "rinascenza" del mercato librario149 e che coinvolse anche la stampa teatrale. La letteratura drammatica è tra i generi interessati dal maggiore incremento di produzione: a pubblicare regolarmente i testi delle commedie, ad uso dei lettori e delle compagnie, sono le storiche collane di Treves, Vallecchi, di Mondadori e Bemporad ma anche periodici come «Comoedia»150, «Teatro» e «Il Dramma»151. In particolare le riviste contribuiscono a uno sviluppo del sistema visivo legato allo spettacolo, cominciando a pubblicare bozzetti, disegni, caricature e in seguito le prime cronache fotografiche, costituite da una sequenza di foto di scena affiancate da didascalie. I testi sono di solito

pubblicati a ridosso della messa in scena, immediatamente prima, e successivamente "distribuiti" alle compagnie; o poco dopo, qualora un rapporto privilegiato tra autore e compagnia avesse favorito una rappresentazione che poi entrava a far parte del repertorio sulla base del testo trascritto.

Del resto, in questo periodo la scrittura di una nuova commedia, che si tratti di Pirandello, di Antonelli, di Rosso di San Secondo o di Niccodemi, è accompagnata da settimane o addirittura mesi di attesa, di cronache e anticipazioni sui giornali e sulle riviste, che ne seguono la preparazione e la destinazione, alimentando o deludendo le aspettative del nutrito pubblico152.

A dispetto della paventata crisi del teatro, gli spettacoli di prosa intorno

alla metà degli anni Venti registrano gli incassi maggiori153, mentre l'antinomia tra il vecchio e il nuovo innerva il dibattito culturale di una 'società dello spettacolo' ante-litteram. Teatro nuovo e teatro vecchio è il titolo di una conferenza tenuta da Luigi Pirandello a Venezia nel luglio 1922: pubblicata sulla rivista «Comoedia» (1 gennaio 1923), essa traeva origine da una presa di posizione di Adriano Tilgher nei confronti di un dramma di Roberto Bracco, giudicato vecchio perché privo di originalità e plasmato sulla moda corrente del pirandellismo. Ne seguì dunque un botta e risposta tra i due, al quale parteciparono lo stesso Bracco e Silvio d'Amico, sui temi dell'originalità e dell'arte drammatica154.

Se i critici rimproverano agli autori, senza risparmiare nessuno, la monotonia degli intrecci e l'arsura inventiva nella costruzione dei personaggi, è pur vero che le distorsioni sperimentali di molti nuovi autori sottraggono l'auscultazione dei sentimenti agli incastri combinatori del teatro borghese. In effetti, è difficile trovare un narratore o letterato che nel periodo tra le due

guerre non si sia cimentato con la drammaturgia per la scena155.

Due fenomeni vanno notati a proposito degli scrittori; il primo riguarda la loro provenienza professionale: agli inizi del Novecento molte delle nuove leve escono dalle file del giornalismo, a dispetto di una tendenza che ha visto la letteratura teatrale ottocentesca pertinenza quasi esclusiva di medici e avvocati, i quali evidentemente avevano nel proprio mestiere un osservatorio privilegiato sulla società e sulle situazioni più interessanti al suo interno (è fin troppo banale ricordare che l'oggetto del loro lavoro è indicato con la parola caso.). Roberto Bracco, Giuseppe Adami, Alessandro Varaldo, Arnaldo Fraccaroli, Carlo Veneziani, ma anche Enrico Cavacchioli (che fu corrispondente di guerra del «Secolo») e Luigi Antonelli (dopo aver studiato Lettere a Firenze, scrisse

per testate romane e milanesi) sono tra i numerosi redattori di giornali, collaboratori di fogli culturali, corrispondenti o giornalisti professionisti che si dedicarono costantemente alla scrittura per il teatro.

Il secondo fenomeno è l'estensione geografica che caratterizza la nuova generazione di autori, una propagazione che interrompe il milanocentrismo primonovecentesco156 e dilata l'orizzonte antropologico in forza di una spiccata matrice provinciale e meridionale: Bracco è napoletano, Chiarelli pugliese, Antonelli abruzzese, Cavacchioli e Pier Maria Rosso di San Secondo siciliani, così come Antonio Aniante, Ruggero Vasari e naturalmente Pirandello.

Se abbiamo qui riassunto le tappe di questo processo di industrializzazione del teatro e l'evoluzione dei suoi aspetti gestionali è perché la cosa non è priva di conseguenze per la fioritura della drammaturgia nazionale. L'importanza acquisita dall'autore drammatico determina tale prolificità, favorita e tutelata dal quadro politico ed economico profilatosi con il diritto d'autore, e il sistema di contatti e alleanze in forza del quale crebbe la

circolazione dei testi157.

È pur vero che da un punto di vista statistico la produzione più appariscente rimane quella del "teatro di cassetta", i cui sviluppi si orientano in molteplici filoni, comprendenti le evocazioni storiche abilmente costruite del fiorentino Federico Valerio Ratti, i melodrammi di ispirazione risorgimentale o medievale di Giovacchino Forzano, ma anche i 'drammoni' dei "dannunziani"

Sem Benelli158 e Nino Berrini, le farse spiritose e sentimentali di Arnaldo

Fraccaroli159, i primi lavori di Guido Cantini, Cesare Vico Lodovici, Alessandro De Stefani160, e una serie di commedie che trionfano ai botteghini, sostenute da un umorismo sagace e da un sapiente artigianato scenico. Mi riferisco a titoli come L'antenato di Carlo Veneziani, che Antonio Gandusio replicò innumerevoli volte, La tela di Penelope di Raffaele Calzini (1923) o La morte in vacanza di Alberto Casella161. Una larga produzione autoctona nel genere della 'commedia di spirito' che va a compensare il calo dell'importazione di testi dalla Francia162.

Di fatto, a differenza del recente passato, lo scambio tra i due paesi non è unilaterale: esauritasi la prolifica vena di autori come De Flers, Capus, Bataille, Bernstein, capiscuola del teatro boulevardier, e ancora sporadici i tentativi di rinnovamento della nuova drammaturgia (Cocteau, Crommelynck, Anouilh e Claudel ancora poco rappresentati), tra il 1923 e il 1927 la Francia comincia a importare regolarmente testi italiani. Il caso dei Sei personaggi portati in scena a Parigi da Georges Pitöeff non è isolato e denota anzi l'apertura dei teatri europei non solo alle celebrate stelle dell'opera lirica, ma anche alle novità del teatro di prosa.

Il quadro della drammaturgia negli anni Venti si presenta dunque ricco e disponibile ad essere percorso secondo tracce diverse, al cui interno i contenuti si somigliano, le forme divergono, si intrecciano, interferiscono e si ripercuotono. Stagione complessa, carica di attriti e disseminata di asserzioni e prospettive differenti, massicciamente commerciale ma attraversata da slanci idealistici, impossibile da stringere in una solida unitarietà formale. Il clima di rappel à l'ordre instauratosi nel decennio successivo smorzerà gli ultimi esiti dello sperimentalismo d'avanguardia. Il regime mussoliniano si era inizialmente limitato a consolidare il controllo burocratico e legislativo del settore, smorzando la dialettica sindacale che aveva animato i primi anni del dopoguerra; ingerenza sostanziosa che tuttavia interferì solo in misura ridotta sull'autonomia artistica degli autori. Non così negli anni Trenta, quando il

dirigismo fascista si fa decisamente più energico, concludendosi in un accentramento delle funzioni culturali progressivo e autoritario: nel 1926 la Società degli Autori si trasforma in Ente Pubblico, dal 1931 l'attività censoria è resa una pratica abituale e affidata a un ufficio preposto163, infine con il sistema delle sovvenzioni statali il governo centrale controlla direttamente la produzione e la distribuzione degli spettacoli. È quella che Meldolesi chiama «svolta corporativa», un'involuzione a causa della quale «dal 1930 nessuno poté più far teatro senza avere a che fare con le strutture pubbliche»164.

I riflessi sulla produzione drammaturgica sono pressoché immediati. Il teatro del primo quarto di secolo è «orientato in senso nettamente anarchico, individualistico, irrazionalistico, pessimistico»165, un modus scribendi che l'avvento del fascismo, dei nuovi imperativi, delle nuove evidenze storiche e sociali, rende radicalmente inattuale. Se il fascismo può dirsi la forma politica dell'azione, o meglio dell'attivismo, l'homo cogitans che aveva condotto le sue speculazioni nei testi degli anni Venti non può che essere superato da un individuo vitale, osservante, disciplinato. Si inaugura così la stagione delle "rose scarlatte" e dei "telefoni bianchi", gli eponimi che Enzo Maurri attribuì alla drammaturgia rassicurante degli anni Trenta166. Frattanto il critico Enrico Rocca usa, per la prima volta in Italia, i termini regia e regista, recensendo un dramma di Jacob Gordin diretto da Tatiana Pavlova; i due vocaboli sono poi patentati dal linguista Bruno Migliorini sul primo numero della rivista «Scenario»167 e immessi nel vocabolario corrente, andando a soppiantare definitivamente gli opinabili calchi o prestiti impiegati sino a quel momento (direttore di scena, régisseur, apparatore, mettinscena ecc.).

Solo al termine della guerra, la regia, linguisticamente e istituzionalmente accettata, avrebbe potuto rispondere alle esigenze della rinnovata industria dello spettacolo e alla difficoltosa ricostruzione di

un'identità etica e culturale.




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