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Pedagogia




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Pedagogia


Premessa

Benché la sperimentazione costituisca una necessità intrinseca del rinnovamento educativo, il suo ruolo è stato spesso variamente frainteso, soprattutto a causa delle accezioni negative che il termine sembra portare con sé. In primo luogo, infatti, esso pare alludere a qualcosa di provvisorio, di non definitivo e, di conseguenza, da svalutare come instabile e privo di affidabilità. In secondo luogo, la sperimentazione si presta a venire utilizzata come una sorta di "copertura" per fare dell'inutile "sperimentalismo" - ovvero per sperimentare sempre e comunque, il che in educazione è assai controproducente -, oppure per trasformare l'aula in una sorta di 'laboratorio scientifico' freddo e impersonale.



In, campo educativo, invece, la sperimentazione deve essere collegata a una ricerca di innovazione seria e meditata, capace di portare effettivi benefici all'attività di formazione: se, quindi, da un. lato essa va incoraggiata in considerazione della sua funzione di rottura rispetto agli schemi tradizionali, dall'altro occorre tener presente che la scuola ha bisogno di lavoro organico cosciente, di organizzazione e di rigore metodologico.


Lo scenario

Il concetto di "sperimentazione" si collega alla pedagogia almeno secondo due diversi percorsi: innanzitutto esso fa riferimento alle problematiche della "pedagogia sperimentale", un indirizzo di ricerca nato con l'obiettivo di rendere scientifica la pedagogia sulla base di un uso rigoroso del metodo dell'esperimento; inoltre si può collegare alla messa in opera di innovazioni significative nella pratica educativa e scolastica.

Da una parte, infatti, gli educatori possono realizzare nuovi modi di fare scuola restando pur sempre all'interno di strutture e organizzazioni preesistenti; dall'altra queste innovazioni possono essere la conseguenza di istituzioni scolastiche nuove e di differenti forme di organizzazione complessiva dell'apprendimento formalizzato.

L'intreccio di questi tre grandi percorsi di sperimentazione, talora complesso, verrà brevemente illustrato con il riferimento ad alcuni autori particolarmente significativi.


La pedagogia sperimentale


L'indagine dei significati della sperimentazione in campo pedagogico ci porta in­nanzitutto a confrontarci con un intero campo di ricerca, quello della 'pedagogia spe­rimentale'.

La pedagogia sperimentale nasce all'interno della cultura positivista, che vede nella possibilità di dotarsi di laboratori e metodologie per gli esperimenti un passo avanti fondamentalmente nella direzione della pedagogia come scienza. In quest'ambito un contributo decisivo viene dalla Germania e dalla Francia, rispettivamente dall'opera di alcuni psi­cologi discepoli di Wilhelm Max Wundt (1832-1920), fondatore a Lipsia nel 1879 del primo laboratorio di psicologia, e dal ruolo pionieristico svolto da Alfred Binet (1857­1911), inventore del primo test di intelligenza applicato su una popolazione scolastica e autore de Le moderne idee educative (1911) .

Alla base dell'opera di questi studiosi, che ebbero entusiasti sostenitori anche nel nostro Paese, stava la convinzione che la pedagogia sperimentale potesse gradualmente sostituire la vecchia pedagogia di derivazione filosofica, convinzione che sarebbe stata

drasticamente capovolta negli anni in cui il neoidealismo di Gentile e di Lombardo-Radice avrebbe restaurato in Italia l'idea della pedagogia come 'filosofia applicata'. Ciò non toglie che, nella nostra Penisola come altrove, la pedagogia sperimentale perman­ga definitivamente come settore specifico della ricerca pedagogica, caratterizzato so­prattutto dall'indagine sugli strumenti di misurazione dell'apprendimento e da una vasta gamma di problemi che rientrano nel campo della psicologia scolastica e della didattica.

Una migliore comprensione dei significati della pedagogia sperimentale delle origi­ni è possibile analizzando l'atteggiamento di quegli studiosi che hanno visto nella ri­cerca da laboratorio e nello studio scientifico del comportamento le chiavi di volta per il raggiungimento ottimale degli obiettivi educativi. Alfiere di questo atteggiamento è certamente lo psicologo comportamentista Burrhus Frederic Skinner (1904-1990), assai noto per aver applicato la concezione dell'apprendimento tramite "rinforzo" all'attività scolastica e alla costruzione delle "macchine per insegnare".


Testo

Skinner: i vantaggi della sperimentazione nella pratica educativa


Il comportamento umano si distingue perché è influenzato da conseguenze limi­tate. Spesso è rinforzante descrivere qualcosa usando la parola corretta. Altrettanto rinforzante è la chiarificazione di un enigma, o la soluzione di un problema comples­so o semplicemente la possibilità di proseguire oltre, dopo aver completato la prima fase di una determinata attività. Non è necessario soffermarsi a spiegare perché queste cose sono rinforzanti. È sufficiente che nel momento in cui vengono fatte adeguata­mente dipendere dal comportamento, forniscano il controllo di cui abbiamo bisogno per una positiva progettazione educativa. Tuttavia non è sempre facile organizzare adeguate contingenze di rinforzo. Il laboratorio moderno per lo studio del compor­tamento contiene delle apparecchiature complesse, il cui scopo è quello di controlla­re l'ambiente dei singoli organismi durante le molte ore in cui sono oggetto di studio continuo. Non si possono organizzare manualmente le condizioni o le modifiche del­le condizioni che sono necessarie al conseguimento di questo scopo, non solo perché lo sperimentatore non ne ha il tempo né l'energia, ma anche perché alcune contin­genze sono così complesse e precise da non poter essere prodotte senza l'ausilio di un'adeguata strumentazione. Lo stesso problema sorge nell'educazione. [] la macchina per insegnare è insolitamente efficiente perché (1) lo studente viene rinforzato immediatamente e frequentemente, (2) è libero di muoversi al suo ritmo naturale, e (3) segue una sequenza coerente. Questi sono i vantaggi più ovvi che sono in grado di spiegare il successo di queste macchine. Ci sono però delle pos­sibilità ancora più promettenti: le condizioni presenti in una buona macchina per in­segnare fanno sì che sia possibile applicare alla scuola ciò che abbiamo appreso dalle ricerche di laboratorio ed estendere la nostra conoscenza mediante esperimenti rigo­rosi condotti nelle scuole e nelle università.[]

Abbiamo bisogno delle macchine per insegnare per risolvere problemi molto urgenti, ma di esse abbiamo bisogno anche per utilizzare la conoscenza di base che noi possediamo del comportamento umano per progettare delle pratiche educative del tutto nuove.[]

Lo studio dell'apprendimento effettuato in laboratorio ha fornito la fiducia, se non tutta la conoscenza, necessaria ad elaborare un positivo attacco tecnologico con­tro lo status quo. È probabile che le concezioni tradizionali non siano state veramente sbagliate, ma erano certamente vaghe e non si basavano su un impegno sufficiente ad apportare dei cospicui cambiamenti tecnologici.

Tuttavia, in quanto tecnologia, l'educazione è ancora immatura, e lo possiamo constatare dal fatto che definisce le sue finalità in termini di risultati tradizionali. In genere gli insegnanti si interessano a riprodurre le caratteristiche e i risultati degli uo­mini già istruiti. Quando si comprenderà meglio la natura dell'organismo umano, po­tremo iniziare a prendere in esame non solo che cosa l'uomo ha mostrato di essere, ma anche che cosa egli può diventare quando le condizioni saranno completamente programmate. L'obiettivo dell'educazione dovrebbe consistere nello sviluppo più completo dell'organismo umano. L'analisi sperimentale del comportamento condot­ta nelle condizioni vantaggiose fornite dal laboratorio contribuirà al progresso verso quella finalità, unitamente gli esperimenti pratici condotti nella ,scuola e nell'univer­sità con l'aiuto di una strumentazione adeguata.


(B. F. Skinner, Perché abbiamo bisogno delle macchine per insegnare, in Studi e ricerche,trad. it. di P. Meazzini, Giunti Barbera, Firenze 1976, pp. 232, 240, 250-251)



L'approccio di Skinner all'educazione è dunque basato sulla convinzione che una semplice applicazione di risultati raggiunti tramite esperimenti da laboratorio e inno­vazioni scientifiche e tecnologiche cruciali permetta di risolvere efficacemente annosi problemi educativi, garantendo il raggiungimento di traguardi che altrimenti sarebbe­ro impossibili. Ciò presuppone anche che l'educatore (il quale non si distingue più, in questo caso, dallo scienziato del comportamento) eserciti un pieno controllo sulle cir­costanze in cui si apprende e sui contenuti dell'apprendimento.

Assai lontana da questa posizione è Maria Montessori (1870-1952), la quale, pur pro­venendo a sua volta da una formazione scientifica, intende il ruolo delle innovazioni e degli esperimenti nella pratica educativa in maniera ben diversa, come emerge dal pas­so seguente:


Testo

Montessori: un diverso modo di intendere gli esperimenti


[] la psicologia sperimentale è stata una delle tante fugaci e mutevoli orientazio­ni del pensiero 'umano. Essendo però in pieno sviluppo e successo quando questo libro fu pubblicato la prima volta, esso si affanna a combattervi quell'erroneo concetto: di poter cioè riformare la scuola, solo studiando il bambino. Le reazioni provocate e istantanee a stimoli materiali che si espongono all'anima durante qualche minuto secondo, sono quanto di più illusorio può immaginarsi, da chi tenti con questo di 'scoprire' qualche verità sull'anima umana. Ancor più illusorio è poi supporre che non solo la 'psicologia', ma anche l'''educazione'' possano venir rinnovate da un si­mile indirizzo! Infatti negli Stati Uniti d'America, la psicologia sperimentale applicata allo studio degli scolari coi testi Binet e coi loro derivati, o con reattivi sensoriali deri­vanti dai primi tentativi tedeschi di Fechner e Wundt, hanno condotto non già a rifor­me educative, ma a riforme delle prove di esame! Invece di far l'esame finale o l'esame di Stato sulla cultura dell'allievo, si propone là di fari o sul suo valore umano, sulle attitu­dini psichiche, raccolte a mezzo dei testi mentali. E tale sostituzione è la fine logica all'applicazione di reattivi istantanei e provocati.

Il mio concetto di esperimento differisce da questo in due modi. Primo, perché evita di provocare reazioni per volontà dell'esperimentatore; e offre invece dei reattivi alla libera scelta del soggetto; che, appunto, nella scelta stessa manifesta spontaneamente i propri .bisogni psichici. Secondo, perché i reattivi, benché siano mezzi analoghi a quelli del­la psicologia sperimentale, hanno però come finalità quella di permettere nel sogget­to lo stabilirsi di reazioni durevoli, cioè capaci di modificarne la personalità. Poichénon può esserci educazione altro che in uno stato dinamico, in una continua trasfor­mazione dell'individuo che deve perfezionarsi; e tale processo deve svolgersi secondo i dettami interiori della vita. Sono cioè le forze creative che devono svolgersi: e noi non dobbiamo sostituirci, in modo arbitrario, all'opera divina che si compie in ogni vivente. In­fatti non possiamo essere altro nell'opera educativa, che dei cooperatori della creazione: non possiamo perciò forzare il bambino a seguire i nostri reattivi, ma dobbiamo costrui­re i mezzi più adatti ad aiutare il bambino nel suo lavoro spontaneo.

Nella prima edizione del mio libro non avevo soltanto esposto il concetto dinami­co di un 'materiale di sviluppo', in opposizione a quello dei 'reattivi' della psicologia sperimentale; né avevo esposto una semplice teoria sul valore dell'attività spontanea del bambino. lo esponevo una serie di fatti e un'esperienza vissuta, abbastanza com­plessa per risultarne tutto un metodo di educazione.

Le mie esperienze però erano tutt'altro che rigide e logiche conclusioni, corri­

spondenti all'applicazione di un metodo esatto e positivo. Le manifestazioni dei bam­bini, debordanti dai rigidi limiti delle ricerche, mostravano qualcosa di nuovo, di vi­vente, che zampillava fuori dai miei tentativi, come farebbe una polla d'acqua sorgiva da una roccia. lo, in buona fede, come il semplice AIadino, avevo creduto di ten.ere in mano una lampada capace al più di condurmi in un luogo ancora inesplorato; ma la cosa che trovai inaspettatamente, fu il 'tesoro' nascosto nelle profondità dell'anima infantile. Ed è questo fatto nuovo, questa rivelazione sorprendente, e non ciò che potrebbe chiamarsi 'l'importanza del mio contributo alla scienza ufficiale', che sospinse il mio metodo così largamente fuori e lontano dal suo luogo di origine [].

Le manifestazioni psichiche dei piccoli bambini posti a vivere in un 'ambiente' creato sulla guida dei loro bisogni interiori hanno infatti rivelato forme di lavoro, ca­pacità di resistenza, qualità di obbedienza e di calma, e un progresso intellettuale che non si erano ancora riscontrati. Per questo l'ambiente dei nostri bambini, che non fu preparato per Plasmarli con la suggestione dell'esempio o della volontà dei maestri, ma per lasciarli liberi di esprimere se stessi, venne chiamato ambiente rivelatore.


(M. Montessori, Il metodo della pedagogia scientifica applicato all'educazione infantile, in M. Laeng, I classici della pedagogia italiana. I contemporanei, Giunti Barbera, Firenze 1979, pp. 60-61)




La polemica della Montessori contro le applicazioni pedagogiche nella psicologia sperimentale si fonda sulla convinzione che il dovere dell'educatore consista nella rea­lizzazione di "esperimenti" in cui non si impone all'allievo una volontà estranea, ma semplicemente lo si stimola a crescere in libertà, secondo la sua natura. La fondatrice delle "case dei bambini" è consapevole della possibile debolezza scientifica di questo approccio, ma è altresì convinta che l'opera educativa debba trovare il proprio limite nella libertà del soggetto da educare e che un tale vincolo non possa essere ignorato, pena il fallimento degli obiettivi che si intendono raggiungere.

Una possibile via per conciliare la salvaguardia della spontaneità e della libertà dell'allievo con un approccio pedagogico che non disdegni la metodologia sperimentale tradizionale è presentata da Gilbert De Landsheere, uno dei maggiori esperti di ricerca educativa a livello mondiale. Convinto che gli esperimenti debbano "integrarsi in maniera naturale con la vita degli studenti e dei docenti" e che il laboratorio debba essere costituito dalla stessa classe, nel passo sotto riportato De Landsheere descrive le caratteristiche del 'laboratorio pedagogico", ovvero di un ambiente in cui sia possibile il controllo rigoroso delle circostanze degli esperimenti e delle condizioni del gruppo in essi coinvolto.


Testo

De Landsheere: la classe come "laboratorio pedagogico"


L'esperimento in laboratorio. Questo tipo di esperimento consente, da un Iato, di pro­durre una situazione «che riproduca le esatte condizioni necessarie ad una ricerca e, dall'altro, di controllare certe variabili e di modificarne delle altre. Lo sperimentato­re è così in grado di osservare e di misurare gli effetti della manipolazione di variabili indipendenti rispetto alle variabili dipendenti, in una situazione dove l'azione degli al­tri fattori (effettivamente presenti, ma estranei allo studio in questione) è ridotta al minimo»'. II commento che L. Festinger pone in calce a questa definizione s'adatta anche alla pedagogia: «Si tratta però di una definizione che semplifica troppo le cose. Viste le tecniche sperimentali di cui dispone, il ricercatore - anche nella migliore del­le ipotesi - può ottenere solo con una notevole approssimazione la precisione ideale, voluta dalla definizione. E, man mano che le tecniche si perfezionano, sarà altresì pos­sibile attuare un maggiore controllo sugli esperimenti condotti in laboratorio. Ma, al­lo stato attuale delle cose, siamo obbligati a raggruppare sotto la voce 'esperimenti di laboratorio' una gran quantità di studi, il cui grado di precisione e di controllo è assai mutevole». []

Il laboratorio pedagogico. Col termine 'laboratorio pedagogico' si vuole indicare non soltanto i locali appositamente attrezzati, indipendentemente dalle aule normali (ap­parecchiature di misurazione, pannelli isolanti ecc.), destinati all'esame di individui isolati o di piccoli gruppi, ma anche le aule e gli interi edifici scolastici, almeno per quel tanto che è stato costruito o predisposto in funzione degli obiettivi di ricerca. Per esempio, in una sola classe, si possono riunire degli studenti in base a una proporzio­ne corrispondente ai diversi livelli socio-economici presenti in una determinata re­gione; oppure tenere conto all'inizio di una certa suddivisione fra quozienti intellet­tUali ecc.

La caratteristica fondamentale del laboratorio pedagogico consiste pertanto nel creare in maniera intenzionale e razionale delle condizioni umane e materiali tali da consentire l'effettuazione di esperimenti.



La sperimentazione scientifica applicata a situazioni educative richiede una serie di adattamenti di queste ultime: questa convinzione di De Landsheere nasce dal presup­posto teorico secondo cui gli esperimenti dovrebbero essere realizzati in quei contesti di vita e di relazioni interpersonali che caratterizzano la normale e quotidiana attività educativa.

Sulla base di considerazioni analoghe a quelle di De Landsheere, la seconda metà del Novecento ha visto la diffusione in campo pedagogico di correnti di pensiero incentrate su una reazione nei confronti dell'atteggiamento puramente 'quantitativo'  tradizione sperimentale. Uno dei sostenitori di tale svolta teorica, Duccio Deme­trio, propone infatti un approccio 'qualitativo' per la ricerca pedagogica, che tenga conto anche di fattori non misurabili e che esalti le autonome iniziative di quanti ope­rano direttamente in educazione, ossia dei «formatori».


Testo

Demetrio: un nuovo modo di sperimentare in educazione


Si ritiene, per comune convenzione, che il formatore sia un homo faber. E non una risorsa intellettuale alla quale parlare in modo intellettuale e quindi problematico. Non solo la scuola, ma anche la formazione universitaria ha le sue indubbie responsabilità nell'aver allontanato, e deluso, migliaia di potenziali ricercatori, seppur dilettanti.

Dal momento, fra l'altro, che il lavoro educativo quando lo si voglia svolgere bene (nelle sue più diverse accezioni) implica non soltanto la padronanza di innumerevoli saperi, e delle loro interconnessioni, ma il loro esercizio creativo. Il problema è ap­punto quello [] di far partecipare il formatore alla elaborazione del sapere pedago­gico e didattico.

A tale utopia [] la cui realizzazione aumenterebbe senz'altro la qualità del fare formazione, paradossalmente, ha nuociuto un indirizzo di ricerca in educazione che pareva permettere lo sblocco di tale situazione.

Non perché questa si sia diffusa nelle sedi della formazione fina ad occultare altre metodologie, ma perché essa 'raffredda' chi intenda applicarla.

Ci riferimento allo sperimentalismo (di cui nel nostro contributo si metteranno in luce non i vizi e le virtù, ma l'impercorribilità in ricerca qualitativa), e cioè a quella corrente empirica, ad indirizzo positivistico, che ha saputo restituire la pedagogia al discorso scientifico (o, per lo meno, dimostrarne la legittimabilità in tal ambito episte­mologico), circoscrivendola, pur sempre, ad un discorso che ritiene scientifico sol­tanto ciò che può essere quantificato.

Così [.]: «Il positivismo ha avuto il merito di aver favorito lo studio di quelle scien­ze (biologia, psicologia, tutte le sue forme, storia) che danno dei fatti educativi una conoscenza più concreta e positiva offrendo alla pedagogia una salda base scientifica necessaria per una illuminata e positiva metodologia».

Nonostante l'importanza dell'impresa e dell'utopia sperimentalista - che qui vo­gliamo risostenere e anzi avvalorare, benché con altre premesse -, non possiamo non con­cordare con la considerazione relativa alla palese evidenza che: «Lo sperimentalismo educativo, pur essendo tra l'espressione di esigenze di riaccorpamento tra l'educare effettivo e il lavoro teorico connesso all'educare, non ha cambiato sotto questo aspet­to la situazione. Semmai, l'ha peggiorata: in parte perché l'avvento dello sperimenta­lismo ha reso ancora più problematico il definirsi stesso e l'articolarsi del sapere peda­gogico, e in parte perché il sapere sperimentale richiede il padroneggiamento di tec­niche complesse, ed è di conseguenza meno accessibile agli educatori di quanto non siano o  appaiono altre forme di sapere». [.]

L'attività di ex perire concerne lo scopo stesso della attività di ricerca. Si ex-perisce (si trae dal fondo) per scoprire ciò che prima non si conosceva, o nemmeno supponeva. In senso lato, si esperisce una realtà rendendo visibile, meglio percepibile, ciò che ac­cade in quel contesto, in quell'individuo, in tempi e momenti specifici.

L' ex perire può avvenire in termini preliminari ed esplorativi, per tentativi e verifiche a breve termine, oppure, in base ad un progetto definito e contrassegnato da un sa­pere relativo al «che cosa e dove cercare». Quindi non necessariamente connesso ad una chiarezza relativa al perché cercare. Quando anche questo aspetto è palese al ricerca­tore, l'experire è guidato, sempre, da un quadro teorico o da qualche ipotesi ricondu­cibile al momento teoretico. E, cioè, ad una sintesi mentale della realtà che si è soliti definire: punta di vista, approccio, paradigma, modello, quadro concettuale ecc.

Sperimentare è invece tutt'altra operazione, assumibile in due accezioni:

- è, sperimentale, un comportamento euristico che intenda collaudare una data



innovazione valutandone gli esiti anche intuitivamente ed impressionisticamente;

- ma è pure, sperimentale, un piano di azione che intenda controllare con oppor­tuni strumenti (gruppi di confronto, di controllo, prove oggettive ecc.) gli esiti di un processo che sia stato volutamente indirizzato, od anche, di un solo evento, pur sem­pre artificialmente introdotto. Ciò che è importante è che il contesto in cui si svolge la sperimentazione sia pre-organizzato e attrezzato come un laboratorio e quindi prov­visto di dotazioni atte a misurare, e a far reagire, i comportamenti di coloro che ver­ranno quindi provocati dalle interferenze programmate;

- è, infine, nondimeno sperimentale, una interferenza formativa che intenda sol­tanto sollecitare, negli individui coinvolti in una data situazione, anche una sola rea­zione ad un solo stimolo; allo scopo di riesaminare l'efficacia dell'intervento con le persone che hanno partecipato al programma e che si sono prestate all'operazione.

Questa terza possibilità è quella che più si concilia con le premesse della ricerca qualitativa, dove le sperimentazioni vanno controllate direttamente da chi le pro­muove.


(D. Demetrio, Micropedagogia. La ricerca qualitativa in educazione,

La Nuova Italia, Firenze 1992, pp. XIV-XV, 5-6)


Demetrio postula dunque la possibilità di una pedagogia sperimentale attuata nel corso della normale attività educativa e concentrata sugli aspetti non misurabili dell'educare. Allo stesso tempo il suo richiamo allo sperimentare come 'collaudo' di una innovazione ci porta a una diversa lettura del concetto di sperimentazione peda­gogica.


La sperimentazione come innovazione: i metodi


Uno dei maggiori esperti di pedagogia sperimentale della prima metà del Nove­cento, Raymond Buyse, propone già nel 1935 di sostituire l'espressione 'pedagogia spe­rimentale' con 'sperimentazione in pedagogia'. Se ci atteniamo a questa nuova for­mula, possiamo, anche andando al di là delle intenzioni di Buyse, riflettere sulle mo­dalità con cui la sperimentazione è entrata a far parte, dal positivismo a oggi, di nume­rose attività educative. Da questo punto di vista non dobbiamo più intendere il termi­ne 'sperimentazione' nel senso di 'ricerca effettuata mediante l'applicazione del me­todo sperimentale', ma come esperienza o insieme di esperienze caratterizzate dalla 'messa in atto di metodi e approcci innovativi', in modo da renderne possibile una ve­rifica concreta.

In questo senso la sperimentazione educativa ha caratterizzato in modo particolar­mente vivace la pedagogia delle scuole nuove e dell'attivismo. Intesa come introdu­zione di modalità di lavoro significativamente differenti da quelle usuali e sufficiente­mente estese per poter trasformare l'attività educativa nel suo complesso, inizialmente l'innovazione riguarda perlopiù tecniche specifiche, ma la sua portata può successiva­mente estendersi alla fondazione di un nuovo metodo complessivo e/o di un 'istituzio­ne scolastica differente. Un esempio significativo a questo riguardo può essere trovato nell' opera delle sorelle Rosa e Carolina Agazzi ( 1866-1951, 1870-1945), le quali iniziano il loro cammino come educatrici fröbeliane, per poi introdurre nel metodo di Fröbel prime concrete innovazioni e, infine, essere invitate dal direttore generale delle scuole di Brescia, Pietro Pasquali, a sperimentare quello che diventerà il 'metodo Agazzi' nell'asilo del borgo di Mompiano, ovvero nella prima 'scuola materna'.


Testo

Rosa Agazzi: il metodo Fröbel non va irrigidito, ma innovato


Per ben intendere le intenzioni educative di Fröbel sarebbe utile, per chi studia con interesse pedagogico il lavoro educativo, fare la conoscenza, sia pure rapida, di tutto il processo scientifico che informa il metodo fröbeliano: dico sarebbe utile, per­ché ne avrebbe chiaro il concetto del suo organismo e potrebbe cavarne da se stesso quegli apprezzamenti di lode e di biasimo che sogliono andare di bocca in bocca dac­ché venne alla luce il metodo educativo di Fröbel. La letteratura fröbeliana è tanto ricca da non richiedere da parte nostra se non del tempo e della buona volontà per potercene occupare.

Il noto e ricco manuale del Delon (tradotto da Vittore Rava) per tacere di altri bel­lissimi, fu dei primi che servirono di guida alle maestre giardiniere italiane, quando venne qui importato il metodo fröbeliano.

Codesti libri avrebbero potuto far del gran bene, ma chi li lesse ne succhiò, con la miriade degli esercizi, tutta l'aridità schematica con cui si presentavano. Vi fu chi non comprese come lo schema informativo aspettava dall'educatrice la veste della genialità e la scintilla del sentimento. Come si ricevette il sistema tedesco nella fibra, tale rima­

se nell'applicazione quasi ovunque venne introdotto.                       .

A onor del vero non mancarono le menti larghe, colte e geniali le quali vollero e seppero adattarlo all'indole dei nostri bambini, pur conservandone il carattere scien­tifico. [00']

[Ora] non sarà più possibile abbandonarsi interamente a tutti gli esercizi che si trovano pedantescamente elencati nei manuali del sistema fröbeliano. L'educatrice scelga i più adatti, i più utili, i più piacevoli. Pensi, nello sceglierli, che il bambino si va educando per la vita e che questa non si esplica stando seduti al tavolino. Nella cerchia delle occupazioni geniali la donna può, con intelligenza e volere, trovare e inventare

lavoretti adatti alle mani bambine, anche prescindendo da quelli indicati da Fröbel.

Avviene sovente che un'idea geniale, maturata in una mente da filantropo, perda di mira, per un eccesso di zelo di chi la va applicando, la finalità per cui è stata elabo­rata. Questa, diremo, camuffatura delle altrui idee, come prese di mira gran parte del metodo di Fröbel, travisa oggi, ingenuamente, ogni altro sistema di educazione infantile. []

Saltare di punt'in bianco nel nuovo per disfarsi del vecchio, non è una buona norma. In ciò che è passato è sempre la radice di ciò che sta per venire. Non distruggere, modificare bisogna; trovare il nuovo, il meglio in ciò che ha dovuto cedere le armi al tempo.

Potremmo noi scordare che Fröbel ha dato la prima spinta al lavoro manuale nel­le pareti della casa educativa? Ritorniamo dunque alla fonte delle idee e vediamo di uniformarle al momento in cui viviamo.

Frobel ha trovato questo? Va bene, noi aggiungeremo quest'altro, senza per questo

perdere di vista il primo ideatore.


(R. Agazzi, Guida delle educatrici dell'infanzia, La Scuola, Brescia 1971, pp. 116-119)


Le sorelle Agazzi appartengono dunque a quella schiera di educatori che si colloca­no nella scia di un metodo precostituito, ma che, pur sentendosene fedeli interpreti, ne innovano in modo via via più radicale le caratteristiche (benché si debba ricordare che le Agazzi furono sostenute nella loro opera da istituzioni territoriali lungimiranti, che riconobbero il valore delle loro ricerche).


Diversa è la situazione di Maria Montessori, fautrice di un approccio alternativo all'innovazione della scuola infantile italiana. Lavorando con i bambini diversamente abili, la studiosa approda a importanti intuizioni teorico-educative, che la portano a un progetto di «educazione scientifica» sperimentato nel 1907 con la fondazione a Roma della prima «casa dei bambini». Riunendo in una sala tutti i bambini (di età compresa fra i 3 e i 7 anni) di un caseggiato popolare, e affidandoli alla direzione di una maestra, la Montessori dà vita all'esperienza pilota di un'istituzione del tutto nuova, per la qua­le negli anni delinea un metodo originale che avrà vastissima diffusione.


Testo

Montessori: dall'esperienza concreta a un metodo


Era la fine del 1906. Tornavo da Milano, dove ero stata eletta a prender parte all'aggiudicazione dei premi all'Esposizione internazionale, nella sezione di pedago­gia scientifica e di psicologia sperimentale. Fui invitata dal direttore generale dell'Isti­tuto dei Beni Stabili di Roma ad assumere l'organizzazione di scuole infantili da crear­si nelle case popolari [.]

Questo tipo speciale di scuola fu battezzato con l'incantevole nome di «Casa dei Bambini». La prima di esse fu aperta, con questo nome, il 6 gennaio 1907, in via dei Marsi, 53, e a me fu affidata la responsabilità della direzione. L'importanza sociale e pedagogica di una simile istituzione mi apparve in tutta la sua grandezza, ed io insistei su ciò che sembrava essere una visione, allora esagerata, del suo trionfale avvenire; ma oggi molti cominciano a comprendere ch'io previdi la verità. Il 6 gennaio, in Italia, è la festa dei bambini, corrispondente all'Epifania del calendario cattolico. È proprio come il giorno di Natale nei paesi protestanti, quando v'è albero di Natale, e i bambi­ni ricevono doni e giocattoli. Il 6 di gennaio, dunque, si raccolse il primo gruppo di piccoli, più di cinquanta. Era interessante vedere quelle creature così diverse dalle al­tre che frequentavano le solite scuole gratuite. Erano timide e goffe, apparentemente stupide e irresponsabili. Non erano capaci di camminare in fila, e la maestra faceva te­nere ognuna attaccata al grembiulino di quella che la precedeva.

Piangevano e sembrava che avessero paura di tutto - delle belle signore presenti, dell'albero e degli oggetti ad esso appesi. Non accettavano doni, né assaggiavano i dol­ci, né rispondevano se interrogati. Erano proprio come un gruppo di bambini selvag­gi. Non erano certo vissuti, come il piccolo selvaggio dell'Aveyron, in un bosco con gli animali, ma in una foresta di gente perduta, oltre i confini della società civile. Alla vi­sta di quel commovente spettacolo, molte signore osservarono che soltanto per un mi­racolo quei bambini avrebbero potuto essere educati, e dissero che avrebbero deside­rato rivederli dopo un anno o due. [.]

Ecco, dunque, il significato del mio esperimento didattico, condotto per due anni nelle Case dei Bambini. Esso rappresenta i risultati di una serie di prove da me fatte per l'educazione dell'infanzia, secondo i nuovi metodi. Non è certo un fatto di pura e semplice applicazione dei metodi di Séguin agli asili infantili, come risulterebbe a chiunque consultasse le opere di questo autore. Tuttavia è pur vero che le prove di quei due anni hanno una base sperimentale che risale all'epoca della Rivoluzione francese e assomma le fatiche di tutta la vita di Séguin e di ltard.

Nelle due «Case dei Bambini» di San Lorenzo avevo, dal 6 gennaio nell'una e dal 7 marzo nell'altra, date delle rispettive inaugurazioni, applicato solo gli esercizi del­la vita pratica e dell'educazione dei sensi, fino a tutto il luglio, epoca in cui un mese di vacanza avrebbe interrotto le lezioni. E ciò perché, come tutti, ero anch'io compresa­ dal pregiudizio che fosse necessario cominciare il più tardi possibile l'inse­gnamento della lettura e scrittura ed evitarlo in un'età inferiore ai sei anni. Ma du­rante i mesi trascorsi, i bambini sembravano domandarsi qualche conclusione dagli esercizi che li avevano già intellettualmente sviluppati in modo sorprendente. Essi sa­pevano vestirsi e spogliarsi, lavarsi; sapevano spazzare i pavimenti, spolverare i mobi­li, assestare le stanze, aprire e chiudere i cassetti, maneggiare le chiavi delle serratu­re, riporre in bell'ordine gli oggetti nelle credenze, innaffiare i fiori; sapevano os­servare gli oggetti, sapevano riconoscere gli oggetti col solo toccarli; alcuni di loro vennero a chiederci francamente d'imparare a leggere e a scrivere. E a seguito dei nostri rifiuti, alcuni bambini vennero a scuola sapendo disegnare degli o sulla lava­gna e mostrandoceli quasi come una sfida. Le madri, poi, in gran numero, vennero a chiederci come una grazia d'insegnare a scrivere ai loro bambini, «perché» dice­vano «qui si svegliano e imparano facilmente tante cose che se insegnaste a leggere e scrivere imparerebbero presto e risparmierebbero le grandi fatiche della scuola ele­mentare'. La fede delle madri che da noi i loro piccini avrebbero imparato senza fatica a leggere e scrivere mi colpì. E ripensando ai risultati ottenuti nelle scuole dei defi­cienti [persone diversamente abili], decisi, durante le vacanze di agosto, di far una prova alla riapertura della scuola, cioè in settembre. Ma poi riflettei che nel settem­bre sarebbe stato bene riprendere gl'insegnamenti interrotti, e cominciare la lettura e scrittura solo in ottobre, all'epoca dell'apertura delle scuole elementari, ciò che avrebbe portato nei nostri il vantaggio di cominciare contemporaneamente a quelle lo stesso insegnamento.

In settembre dunque cominciai a cercare chi fabbricasse il materiale, senza trova­re operai a ciò disposti. Un professore mi consigliò di fare ordinazioni a Milano e que­sto portò a una gran perdita di tempo. Io volevo far fabbricare un alfabetario magni­fico come quello pei deficienti: in legno coperto di smalto verniciato e metallo: poi mi sarei contentata di sole lettere di smalto simili a quelle che servono a fare le iscrizioni sulle vetrine dei negozi, ma non ne trovai. [.]

Così era passato tutto l'ottobre; già i bambini di prima elementare avevano empi­to pagine di bastoncelli e i miei stavano ancora nell'attesa. Allora mi decisi con le mae­stre a intagliare in semplici fogli di carta delle lettere d'alfabeto molto grandi, e una maestra le colorì rozzamente da un lato con una tinta azzurrina. In quanto al far toc­care le lettere, pensai d'intagliare le lettere dell'alfabeto in carta smerigliata e ingom­marla su carta liscia, fabbricando così oggetti molto analoghi a quelli dei primitivi esercizi del senso tattile. [.]

Capii dunque che un alfabeto di carta facilmente poteva moltiplicarsi in più copie, e così essere usato da molti bambini contemporaneamente, non solo per il riconosci­mento della lettera, ma per la composizione di parole: e che nell'alfabetario di carta smerigliata avevo trovato la guida tanto desiderata al dito che tocca la lettera, in guisa che non più la vista soltanto, ma il tatto veniva direttamente a insegnare il movimento della scrittura con esattezza di controllo.

Prese dall'entusiasmo, ci mettemmo, le due maestre ed io, la sera dopo scuola, a intagliare una gran quantità di lettere alfabetiche in semplice carta da scrivere: in­gommando quelle di carta smerigliata, e tingendo in azzurri no le altre, e poi spar­gendole sui tavolini per ritrovarle asciutte il mattino dopo. Mentre così lavoravo, mi si apriva innanzi alla mente un quadro chiarissimo del metodo in tutta la sua compiutez­za, così semplice, che mi faceva sorridere il pensiero di non averci pensato prima. La storia dei nostri tentativi fu molto interessante.

Un giorno che una delle maestre era malata, andò a sostituirla una mia allieva, la signorina Anna Fedeli, professoressa di pedagogia in una scuola normale; quando an­dai la sera a trovare la Fedeli, questa mi mostrò due modificazioni fatte all'alfabeto: una consisteva nell'aver posto in basso e dietro a ciascuna lettera un'asticina trasver­sale di carta bianca perché il bambino riconoscesse il verso della lettera, anch'egli spesso­ girava da tutte le parti: un'altra consisteva nell'aver fabbricato un casellario di car­tone, ove riporre in ogni casella un gruppo di lettere uguali, mentre stavano prima tutte insieme confuse in un mucchio. Conservo ancora quel casellario, costruito con il vecchio cartone d'una scatola rotta che s'era trovata in portineria, e cucito rozzamen­te con del filo bianco. La Fedeli me lo mostrava e quasi scusandosi dell'indecente la­voro, ma io me ne entusiasmai: capii subito che le lettere del casellario erano un sus­sidio prezioso all'insegnamento: infatti si offriva agli occhi del bambino la possibilitàdi comparare tutte le lettere e di scegliere quella designata.

Così ebbero origine il metodo e il materiale.


(M. Montessori, La scoperta dell'infanzia, Garzanti, Milano 1953, pp. 36-39, 218-221)



Il passo della Montessori qui riportato è assai significativo per la nostra riflessione sull'innovazione, e ciò per almeno due aspetti. In primo luogo esso mostra come la na­scita di un'istituzione educativa sperimentale possa talvolta essere collegata alla con­creta volontà di 'fare qualcosa' per affrontare un' "emergenza" formativa non ancora accolta dalle istituzioni esistenti. In secondo luogo testimonia la convinzione montes­soriana che certe caratteristiche dell'innovazione (in questo caso quelle relative al me­todo) possano prendere origine dalla feconda interazione tra i diversi soggetti coinvol­ti nell'esperimento.

Il caso della Montessori, così come già quello delle sorelle Agazzi, corrisponde alla messa a punto di un approccio, o di un metodo, innovativo che, prima o dopo, conflui­sce in una nuova istituzione educativa, inizialmente considerata 'speciale', come accade appunto per la «casa dei bambini» e per la scuola materna. Diverso è il caso di certe in­novazioni di metodo che sorgono a partire da una situazione educativa consueta: è ciò che si verifica per la maggior parte degli insegnanti nella pratica quotidiana. Una buo­na testimonianza a questo riguardo ci viene dall'opera di un altro importante maestro e pedagogista italiano, Mario Lodi.


Testo

Lodi: cambiare insieme la scuola


I bambini


I bambini hanno frequentato la prima classe con una maestra a incarico annuale. Li ho ricevuti in seconda che sapevano già leggere e scrivere. Un solo caso difficile, che abbisognava di tempi lunghi e che si è risolto in modo positivo nel tempo.

I bambini abitano nelle tre piccole frazioni di Piàdena: Vho (850 abitanti circa), San Paolo Ripa d'Oglio (circa 120), San Lorenzo Guazzone (120). Una bambina, An­tonella C., vive in un cascinale isolato a 7 chilometri dalla scuola.

Il pulmino del Comune, con servizio gratuito, li raccoglie il mattino e li riporta a casa.

Una bambina è leggermente ritardata nello sviluppo mentale e in prima classe è stata seguita con un programma individuale. Ciò ha contributo a isolarla dai compa­gni. Conseguenza: i compagni la aiutavano perché la sentivano 'diversa' e lei si la­sciava aiutare perché tale si credeva. Frequenti reazioni di asocialità scoppiavano nei confronti dei compagni, anche di quelli che l'aiutavano. Decisione presa d'accordo con la madre: la bambina sarà a tutti gli effetti considerata alla pari; l'aiuto le verrà dal gruppo durante il lavoro collettivo.

Gli altri bambini, riguardo alla preparazione e alle capacità di apprendimento, for­mano un gruppo abbastanza omogeneo: sanno tutti, più o meno sveltamente, leggere, scrivere e contare; sono stati abituati a disegnare liberamente; hanno tutti chiaro il va­lore posizionale dei numeri.

Per quanto riguarda il carattere mi trovo invece di fronte a bambini molto diversi tra loro: c'è il timido e l'invadente, il pigro e il frettoloso, il ragionatore e il superfi­ciale, il taciturno e il chiacchierone: una eterogeneità che dovrebbe contribuire posi­tivamente a realizzare una comunità vivace, con molti problemi e apporti differenziati.



Unica difficoltà: abituati a ricevere il voto, prima di qualsiasi attività me lo chiedono. Qualche bambina, dopo quattro o cinque mesi, saltuariamente ancora lo vuole, tanto radicata le è rimasta la necessità di questa gratifica. Verso la fine dell'anno nes­suno ne ha più bisogno, per due motivi: a) ogni attività è legata alla vita ed è decisa in­sieme, quindi poggia sull'interesse dei bambini. (Anche noi, una cosa che piace la fac­ciamo gratis, anche se pare che costi fatica e tempo. Chi non sa donare tempo e intel­ligenza è colui che non sa vivere in tensione ideale, non ti capisce e ti chiede: «Ma chi te lo fa fare?»; b) quando si lavora insieme il prodotto è un'opera collettiva in cui con­fluiscono i contributi dei singoli, non separabili dal contesto e quindi non misurabili.

L'organizzazione del lavoro

Cerco di legare le attività alla vita e questo mi richiede una nuova organizzazione del lavoro per valorizzare tutti i contributi.

Il modo naturale di 'sentire' gli altri in libertà si fonda su due presupposti: a) eli­minare qualsiasi forma di timore e di soggezione (e il voto è l'impedimento maggio­re); b) metterli in condizione, e dar loro il tempo, di esprimersi con tanti mezzi, di cui uno tra i più importanti è la parola.

La conversazione è quindi un tecnica fondamentale, difficile da imparare (nella scuola nozionistica gli alunni hanno la parola solo quando sono interrogati), ma ne­cessaria per comprendere gli altri, capire i problemi in profondità, progettare insieme. È una tecnica che s'impara lentamente perché ogni progresso è legato alla matu­razione umana e intellettuale: non è facile stare all'argomento, ascoltare sino alla fine chi parla, ricordare o annotare i punti essenziali del discorso altrui, attendere per in­tervenire, parlare evitando la ripetizione dei concetti già espressi e portare avanti il di­scorso collettivo come una costruzione razionale che sale a poco a poco.

Conversando viene alla luce una miniera inesauribile di fatti e di situazioni emo­zionali: è la ricchezza della vita che i bambini colgono dalla loro angolazione. Dove si parla, si impara a parlare. Se a scuola i bambini tacciono, come possono divenire ca­paci di comunicare le proprie idee?

Devo quindi saperli ascoltare per capire i problemi ancora segreti per me e per la comunità. Una semplice calcolo: 4 ore di scuola fanno 240 minuti. Una classe di 20 alunni dispone in media di soli 12 minuti ~ testa, se il maestro tacesse. Siccome anche il maestro ha il diritto di parlare, la media scende. Cinque anni di scuola così, a tempo pieno, potrebbero far disimparare al bambino l'uso della lingua! Soltanto una diversa organizzazione della vita scolastica, dove le attività di gruppo motivate coin­volgano tutti nel lavoro materiale e intellettuale di progettazione e esecuzione, può dare al bambino quello strumento importantissimo che è la lingua orale.

Le attività dei gruppi prendono l'avvio dagli spunti che emergono durante le con­versazioni. Ascoltare la vita dei compagni dalla loro voce è sempre un momento di forte interesse. Ogni fatto è un ulteriore varco nella cortina che ci separa dagli altri e ci nasconde, per capire l'esistenza quotidiana di ognuno, per avvicinarsi agli altri.

I fatti possono essere comunicati col disegno, col testo orale o scritto, o con altro mezzo; dopo l'ascolto i bambini domandano al protagonista dell'esperienza eventua­li chiarimenti; poi, se vogliono, esprimono le loro preferenze motivandole (il raccon­to può essere interessante per il contenuto o per la forma o per altro motivo); infine suggeriscono per tutti i testi, la migliore utilizzazione: un fatto potrebbe infatti diven­tare un grande pannello o una scena di teatro, un libro o un film; non è raro il caso di un'idea espressa in un testo che diventa poesia. Se il fatto pone un problema che può essere generalizzato, può nascere una ricerca 'sul campo' mediante l'indagine, l'in­tervista, la raccolta e l'interpretazione dei dati, l'ipotesi, la verifica, la sintesi ecc. Mol­ti testi diventano lettere ad amici veri con i quali si tiene corrispondenza.

Il piano di lavoro si costruisce così a poco a poco, con tutte le radici nel terreno della realtà ambientale e psicologica. Un tabellone esposto alla parete, ben visibile a tutti, riporterà le attività di gruppo proposte e accolte dall'assemblea, ripartite in atti­vità collettive, di gruppo e individuali. Accanto a ognuna il nome di chi vi si dedicherà. È l'impegno verso la comunità a realizzare un progetto concordato, è l'educazione al senso di responsabilità.

Attività collettiva può essere lo scrivere insieme un racconto ~ la sceneggiatura di un film; attività di gruppo può essere un'indagine o la pittura di un pannello; attività individuale può essere scrivere un testo o una lettera, fare un disegno, leggere un rac­conto ecc. E ovvio che l'educatore suggerirà ai bambini di non impegnarsi in più gruppi contemporaneamente, ma di scegliere il lavoro più congeniale.

Suddivisa la giornata (ma non rigidamente) in tre momenti che si alternano anche più volte a seconda delle classi non ho avuto grosse difficoltà: ognuno sa cosa fare e conosce la motivazione del proprio lavoro, e soprattutto lo sa collocare in un contesto generale che il cartellone sintetizza visivamente.

Le difficoltà vengono di più dalla scarsa disponibilità dello spazio, come nel nostro caso, chiusi come eravamo dentro un'aula senza sbocchi verso l'esterno, in una scuo­la senza un metro quadrato di verde e senza un albero. Abbiamo trasformato gli an­goli dell'aula in piccoli atelier per la pittura, per il gioco del teatro, per la lettura, per la stampa. A poco a poco, dai primi momenti di apparente confusione, siamo passati al lavoro autonomo dei gruppi fissi fatto a turno (come la stampa), e al lavoro dei gruppi di studio che durava sino alla conclusione dell'impegno. Il tutto entro una pia­nificazione agile e adattabile alle varie situazioni.


(M. Lodi, Insieme. Giornale di una quinta elementare, Einaudi, Torino 1974, pp. V-X)


Il passo qui citato mostra come l'innovazione possa scaturire anche semplicemente da un diverso modo di intendere la situazione scolastica 'normale', prestando atten­zione_ai bisogni dei soggetti coinvolti. Allo stesso tempo essa deve originarsi da un pun­to di vista 'forte' sull'attività educativa, basato su convinzioni teoriche e obiettivi precisi.

Tale punto di vista corrisponde, nel caso di Lodi, a quello del 'Movimento di Coope­razione Educativa', sorto in Italia intorno al 1950 sulla scia delle concezioni di Célestin Freinet maestro e pedagogista francese noto per l'introduzione della tipografia in classe.


Testo

Freinet: come le tecniche possono cambiare la scuola


Ogni tecnica presuppone un materiale.

La tecnica tradizionale possiede un materiale rudimentale certamente, ma pro­porzionato alle sue ambizioni: il quaderno di scuola e i manuali scolastici.

La nostra tecnica non avrebbe potuto svilupparsi armoniosamente fino a preten­dere di soppiantare quella che la precedeva se noi non fossimo giunti prima di tutto a creare, poi a mettere a punto, a vendere o far vendere, un materiale adeguato con l'aiuto di un'organizzazione che permette i nuovi procedimenti.

Sarà dunque necessario precisare qui i fini pedagogici e il modo di impiego di quel materiale originale senza il quale non ci si potrebbe lanciare con speranza di successo sulla nuova via. []

La Tipografia a Scuola e gli scambi interscolastici sono al centro della nuova tecnica. []

La cassetta dei caratteri, le interlinee, l'inchiostro, i caratteri stessi sono articoli correnti del commercio tipografico.

Certe parti del nostro materiale invece hanno richiesto al nostro gruppo un lungo lavoro di messa a punto che ci ha condotti, possiamo dire, alla perfezione pedagogica.

Abbiamo espressamente creato per l'uso delle scuole la nostra 'pressa Freinet a te­laio', che, realizzata oggi in grande serie in alluminio, è di una semplicità che non può essere superata, indeformabile e d'una solidità a tutta prova. Questa pressa non ha che un solo inconveniente, che d'altra parte non è necessariamente un inconve­niente. L'inchiostratura va fatta a mano da un alunno-inchiostratore. Certamente, il bambino che inchiostra rischia di sporcarsi, ma questa funzione è particolarmente piacevole ai bambini perché è un lavoro utile. Se ci si sporca un poco, ci si lava []

Le tecniche, così come noi le andiamo sviluppando, poggiano su basi solide, per­fettamente adeguate ai nostri alunni e alle nostre classi, perché nate e praticate in queste classi stesse.

La gran massa dei maestri segue oggi i nostri lavori; gli ispettori stessi devono ar­rendersi all'evidenza e riconoscono i risultati ottenuti dai nostri aderenti; le scuole normali iniziano i futuri maestri alle tecniche Freinet; in quasi tutti i dipartimenti le classi che stampano sono scelte come classi di tirocinio: lentamente, ma sicuramente, le idee che difendiamo penetrano e influenzano la pedagogia tradizionale.

E malgrado il potere della 'routine', malgrado gli ostacoli che i regimi degli oppressori pongono sul nostro cammino, un sempre più grande numero di maestri si prepara a se­guire la via che abbiamo tracciata e su cui camminiamo sempre con prudenza e decisione.[]

Gli educatori preoccupati della 'forma' potranno, certamente, se lo desiderano, adattare la tipografia ai loro metodi di lavoro. Noi però pensiamo che, soprattutto nel­le elementari, la nostra attività debba interamente basarsi sui bisogni funzionali dei fanciulli, che «la scuola debba uscire di terra con il colore locale e un concime che la renda forte» I , che la vita del bambino immersa nell'intensa vita sociale debba essere il motore essenziale e la motivazione capitale del nostro sforzo educativo.

Noi penetriamo da una parte nel terreno saldo, attivo e fecondo della vita e degli interessi infantili per elevarci fino alle acquisizioni previste dai programmi e alle qua­li ridiamo un senso creatore ed educativo.


(C. Freinet, E. Freinet, Nascita di una pedagogia popolare,La Nuova Italia, Firenze 1955, pp. 135-171 passim)


Freinet dimostra la salda convinzione che l'introduzione di tecniche nuove nella scuola convenzionale possa avere un profondo significato di innovazione globale. In questo senso una trasformazione sul piano del metodo e delle tecniche può diventare la chiave di volta di una vera e propria riforma dell'educazione, che parte dal basso e che muta le relazioni, i tempi e gli ambienti dell'istituzione scolastica.



L'innovazione delle istituzioni e delle organizzazioni


A questo punto occorre osservare che le innovazioni della pratica educativa sono an­che state effettuate mediante la creazione di nuove istituzioni (come abbiamo già visto a proposito della Montessori), o addirittura di intere nuove organizzazioni scolastiche.

La riflessione in tale campo non può prescindere dal movimento delle scuole-nuove, le cui concezioni pedagogiche si opponevano all'idea di una scuola "passiva", cioè pu­ra trasmettitrice del sapere. A partire dal periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento, le scuole nuove conoscono una diffusione a livello mondiale, con caratteristiche pecu­liari a seconda dei vari Stati (Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, Svizzera, Belgio, Olanda, Spagna, Colombia, India, Giappone) e con conseguenti diverse forme di sperimentazione.

Abbiamo scelto di riportare qui una testimonianza relativa a un'esperienza italiana di inizio Novecento che a tale movimento si collega, quello de 'La Rinnovata', una scuola aperta nel 1911 da Giuseppina Pizzigoni nel quartiere milanese della Ghisolfa. 'La Rinnovata' nasce dopo che l'educatrice ha redatto un preciso piano organizzativo e educativo, riunito un Comitato promotore, ottenuto la qualifica sperimentale dal Mi­nistero dell'Istruzione, e locali e sostegno economico dal Comune di Milano.


Testo

Pizzigoni: una scuola "rinnovata" in tutti i suoi aspetti


Nel 1911, e precisamente il 1° di Ottobre, si aperse la 'Rinnovata' in reparto Ghisolfa. Nel padiglioncino döcker concessoci dal Comune e annesso alla vecchia scuola elementare della Ghisolfa, accolsi in due aule 60 bambini di sei anni: 30 maschi e 30 femmine, e così formai due sezioni miste di classe l'. Insegnanti: io e la Prof. Maria Levi, che con me aveva vissuto il mio pensiero e lavorato per la sua attuazione pratica.

Gli scolari furono visitati da una Commissione medica durante le iscrizioni: prima quindi che sedessero sui banchi della scuola; e si tennero tutti quelli che la visita medica riteneva non pericolosi per la salute degli altri, cioè non affetti da nessuna malattia trasmissibile in atto.

Io volevo che l'esperimento si facesse con ragazzi normali; ma ben sapete che la normalità psichica non è sempre riconoscibile a prima vista: ond'è che fra gli iscritti si notò a fine d'anno qualche elemento anormale, che fu studiato e allontanato dalla scuola.

[] I bimbi si sarebbero trovati insieme durante le lezioni di musica, in certe passeggiate istruttive, a colazione e a ricreazione.

Oggi la 'Rinnovata' ospita un esercito di bambini dei due sessi, che ha il riparto dei piccolissimi: lattanti e slattati; l'asilo infantile; 3 sezioni miste di classe la e 3 di classe IIa; 4 sezioni di IIIa (2 femminili e 2 maschili); 3 di IVa (l maschile, l femminile e l mista); 2 di Va (l maschile e l femminile) e i 3 corsi secondari d'avviamento al lavoro, così suddivisi: 3 primi (2 maschili e l femminile); 2 secondi (1 maschile e 1 femminile) e 1 terzo misto, combinato però in modo che i maschi non si trovino mai in classe assieme con le ragazze.


Orario


Il tempo adeguato al lavoro è una condizione indispensabile sempre e in tutto, ma in modo indiscutibile all'educatore.

L'orario della 'Rinnovata' è a limiti indefiniti, come a limiti indefiniti sono, in un certo senso, il suo programma e il suo metodo; esso cioè comincia e finisce con le necessità dello scolaro, pure avendo la scuola un orario fisso stabilito. Si disse da qualcuno: Che lungo orario!

Io tengo per fermo che tutti gli scolari, da qualsiasi ceto provengano, hanno le stesse esigenze fondamentali: aria, luce, moto, lavoro dosato, riposo, atmosfera serena, morale; abitudini sane, buon esempio

E tengo per fermo che assai raramente i bimbi hanno tutto quanto è loro indispensabile per vivere bene fisicamente e psichicamente.

La scuola deve dunque provvedere.

Di regola, la scuola si apre alle 9 e si chiude alle 17 durante l'inverno. In estate inizia alle 81/2. []


Insegnanti


Gli insegnanti per la 'Rinnovata' furono reclutati dapprincipio da me, fra i miei amici personali. Esaurita ogni mia possibilità di scelta, mi affidai al Comune, che vi mandò qualche raro maestro che scelse spontaneamente la 'Rinnovata' quale campo di lavoro e di studio, e di regola quei maestri che, piuttosto di lasciarsi mandare all'ultima periferia della città, si adattarono a venire alla 'Rinnovata'.

In verità questo criterio di scelta non era lusinghiero per me, né utile per la scuola. Finalmente ora si pensa anche dall'Autorità scolastica di scegliere gl'insegnanti per la 'Rinnovata' fra chi la conosce per averla studiata. E ciò è finalmente consacrato in uno speciale regolamento.


L'esperienza personale


Ho detto nella prima lezione che il maestro di classe è la guida dello scolaro nell'apprendere dalle cose e dai fatti. È anzi .colui che predispone cose e fatti per l'educazione de' suoi scolari.

Nella scuola ci sono artisti, artieri, agricoltori, pediatri, a testimoniare che l'arte deve essere affidata agli artisti; che gl'insegnanti specializzati sono una necessità, in modo particolare nei corsi d'avviamento al lavoro.

Del resto, ho detto, ogni uomo che venga a contatto per ragioni di studio col bambino gli è maestro. Il ragazzo sia messo a contatto con chi sa, ed ecco che maestri gli sono a volte ingegneri, industriali, banchieri, e operai, e pescatori, e montanari e marinai

Ho detto che le cose possono essere maestre.

Sono maestri infatti gli animali e le piante; e un monte, un fiume, un lago, il mare;

maestri una cascata, una cava, una risaia, un ponte: tutto ciò che il maestro di classe ritiene fonte di educazione per i suoi scolari; quel maestro di classe, che è chiamato a dirigere le anime secondo l'ideale educativo, servendosi dei mezzi naturali contingenti; quel maestro che deve avere la verità come mèta, e che deve donare la sua stessa anima per giungervi. Egli deve far camminare i suoi scolari sulla strada che apre loro orizzonti sconfinati: la strada della esperienza personale. []




L'ambiente


Ho detto: l'ambiente scolastico della 'Rinnovata' è il mondo.

Anche la scuola più povera lo ha.

La 'Rinnovata' ha però anche un ambiente chiuso: ma le aule luminose si aprono direttamente sul giardino o sul campo; e le aule sono ben arredate e bene decorate; la "Rinnovata" ha una palestra per la ginnastica svedese e per la ginnastica ritmica; ha un teatro, un refettorio; ha la piscina invitante, ed officine e laboratori e sala di musica; la cucinetta e sala da pranzo e lavanderia per le esercitazioni pratiche di economia domestica.

E poi: le officine fuori scuola; e gaso metro, cartiera, vetreria, saponificio, tintorie, pastifici, fonderie, cantieri, impianti idroelettrici

E poi gl'Istituti pubblici: Municipio, Palazzo del Governo, Bagni, Ospedali, Mercati, Posta, Banca, Teatro, Conservatori di musica, Biblioteche, Pinacoteche, Musei d'arte, di storia, di scienze, Stazioni ferroviarie, Basiliche

E poi gl'Istituti di beneficenza: Scuole all'aperto per gracili; Scuole per anormali, Orfanotrofi, Ricoveri per i vecchi, per i ciechi, i sordomuti, i rachitici, i veterani, i grandi invalidi di guerra

E veniamo all' ambiente aperto: prima di tutto il giardino-orto della scuola, i chioschi, i campi sportivi.

E fuori scuola: i giardini pubblici, le serre comunali, il parco, la fognatura e tutte le vie e le piazze principali della città, il cui insieme dà il concetto fondamentale della topografia di Milano. []

Ambiente scolastico sono i Comuni limitrofi per la intuizione di Provincia:, i capoluoghi della Provincia per l'intuizione della regione. E si va al confine naturale e al confine politico.

Così una barca, un battello, il treno, un bastimento, la spiaggia del mare, la vetta raggiunta di un monte sono per la 'Rinnovata' ambiente scolastico.

E le Dolomiti, e Venezia, e Firenze, e Roma!

Ambiente scolastico è ovunque ci sia ragione di studio.

(G. Pizzigoni, Le mie lezioni ai maestri delle scuole elementari d'Italia, in M. Laeng, I classici della pedagogia italiana. I contemporanei, Giunti Barbera, Firenze 1979, pp. 112-117)

Dal brano sopra riportato emerge come 'La Rinnovata' rivoluzioni il modo di fare scuola nei tempi, nei modi, nei luoghi e nella scelta degli insegnanti. La sperimenta­zione pur attenendosi ai programmi ministeriali promulgati nel 1905, mira infatti a vi­vificare l'apprendimento per mezzo della creazione di un ambiente sereno e dinamico, al cui interno l'allievo possa realizzare le proprie attività come libera espressione di sé e come crescita della propria personalità, attraverso un'offerta educativa più ampia sotto il profilo del tempo a disposizione e del tipo di esperienze proposte.

Nell'osservare che la volontà di sperimentare in condizioni ottimali determina nella Pizzigoni la scelta di selezionare anche gli allievi, con la conseguente esclusione di co­loro che, malati o diversamente abili, potrebbero distogliere le energie degli educatori e falsare i risultati dell'esperimento, possiamo notare come tale atteggiamento sia profondamente diverso da quello di Maria Montessori, la quale proprio nell'educazio­ne delle persone diversamente abili aveva invece visto una risorsa cruciale per innovare il metodo dell'educazione di tutti.

In ogni caso, l'esperimento della 'Rinnovata' dimostra che la creazione di una nuo­va istituzione scolastica può implicare innovazioni organizzative di grande portata, potenzialmente estensibili ad altri ordini e gradi. Un processo per certi versi analogo compare nell'esperienza realizzata da John Dewey (1859-1952) con la fondazione nel 1896 di una scuola presso l'Università di Chicago.


Testo

Dewey: un sistema di scuole con quattro obiettivi


La scuola ebbe inizio tre anni fa la prima settimana di gennaio. [] Cominciammo con quindici ragazzi in una casetta della 57' strada. L'anno seguente ci trovammo a Kimbark Avenue con venticinque ragazzi e di lì ci traslocammo a Rosalie Court in un ambiente più ampio che ci permise di prendere quaranta ragazzi. L'anno dopo, negli stessi locali, il numero degli alunni salì a sessanta. Quest'anno esso ha raggiunto i no­vantacinque, e la scuola si è trasferita al numero 5412 di Ellis Avenue, dove speriamo di poter restare finché avremo edificio e terreno in nostro.

Durante il primo anno della scuola avevamo ragazzi tra i sei e i nove anni di età, ora ne abbiamo tra i quattro e i tredici. I ragazzi del gruppo più anziano si trovano ap­punto nel loro tredicesimo anno. È questo il primo anno in cui abbiamo bimbi al di­sotto di sei anni, e li abbiamo potuti accogliere grazie alla generosità dei nostri amici di Honolulu, H. I., i quali stanno dando vita lì a un giardino d'infanzia concepito se­condo i nostri stessi principi. []

La scuola elementare si presenta fin dall'inizio sotto due aspetti: quello ovvio dell'istruzione dei ragazzi che le sono stati affidati; e quello del suo rapporto con l'Uni­versità, giacché appunto la scuola è a carico dell'Università e forma una parte del suo lavoro pedagogico.

Quando la scuola fu iniziata si avevano in mente certe idee o meglio certe que­stioni e problemi, certi punti che sembrava valesse il conto di esaminare. [] si è spesso creduto che la scuola cominciò con un certo numero di principi e idee già fatte che dovevano essere subito messe in pratica ed è opinione corrente che io sia l'autore di queste idee e principi già fatti e da attuare. Appunto per questo colgo l'oc­casione per dichiarare che la gestione educativa della scuola, la sua amministrazione, la scelta delle materie, l'elaborazione dei corsi di studi, nonché l'effettiva istruzione dei ragazzi sono stati quasi completamente affidati agli insegnanti della scuola; e che c'è stato uno sviluppo graduale dei principi e dei metodi educativi, non una dotazio­ne precostituita di essi. Gli insegnanti cominciarono con punti interrogativi piuttosto che con regole fisse; e se ad essi si è riusciti a dare qualche risposta, lo si deve agli in­segnanti. In generale si può dire che noi cominciammo col proporci quattro que­stioni o problemi: .

l. Cosa si può fare, e in che modo, per portare la scuola in rapporto più .stretto con la vita della casa e del vicinato, invece di avere nella scuola un luogo dove il ragazzo si reca soltanto per imparare certe lezioni? Che cosa si può fare per abbattere le barrie­re che sfortunatamente son venute a separare la vita scolastica del bimbo dal resto del­la sua vita quotidiana? []

2. Cosa si può fare per introdurre nello studio della storia, della scienza e dell'arte degli argomenti che abbiano un valore positivo e un significato reale nella vita stessa del bimbo; e che rappresentino, anche per i più piccoli, qualche cosa che metta con­to di essere perseguito con abilità e conoscenza, allo stesso modo di quel che accade per lo studente medio e universitario? []

3. Come si può far procedere l'istruzione in questi rami formali e simbolici, nella padronanza, cioè, dell'abilità del leggere, scrivere e adoperare i numeri in maniera in­telligente, in modo che l'esperienza e l'attività di ogni giorno costituiscano sempre il suo sfondo e che essa si svolga in rapporto preciso con altri studi forniti di contenuto più strettamente attinente ad essa? []

4. Attenzione individuale. Questa si consegue in piccoli gruppi - di otto o dieci ragazzi per classe - e con molti insegnanti che vigilino sistematicamente sui biso­gni e sulle conquiste intellettuali e sul benessere e sullo sviluppo fisico del bim­bo. []

Penso che questi quattro anni presentino adeguatamente gli scopi della nostra in­dagine. Si dà spesso alla nostra scuola il nome di scuola sperimentale, e in un certo senso questo nome le conviene. Ma io non amo adoperarlo troppo, per timore che i genitori credano che noi stiamo compiendo degli esperimenti sui loro figli e che quin­di naturalmente protestino. La nostra è una scuola sperimentale - almeno questa è la mia fiducia - in rapporto all'educazione e ai problemi educativi. Noi ci siamo sforza­ti, provando e facendo, e non soltanto discutendo e teorizzando, di renderci conto se e come questi problemi si possono risolvere.


(J. Dewey, Scuola e società, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 129 ss.)


Dewey sottolinea che l'iniziativa di creare una scuola sperimentale per verificare nuo­ve teorie pedagogiche possa implicare un raccordo con altre istituzioni: in questo senso va letta la collaborazione dell'Università presso cui egli è docente. Possiamo notare, inol­tre, come nel caso della nuova scuola di Chicago l'esperimento scaturisca dall'opera di un pensatore che non lavora direttamente con gli allievi, ma che affida questo compito a specialisti ed a insegnanti la cui attività e le cui riflessioni contribuiranno a ulteriori scoperte e messe a punto metodologiche. Dunque l'innovazione educativa (come già ac­cadeva, del resto, anche per la Montessori e la Pizzigoni) è il frutto di un' "opera coope­rativa', piuttosto che il risultato delle indagini di un singolo, e ha il suo fulcro nel con­tributo di tutti i soggetti (educandi compresi) coinvolti nella sperimentazione.

Le motivazioni sociali insite nell'esperimento di Dewey hanno larga eco in molti altri casi si sperimentazione scolastica. Un esempio particolarmente evidente di ciò si ha nella "Scuola-Città Pestalozzi", fondata da Ernesto Codignola (1885-1965) a Firenze nel 1944. In questo caso la scuola si trasforma in una vera e propria "comunità di vita", in cui l' esperienza sociale e di convivenza democratica viene esplorata in ogni suo risvolto.



Testo

Codignola: la "dottrina dell'autogoverno"


La prima nostra preoccupazione è stata sempre quella di evitare che gli alunni sen­tissero, venendo a scuola, di entrare in un mondo estraneo alla loro esperienza vissu­ta fino ad allora, in famiglia e nella società circostante. Abbiamo preso le mosse dalla loro effettiva situazione,. non meravigliandoci di nulla e nulla respingendo. Abbiamo procurato di integrare l'esperienza passata e di costruire su di essa quando era positi­va, di correggerla, senza assumere atteggiamenti moralistici, quando era negativa. Sen­za fretta, abbiamo dato tempo al tempo. Non abbiamo cercato di opporci ai fatti coi sermoni. II nostro compito principale è consistito nel tentativo di inserire di fatto l'alunno nella nostra società, impegnandolo subito nelle varie attività del nuovo am­biente sociale, in un'atmosfera di fiducia, di collaborazione, di relativa autonomia. Ab­biamo cercato di evitare gli equivoci a questo riguardo, equivoci che hanno perduto altre istituzioni affini alla nostra e che continuano a confondere le menti. Libertà e au­tonomia dell'alunno sono parole grosse: occorre interpretarle con un granelli no di sa­le. Non devono evidentemente significare l'eliminazione apparente o reale, parziale o totale dell'autorità del maestro, il che significherebbe la radicale distruzione di uno dei termini necessari della sintesi vivente che è l'educazione. [.] La dottrina dell'au­togoverno mette polemicamente l'accento non già sull'assurda pretesa di abolire o at­tenuare l'autorità, ma su un nuovo modo di concepire e di esercitare l'autorità, cui spetta di liberare e non di asservire. Essa insiste sull'esigenza che l'educatore deve farsi cooperatore intelligente e guida accorta che aiuta, asseconda e indirizza lo svolgi­mento naturale, lo sboccio spontaneo, la liberazione delle attività più specificamente umane del discepolo.


(E. Codignola, Un esperimento di scuola attiva. La scuola-città Pestalozzi, La Nuova Italia, Firenze 1954, pp. 10-15)


Il principio sul quale Codignola fonda la propria proposta di scuola nuova è dunque l' «autogoverno», inteso come autonomia amministrativa dell'istituzione, come "cooperazione volontaria" e come collaborazione tra docenti e discenti nel processo educativo. La "Scuola-Città Pestalozzi" è organizzata come una comunità di giovani cittadini, i quali "sperimentano" concretamente il vivere in società. Il docente deve valorizzare gli interessi degli allievi, che costituiscono il fondamento della loro esperienza, nonché i contenuti sociali, morali e intellettuali che intende trasmettere, al fine di condurre l'allievo alla formazione piena della propria personalità.

Nonostante l'esperienza della 'Scuola-Città Pestalozzi', nell'Italia della prima metà del Novecento la sperimentazione educativa non si diffonde come nelle altre nazioni europee: tale esigenza comincerà infatti a essere avvertita nel nostro Paese solo a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, quando si farà più forte l'influenza del pensiero di Dewey relativamente a una pedagogia scientificamente e sperimentalmente più duttile rispetto a quella positivistica. Sono gli anni in cui Francesco DeBartolomeis scrive La pedagogia come scienza, dove affronta il tema della sperimentazione educativa; in cui Aldo Visalberghi propone forme nuove di accertamento del profitto scolastico dell'alunno; in cui Luigi Calonghi e Renzo Titone elaborano test per la misurazione del livello di intelligenza, basandosi su alcune tecniche di ricerca sperimentale provate da Buyse e dai suoi collaboratori.

De Bartolomeis, in particolare, ritiene che solo attraverso la ricerca e la sperimentazione sia possibile adeguare l'insegnamento all'evoluzione della società e offrire, di conseguenza, un'istruzione rispondente ai bisogni reali del soggetto. La sperimentazione deve dunque riguardare l'intero corpo sociale, e non solo la scuola, in modo tale da favorire la realizzazione di un progetto che abbia come scopo lo "svecchiamento" delle strutture scolastiche e delle modalità di intervento educativo.

Per uno sguardo conclusivo sul tema della sperimentazione educativa in Italia, possiamo rifarci a un passo di Aldo Visalberghi, studioso dell'educazione che ne analizza le due facce "metodologico-didattica" e "di strutture") e ne traccia un bilancio rispetto alla situazione della scuola italiana degli ultimi decenni.


Testo

Visalberghi: luci e ombre della sperimentazione didattico-educativa in Italia


La sperimentazione da parte delle scuole è regolata dal DPR 31 maggio 1974, n. 419. All'art. 1 si afferma che la sperimentazione è «espressione dell'autonomia didattica dei docenti», e si distingue tra sperimentazione metodologico-didattica, che ha per oggetto le modalità dell'intervento formativo, e sperimentazione di strutture, cioè di nuovi ordinamenti. L'art. 2 precisa che i docenti hanno pieno diritto di iniziativa e di decisione per ciò che riguarda la sperimentazione metodologico-d~dattica, mentre la sperimentazione di strutture è soggetta ad autorizzazione ministeriale (art. 3). Il quadro istituzionale sommariamente descritto contiene alcune ambiguità, prima fra tutte la rigida distinzione tra le due sperimentazioni che, se è comprensibile su un piano generale, lo diventa assai meno nel concreto del lavoro scolastico. Va comunque osservato che si è assistito ad uno sviluppo assolutamente ineguale dei due tipi di spe­rimentazione. Ci si poteva attendere che gli insegnanti fruissero ampiamente delle possibilità aperte dagli ordinamenti di attuare nuove forme di intervento didattico, abbandonando modelli di comportamento docente non più adeguati alla realtà della scuola di massa. È invece avvenuto il contrario: si è assistito ad una proliferazione di sperimentazioni di strutture, il cui carattere innovativo è in molti casi consistito non in profonde trasformazioni della prassi scolastica, ma solo nella revisione dei contenuti dell'insegnamento. Alcune sperimentazioni, specie al livello secondario superiore, si sono accentrate su una moltiplicazione assurda di discipline; in altri casi, frequenti so­prattutto nella scuola dell'obbligo, la sperimentazione è consistita in forme meccani­che di prolungamento del tempo scolastico. Ma raramente la sperimentazione ha avu­to per oggetto il modo del fare scuola, una ipotesi di intervento didattico tendente ad accumulare sistematicamente materiali e competenze. Dalle sperimentazioni poco o nulla si è potuto tratte in termini di conoscenza, di elementi socializzabili, estendibili ad altre situazioni, su cui fondare nuove ipotesi di trasformazione. Sul piano metodo­logico, gran parte delle sperimentazioni hanno presentato severe carenze: prima tra tutte, l'incapacità di controllare obiettivamente i risultati, e perciò di stabilire se quan­to ci si attendeva è stato conseguito, o se nulla è mutato, se non in peggio.

È ormai abbastanza diffusa, a livello di opinione pubblica, la sensazione che le spe­rimentazioni di strutture siano servite più ad evitare il cambiamento che a promuo­verlo. Sia pure a livello puramente intuitivo (ma è questo un motivo di riflessione cri­tica sulla realtà delle sperimentazioni), si dubita dei risultati conseguiti sul piano for­mativo. Si sa invece con certezza che le sperimentazioni hanno richiesto l'impiego di risorse eccezionali, di molto superiori a quelle necessarie per il funzionamento delle scuole «normali'. Non pochi insegnanti si sono impegnati nelle sperimentazioni con entusiasmo, ed hanno pagato in prima persona sotto forma di frustrazione, di scorag­giamento, di percezione della scarsa utilità dell'impegno profuso. L'amministrazione scolastica è la principale responsabile di tutto ciò, sia per quanto essa ha fatto (e cioè per aver premuto sulle scuole perché attuassero sperimentazioni, fino a proporre mo­delli centralizzati), sia per quanto non ha fatto (in particolare per le omissioni nel campo della politica della ricerca, che hanno lasciato le scuole prive di qualunque so­stegno tecnico e scientifico, e hanno determinato una gravissima carenza in fatto di accumulazione conoscitiva di tipo fondamentale).

Probabilmente più produttiva può rivelarsi la sperimentazione metodologico­ didattica. Essa opera su ipotesi necessariamente più circoscritte, vede i docenti inter­venire direttamente nel processo di trasformazione, è suscettibile di verifiche accura­te. Meno pesante è nel caso della sperimentazione didattica il condizionamento ne­gativo cui già si è accennato, e connesso alla necessità di non intraprendere ricerche sperimentali senza disporre di ragionevoli motivi per ritenere che esse si tradurranno in un risultato positivo per gli allievi. Proprio il carattere più circoscritto della speri­mentazione didattica fa sì che possano essere meglio individuate le variabili indipen­denti su cui si deve intervenire, ed anche che, ove la procedura non appaia soddisfa­cente, possano essere introdotti aggiustamenti in itinere.


(A. Visalberghi, Pedagogia e scienze dell'educazione, Mondadori, Milano 1990, pp. 260-261)


Il testo di Visalberghi mette in luce come l'innovazione sperimentale di strutture e organizzazioni scolastiche, istituzionalizzata a metà degli anni Settanta del secolo scorso, spesso non abbia prodotto i risultati sperati, contrariamente a quanto potrebbe forse più facilmente avvenire attraversò l'innovazione delle pratiche didattiche. Da questo punto di vista, dunque, la sperimentazione didattico-educativa sembra più che altro una "pratica" che deve ancora essere realizzata pienamente nella situazione "micropedagogica" delle concrete interazione di classe, dove ogni gruppo di apprendimento e i suoi formatori possono essere pienamente responsabili e protagonisti.









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