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Giovanni Pascoli - La vita, Il pensiero e la poetica, Le opere




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Giovanni Pascoli


Giovanni Pascoli, ancor più di Fogazzaro, si inserisce nella corrente della letteratura. mistico­simbolista.

Poeta contemplativo per vocazione e per edu­cazione umanistica, sensibile ad un ideale socialismo fondato sulla pietà che gli uomini debbono nutrire per i propri simili, sollecitato dal pensiero della morte e dall'ansia religiosa del mistero a considerare la vita come dolore ed il dolore come fonte di rigenerazione spirituale, ha in comune con i poeti de­cadenti l'esigenza di esprimere l'inesprimibile attraverso personali suggestioni simboliche e musicali; ma di essi non possiede né l'atteggiamento di poeta "maledetto", né la consapevolezza della opposizione al tradizionale per un nuovo modo di sentire e di concepire la poesia: la validità di questa è da lui posta, non nella preziosità formale ed in ciò che essa esprime, ma in ciò che essa suggerisce e nelle vibrazioni interiori che sa suscitare.




La vita



Nacque a San Mauro di Romagna il 31 dicembre del 1855; quarto di dieci figli, trascorse l'infanzia nella tenuta La Torre dei prìncipi Torlonia, di cui il padre Ruggero era fattore: iniziati gli studi elementari a Savignano, entrò nel collegio degli Scolopi ad Urbino e qui frequentò il ginnasio e la prima liceo.

Il 10 agosto del 1867, mentre tornava dalla fiera di Savignano il padre fu ucciso, in circostanze che non fu mai possibile chiarire, e la famiglia           do­vette tornare a San Mauro; si aggiunge, subito dopo, la morte della primogenita Margherita, poi quella della madre, del fratello Luigi nel '71, del fratello Giacomo nel '76: questa catena di sventure lasciò un segno indelebile nel­l'animo e nel carattere del poeta, il quale ad esse, ma soprattutto alla prima, attribuì sempre poi la distruzione del suo «nido».

Compiuti gli studi liceali a Firenze, vinse una borsa di studio bandita dal Comune di Bologna per frequentare l'Università (la Commissione era presieduta da Carducci), e s'iscrisse alla Facoltà di Lettere.

Per due anni frequentò assiduamente le lezioni, poi un moto di ribel­lione alle ingiustizie sociali lo indusse ad aderire al movimento internazionalista dì Andrea Costa: durante una manifestazione di protesta degli anarchici di Imola contro la condanna di Passanante, l'attentatore di Umberto I, fu arrestato e rimase in carcere per circa quattro mesi (1879).

Ripresi gli studi interrotti, si laureò nel 1882, presentando una tesi su Alceo e nello stesso anno iniziò la sua carriera di insegnante di latino e greco nei Licei di Matera (1883-84), di Massa (1884-87), di Livorno (1887-95): nacquero qui le prime liriche di Myricae, cominciò con Veianus la sua attività di poeta latino ed ottenne la prima vittoria al concorso internazionale di Amsterdam, al quale partecipò sempre, fino all'anno della sua morte.

Nel 1895 fu, chiamato dall'Università di Bologna all'insegnamento di grammatica latina e greca, nel 1898 fu professore di letteratura latina a Messina, nel 1903 passò a d insegnare grammatica latina a Pisa, e nel 1905, benché riluttante, successe a Carducci nella cattedra di letteratura italiana a Bologna.

Tenne questa  fino alla morte, avvenuta a Bologna nel 1912; fu sepolto a Castelvecchio di Barga, nella chiesetta attigua alla casa dapprima affittata, e poi comprata con le medaglie d'oro vinte ai concorsi di Amsterdam.





Il pensiero e la poetica




Con Pascoli si ha una frattura nella tradizione poetica italiana, il cui ultimo rappresentante può essere considerato, appunto, Carducci, e l'avvio della poesia moderna.


Formatosi in clima positivista egli accetta la riduzione della realtà ad un insieme di cose di cui ci offre quadretti pieni di realismo descrittivo; ma al di là della realtà quotidiana scopre un mondo più profondo, che si rivela attraverso simboli ed arcani messaggi.



Egli avverte che quest'altro mondo è dominato dal mistero e che unica soluzione di tale mistero è la morte; come il bambino dinanzi al buio arretra sgomento dinanzi all'uno ed all'altra, ma al tempo stesso deriva da essi l'essenza della sua religiosità e della sua morale.

«Il mistero della vita è grande e il meglio che si possa fare è di stare stretti più che si possa agli altri»; scrive nella Prefazione ai Nuovi poemetti, e « solo chi procaccia d'aver fratelli in suo timor non erra», afferma ne I due fanciulli.


La sua religiosità è prevalentemente:


di ordine etico, quando del cristianesimo accoglie l'appello all'amore universale, ma del cristianesimo non recepisce l'interpretazione redentrice del dolore, al quale anzi egli sì rassegna perché comune a tutti, ingiusto (in particolare il dolore dei bambini, innocenti), ma necessario in quanto crea tra gli uomini quei legami di solidarietà tanto importanti;


di ordine sentimentale, quando tramuta il desiderio metafisico di immortalità nel desiderio di protrarre la vita oltre i suoi confini, o colloquiando continuamente con i suoi morti come se fossero ancora vivi, o abbellendo l'ora della morte perché essa lo riconduce alla madre, o immaginando che la vita eterna non avrebbe alcuna importanza, vedi il poemetto Thallusa, se in essa non ci fosse dato di ricongiungerci con i nostri, cari.


A questa seconda forma di religiosità va fatto risalire l'atteggiamento pascoliano di fronte al suono di una campana, al bisbiglio di una preghiera, al silenzio di un camposanto; così come ad essa si ricollega la rappresentazione originale della primitiva società cristiana, colta nelle inquietudini proprie del tramonto di un'era e dell'inizio di un'altra dai contorni ancora crepuscolari (Carmina).


Ma il risultato più appariscente della sua ansia a superare la sfera dell'umano è la poesia cosmica, una poesia nella quale le dimensioni della natura si perdono nell'immensità dei cieli, i valori delle piccole e grandi cose si confondono nella loro misura terrena, la mortale vicenda degli esseri viventi si inserisce nel ciclo delle stagioni che non conosce un termine ultimo (Poemetti) e l'uomo si trova smarrito di fronte alle comete, alle stelle cadenti, così come di fronte al libro sfogliato dal vento, al fiore reciso dalla falce, alla chiara voce della capinera, elementi tutti, grandi e piccoli, di un mistero cosmico che si manifesta in tutta la sua grandiosità senza svelarsi.




Due motivi più genuini animano la lirica di Pascoli, e a un punto si congiungono, o anzi rivelano la loro unica fonte:


il senso georgico, e cioè la pura vita dei campi, in una francescana amicizia per le creature vegetali e animali e per la semplice gente;

il senso cosmico, l'arcana vita dei mondi.



Egli vuole interpretare in una metafora musicale il misterioso ritmo dell'universo, pur nel filo dell'erba, e negli indugi su piante e alberi e tramonti di campagna.

"L'immensamente piccolo in questa proporzione cosmica ha lo stesso mistero di un mondo e il sentimento di Pascoli si acuisce a udire il respiro dell'universo, e tradurlo in parole che creino l'assorta atmosfera dell'eterno fluire" (Flora).


Tutti i temi pascoliani hanno, quindi, si può dire, un'unica fonte: il sentimento cosmico, il senso del mistero che v'è in tutto.


Per sottrarsi al terrore che il mistero cosmico gli incute (ma anche al progresso scientifico e tecnologico, in cui tanta fiducia invece riponevano i positivisti), Pascoli cerca riparo nel mito della "casa-nido", che comporta per lui un senso di conforto, di protezione e di rifugio, un mito che simbolicamente rappresenta la sua paura del mondo e della vita.

Non a caso l'immagine del nido è accompagnata sempre da pericoli incombenti: II tuono, Il temporale, e psicologicamente implica la "regressione all'infanzia" una regressione che equivale al tentativo di recuperare, con la me­moria, un irripetibile stato di felice sicurezza.


E ciò in quanto in lui si con­fondono i terrori atavici di un figlio della civiltà rurale e le recenti angosce del mondo borghese, sulla via di perdere la sicurezza e la fiducia nel progresso.


Si noti: è questa una modalità, comune a molti poeti decadenti, di rifiutare la società e i valori borghesi, pur con diversi atteggiamenti (estetismo, superomismo ecc.), che tuttavia hanno alla base un comune disagio esistenziale e un distacco dalla vita fino ad arrivare al disimpegno vero e proprio dell'intellettuale (vedi lezione sul Decadentismo)


Connessa alla regressione cui si faceva cenno, è la poetica pascoliana, la quale rientra nel­l'ambito del decadentismo anche per il compito assegnato all'arte, in generale, alla poesia, in particolare, che è quello di rivelare agli uomini, incapaci di pene­rare razionalmente il mistero del mondo, il "battito oscuro" che da esso promana, colto in una sorta di improvvisa immedesimazione dell'anima col cosmo (il poeta non è più un "vate", ma quasi un "veggente" e la poesia è intuizione pura, che permette di penetrare il mistero delle cose, oltre la loro apparenza).


A questo fine è indispensabile dare ascolto all'eterno "fanciullino" che vive in noi, quale che sia la nostra età ed il nostro grado di sapienza: noi cresciamo ed egli rimane piccolo; noi ci disavvezziamo, con il passare del tempo e con il moltiplicarsi dei desideri, ad avvertire la bellezza primitiva delle cose ed egli conserva sempre la stupita e serena meraviglia di fronte alla eterna novità della natura e delle sue creature.

Questo fanciullo "popola l'ombra di fantasmi e il cielo di dei", "piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi ed alla nostra ragione" o scopre nelle cose le somiglianze e le relazioni più ingegnose (analogie): suo intento è la percezione delle leggi e dei misteri del tutto, la visione immediata delle luci che si sprigionano dagli infiniti aspetti della realtà, la traduzione, in un linguaggio più suggestivo che realistico, dell'incanto originato da tali visioni.

Ne consegue che la poesia, anziché dall'abilità letteraria, scaturisce dall'irrazionale e magica rivelazione del "fanciullino", il quale scopre agli uomini, deviati da altri interessi, l'essenza viva e reale delle cose, celata dagli aspetti esteriori e convenzionali; che essa non può avere alcun scopo utilitario ("il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non storico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di 'corte'"), e che la sua validità riposa unicamente nel saper mettere in luce quanto di poetico è nell'anima di ogni uomo e lo accomuna agli altri uomini. In questo si intravede un altro elemento significativo che accomuna Pascoli agli altri poeti decadenti.

Il "fanciullino" rappresenta, quindi, il perenne senso della poesia che è nell'animo di tutti gli uomini; il poeta deve quindi essere come il "fanciullo" per raggiungere la vera poesia, che è trovare nelle cose il loro sorriso e la loro lacrima, contemplare il mistero.

Le concezioni estetiche di Pascoli sono illustrate nella prosa "Il fanciullino": la poesia ha brividi, lacrime e tripudi suoi autonomi: ascolta la natura, crea immagini, scopre nelle cose le somiglianze e relazioni analogiche ingegnose.


In tale ottica si spiegano pertanto:

il carattere intimistico di tutta la poesia pascoliana,

il vagheggiamento della campagna e delle umili cose come di un paradiso perduto,

la genericità del suo umanismo di natura socialista,

la trasposizione dal piano individuale a quello collettivo dell'immagine affettiva del nido, in quelle che possono apparire posizioni di rigido nazionalismo (Poemi italici e Poemi del Risorgimento), ma che altro non  sono che la gelosa difesa della famiglia, allargata alle proporzioni della nazione.


Così si motiva anche la sua posizione a favore della guerra di Libia, per cui affermò "la grande proletaria si è mossa".



E come distrugge il normale rapporto tra le cose per configurarle in dimensioni nuove ed inconsuete nello spazio e nel tempo, così Pascoli rompe con il passato rifiutando le complesse costruzioni letterarie ed operando scelte formali e linguistiche del tutto nuove.

I metri tradizionali sono da lui rivissuti con tale libertà da apparire quasi irriconoscibili; il verso, ora è spezzato dalla cesura, ora è dilatato dall'enjambement, solitamente comprensivo di una frase, di un'immagine, collegate analogicamente con altra frase ed altra immagine del verso precedente o successivo; un verso sempre caratterizzato da una grande quantità di punti fermi e di altri segni di interpunzione, che ne accentuano l'autonomia sia fonica che simbolica.

In campo lessicale, l'ampliamento dei confini poetici alle umili cose comporta l'ampliamento dei moduli linguistici a zone che potremmo definire "agrammaticali", "pregrammaticali", "postgrammaticali", a seconda che derivino dalla lingua come istituto, accogliendone le forme gergali, inclusi termini tecnici e scientifici (che gli derivano dal positivismo) non usati precedentemente in campo poetico; o che la integrino con espressioni non usate per l'addietro; o con forme derivate da altri sistemi linguistici.

A ciò si aggiunga l'uso abbondante dell'onomatopea, soprattutto quando il poeta vuole riprodurre suoni della natura o canti di uccelli, ed il frequente ricorso alla sinestesia, con la quale, tramite l'insolito accostamento di aggettivi e sostantivi di diverso valore significativo, raggiunge arditi e suggestivi esiti artistici nel delineare contorni incerti od indefinibili delle cose (terra ansante, odor di sole, pigolio di stelle).



Le costruzioni poetiche di Pascoli non sono fatte per disegni ma per richiami.


Note distintive della poesia pascoliana sono quindi:

l'autonomia della parola (parola- simbolo e parola -suono)

il frammento (la poesia è appunto costituita da più immagini apparentemente slegate, ma in realtà collegate in maniera analogica)

l'analogia



Tutti elementi che ritroveremo nei poeti decadenti: con Pascoli si chiude, infatti, un'era per la poesia italiana e ne nasce una nuova. Tutta la poesia successiva subirà l'influenza pascoliana.



I pochi limiti della sua poesia, tuttavia, sono da ritenere: la tendenza spesso a rivelare (in conclusione del testo poetico) esplicitamente l'analogia; un simbolismo che a volte diviene esteriore (quando tende ad interpretare troppo il sentimento nato dalla sensazione); la sua sintassi originale a volte diviene maniera; anche la meraviglia e lo stupore in alcuni casi diventano quasi schema.





Le opere



In Myricae, la prima e la più innovatrice delle opere pascoliane, il poeta offre l'esempio di un nuovo modo di guardare la realtà, soprattutto la realtà campestre; di includere nei pochi versi    di un componimento l'essenzialità di un ricordo o di un'impressione visiva, di uno spontaneo moto sentimentale; di stabilire un colloquio tra lui e le cose, in cui il segreto dell'uno e delle altre si rivela attraverso una rapida notazione musicale o si cela simbolicamente sotto un'immagine.

Pascoli contrappone così, allo sviluppo lineare della lirica precedente, una sensibilità che dà ai particolari, colti con una finezza fino ad allora sconosciuta, un valore assoluto, e che serve a ricomporre i vari frammenti in una in­scindibile unità artistica.

Di Myricae ebbe a dire lo stesso Pascoli che si trattava di "frulli d'uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane", era in effetti qualcosa di più, perché, se in alcune composizioni è presente l'amarezza per i lutti familiari (X agosto, Sogno, Colloquio), in altre il paesaggio novembrino o vespertino o notturno, in altre ancora il motivo dei mistero (Scalpitio, Il morticino, Il nunzio, Notte di vento), in tutte il distacco contemplativo dalla vita ed il senso malinconico della morte creano un'atmosfera intimistica, che è una delle caratteristiche salienti della poesia di Pascoli.


Il titolo Myricae (= tamerice) era stato derivato da un verso virgiliano posto a fronte dell'opera; sul frontespizio dei Poemetti, sdoppiati poi in Primi poemetti e Nuovi poemetti, troviamo un altro motto virgiliano.

Poesia georgica, quindi, ordinata in forma di poema della natura, nel quale confluiscono i temi del mistero e della morte già apparsi nella raccolta precedente.

Nucleo centrale è la storia d'amore del cacciatore Rigo e della contadinella Rosa, sviluppata in quattro parti di nove canti ciascuna: La sementa,           L'accestire, La fioritura, La mietitura.

Sullo sfondo la campagna è la cornice della vita operosa di tutta una famiglia: piante ed uccelli fanno da interpreti dei vari stati d'animo del poeta; l'esaltazione del lavoro umano trova la sua più lirica espressione ne La piada, il pane dei poveri.

Accanto a questi, si trovano altri poemetti, di contenuto diverso e più meditativo: vibrano in essi, non placate dal contatto con la natura, le inquietudini del « reo dolor che pensa».

Sono tra le cose più popolari di Pascoli: L'aquiÌone, con quella sua aria.di primavera e con quel suo profumo di viole che ricorda al poeta, insegnante a Messina, i luoghi ed i tempi della sua vita di collegio ad Urbino; I due fanciulli, con la scena della rissa sotto l'ombroso viale; e quella ancor più.suggestiva dei buio che fascia nella notte i due piccoli, stretti l'uno all'altro in un abbraccio d'amore; Il libro, tutto pervaso di ar­cano mistero; Suor Virginia, con quel suo tum tum misterioso, non avvertito da nessuno fuor che dalla suora, la quale comprende che è l'annunzio della morte.


Ancora georgica è l'ispirazione dei Canti di Castelvecchio, ma la natura e le cose sono ora avvolte da una più accentuata. atmosfera    di dolore, sebbene pacata attraverso il ricordo: ancora canti d'uccelli, ancora, campane sonanti a gioia, a gloria, a messa, ma anche a. morte perché. "la vita - dice lo stesso Pascoli nella Prefazione - senza il pensiero della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente, o continuo, o stolido o tragico".

A definire lo stato d'animo presente in questi canti stanno i versi significativi de La mia sera.

Il libro si apre con La poesia, lirica che nel suo simbolismo presenta non poche affinità con la prosa del "Fanciullino": la poesia è         paragonata alla lampada che illumina la veglia delle donne intente a filare, che oscilla davanti all'immagine di una Madonna, che vigila, velata, sulla giovane assopita e prossima a diventare madre, che irraggia una culla, che dirada le tenebre di una tomba..

Ne La voce, rivive il continuo colloquio con la madre scomparsa, mentre ne L'ora di Barga avverte il bisogno di riandare al suo passato, di piangere sulla sua vita, mentre le campane lo avvertono che è tardi, e lo invitano a ritornare «dove son quelli che amano» e che egli ama. Questi ritornano a lui, nel ricordo, in un gruppo di liriche nelle quali è evocata la sua tragedia familiare: La cavallina storna, Un ricordo, Il nido di farlotti, Il ritratto, Il ritorno a San Mauro.


Nei Poemi conviviali, così, denominati perché apparsi inizialmente sulla rivista romana di Alfredo De Bosis, « l convito», Pascoli si volge al mondo classico presentandolo però in forma nuova e originale perché trasferisce in esso le inquietudini della propria anima moderna.

Tema dominante dei venti canti dei quali si compone l'opera, è la morte, al cui riflesso la vita acquista un suo più alto significato, e l' una e altra si integrano a vicenda in una sensibilità decadente, carica di valori allusivi, di vibrazioni musicali, di preziosità stilistiche. La cantatrice di Eresso reca con sé due canti di Saffo, uno d'amore e l'altro di morte (Solon); Achille ed Anticlo muoiono sognando la bellezza; Ulisse ripercorre, come in sogno, le tappe del suo lungo errare; Alessando, giunto al confine del mondo, piange e si duole che non vi siano al­tre terre da conquistare; Omero permuta il male della cecità con il dono dell'amore e della seconda vista dell'anima (Il cieco di Chio).

E' come una storia poetica del­­l'antichità attraverso il mito, dai tempi di Omero fino alla comparsa del Cristianesimo: l'annunzio della nascita di Cristo, accolto dai pastori della Giudea, trova a Roma, una sola anima capace di udirlo, quella del gladiatore Geta, agonizzante nello spogliarlo del Circo, che muore con nel­l'animo la pace promessa dall'angelo (Buona novella).

Nell'antichità Pascoli introduce un simbolismo particolare: vi ricerca dei simboli che siano intesi come segni precorritori dell'avvento di Cristo.

Non sempre, in questi Poemi conviviali, egli riesce a liberarsi dall'ingombro dell'erudizione, ma, là dove l'artista e l'umanista s'incontrano, raggiunge momenti apprezzabili di lirismo.


Meno felici, ed ineguali nel ritmo e nell'immaginazione, risultano Odi e Inni che pur si aprono con una nota lirica, La piccozza, orgogliosa celebrazione fatta dal poeta di se stesso e della sua arte: evidentemente i temi civili-sociali-patriottici non si addicevano a chi aveva additato nel «fanciullino» il percorso e le finalità della propria poesia.

Pur ispirate da nobili sentimenti quale l'amor di patria, l'ammirazione per gli eroi, il sincero desiderio di pace e di fratellanza universale, queste composizioni raggiungono l'arte solo in qualche felice intuizione dei mistero di Dio (Aurora boreale), o della solitudine sconfinata del polo (André

Altrettanto, e forse a maggior ragione, si può dire delle Canzoni di re Enzio e dei Poemi del Risorgimento: nelle prime è rivissuta l'età medievale connessa all'episodio della prigionia del figlio di Federico II; negli altri, che comprendono L'Inno a Roma e L'Inno a Torino si parla di Napoleone, della Car­boneria, di Garibaldi e di Mazzini:.



Dei Poemi Italiani, tra le ultime espressioni della poesia pascoliana, l'unico che possiede una qualche grazia è quello di Paolo Uccello, il pittore terziario francescano che si dilettava di dipingere sulle pareti della sua cella, non po­tendo comperarli per il voto di povertà, uccelli d'ogni specie, e questi di­scendono a lui un giorno chiamati da San Francesco, disceso a sua volta per la bella prospettiva che Paolo aveva dipinto.


Postumi apparvero i Carmina, la raccolta dei 31 poemetti latini che gli pro­curarono la fama di latinista e per dodici volte la vittoria al concorso internazionale di:Amsterdam.

Per essi si potrebbe ritessere la linea di svolgimento della poesia pascoliana in italiano, ma in ordine inverso: quando questi abbandona la purezza d'intuizione naturale      delle Myricae e dei Canti di Castelvecchio, per darsi alle celebrazioni civili o storiche, il Pascoli latino, lasciati da parte i temi eroici o leggendari dei primi carmina, ritrova il potere evocativo del mondo interiore nel Liber de poetis e nei Poemata christiana.

All'incomparabile maestria nell'uso della lingua latina si affianca la squisita sensibilità del poeta decadente, così che il vocabolo viene avvivato, adattato, talora inventato, al punto da assumere l'aspetto di un nuovo strumento, ricco di sfumature e di echi moderni.


Non molto dissimile dalla poesia è la prosa pascoliana, tutta vaghezza di immagini, frammentaria sintatticamente, personale. Scarso, in contrapposizione a Carducci, fu il suo interesse per la letteratura del passato, ma a Dante dedicò un'attenzione particolare, desideroso di svelare il mistero che in molti punti rende ardua la lettura della Divina Commedia: i tre volumi che ne scaturirono, Minerva oscura, Sotto il velame, La mirabile visione, non incontrarono però, per la novità delle interpretazioni, né il favore della critica positivistica, né della critica estetica crociana.





















Selezione Antologica



Da Myricae





ARANO (con esempio di analisi)


Al campo,dove roggio nel filare         A

qualche pampano brilla, e dalle fratte B

sembra la nebbia mattinal fumare, A


arano:a lente grida,uno lente C

vacche spinge; altri semina;un ribatte B

le porche con sua marra pazїente; C


ché il passero sputo in cor ggode, D

e il tutto spia dai rami irti del moro; E

e il pettirosso:nelle siepi s'ode D

il suo sottil tintinno come d'oro. E

Poesia composta da due terzine e una quartina di endecasillabi piani.

FIGURE RETORICHE:

Enjambements

versi 2-3, versi 3-4, versi 4-5, versi 5-6, versi 9-10.

Allitterazione:

nella prima strofa: L-R-P-B-M.

nella seconda strofa: L-R.

nella terza strofa: S-T-R-G. 


Sinestesia:

verso terzo: nebbia mattinal fumare

verso quarto:        a lente grida

verso sesto: marra paziente

Similitudine:

verso decimo:     sottil tintinno come d'oro.

Anafora:

tra il verso ottavo e nono:       

e il tutto spia dai rami irti del moro

e il pettirosso:nelle siepi s'ode

 Anastrofe:

verso settimo: chè il passero sputo in cor già gode


TEMATICHE DELLA POESIA:

Nebbia: è un tema ricorrente nelle sue poesie e dà una sensazione di protezione e di sicurezza. 

Pampano roggio: spicca per il suo colore vivace il poeta lo nota come farebbe un fanciullino; il ROGGIO, cioè il rosso, è ripreso anche nella poesia "vocali"che tratta di colori e simboli. 

Lente e paziente: sensazione di tranquillità, quiete e silenzio. 

Passero: spia la semina e aspetta il momento opportuno per beccare i semi; gli uccelli sono un tema ricorrente nella poesia pascoliana; infatti, come possiamo notare, in questa poesia si parla anche di un pettirosso. 

Tintinno: l'unico suono acuto nella quiete di questo paesaggio autunnale; questo suono viene preso spesso da Pascoli. 

 In questa poesia il poeta vuole mettere in risalto la tristezza dell'estate che finisce e la monotonia del lavoro autunnale, ripetuto quasi meccanicamente e ciclicamente.

E' descritto un paesaggio con una natura semplice e serena. Le parole iniziali di ogni strofa fanno già intendere il contenuto della stessa.






LAVANDARE



Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.

E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene.

Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come l'aratro in mezzo alla maggese.




NOVEMBRE



Gèmmea l'aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l'odorino amaro
senti nel cuore

Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo a piè sonante
sembra il terreno.

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. E' l'estate,
fredda, dei morti.





X AGOSTO



San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto:
l'uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de' suoi rondinini.

Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo tornava al suo nido:
l'uccisero; disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono

Ora là nella casa romita,
lo aspettano, aspettano invano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.

E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!
 





Dai Canti di Castelvecchio


Il gelsomino notturno[1]

E s'aprono i fiori notturni, 
nell'ora che penso a' miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari. 

Da un pezzo si tacquero i gridi: 
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l'ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.

Dai calici aperti si esala
l'odore di fragole rosse. 
Splende un lume là nella sala.
Nasce l'erba sopra le fosse.

Un'ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l'aia azzurra 
va col suo pigolio di stelle.

Per tutta la notte s'esala
l'odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s'è spento . . .

È l'alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l'urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.





Composta in occasione delle nozze di due amici dell'autore, celebra il mistero del concepimento della vita.

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