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Giovanni Boccaccio - BIOGRAFIA, LA NOVELLA: Ottava giornata Novella seconda




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Giovanni Boccaccio.


BIOGRAFIA:

Giovanni Boccaccio nasce a Certaldo (Firenze) nel 1313. Egli compie i primi studi a Firenze, ma nel 1327 si trasferisce a Napoli con il padre, che era stato incaricato dai Bardi di gestire una loro filiale. Poiché appartenente a un ceto medio-alto mercantile, il ragazzo conosce Roberto d'Angiò, e grazie alla sua ricca biblioteca riesce a conoscere buona parte della letteratura romanzesca francese, cultura greca e novellistica araba. Nel 1340 la compagnia dei Bardi è costretta a ritornare a Firenze, a causa di una crisi fra il comune fiorentino e gli Angioini. Di conseguenza si apre per l'autore un periodo economicamente difficile.



Diventato celebre Boccaccio assolve molte cariche politiche, e conosce Petrarca nel 1351, con il quale intraprenderà rapporti epistolari. L'autore si isola per il tempo rimanente della sua vita, nel 1373, una delle ultime apparizioni pubbliche dello stesso, tiene una lettura in pubblico dei primi 17 canti dell'Inferno di Dante.

Giovanni Boccaccio muore a Certaldo nel Dicembre del 1375.


OPERE:

Durante il suo soggiorno a Napoli il giovane Boccaccio scrive alcune opere, tutte contenenti una tematica amorosa:

La caccia di Diana (1334); Filostrato (1335); Filocolo (1336-38); Teseida (1340).

In seguito fra il 1341 e il 1346 lo scrittore compone altre opere:

Commedia delle Ninfe fiorentine; Amorosa visione; Elegia di Madonna Fiammetta, romanzo in cui il poeta rivive l'amore per Maria, figlia di Roberto d'Angiò; Ninfale fiesolano.

La pestilenza che colpisce Firenze nel 1348 porta lo scrittore a dirigersi verso diversi interessi da quelli giovanili, da qui ha inizio la stesura del Decameron, dal 1349 al 1351.









DECAMERON:

Il nome Decameron, deriva dal greco dèka emeròn, cioè (libro) delle 10 giornate.

La struttura del libro è un corpo di novelle inquadrate da una cornice, è il racconto di un' esperienza di giovani che narrano cento novelle in dieci giornate. Nel proemio Boccaccio spiega la natura della sua opera e la dedica alle donne, quelle che amano. Mentre nell'introduzione viene descritta la situazione in cui si è trovata Firenze durante l'epidemia di peste del 1348. Ciò ci spiega perché una compagnia di dieci ragazzi (7 fanciulle e 3 giovani) si allontana dalla città e da morte certa, passando le giornate ad intrattenersi con novelle diverse ogni giorno.

All'inizio loro si incontrano nella chiesa di Santa Maria Novella, e decidono di ritirarsi in una villa sulle colline vicine al territorio fiorentino, per condurre una vita serena. Ogni giorno sono eletti un re o una regina che deve fissare il tema della narrazione, in ciascuna giornata in ciascuna giornata la novella raccontata da Dioneo, si distacca dal tema fissato. La prima e la nona giornata hanno argomenti liberi.

I riferimenti alla vita dei ragazzi formano la cornice del Decameron.



PRETE DA VARLUNGO E MADONNA BELCOLORE.

Dal Decameron, giornata VIII, novella II.

Novella particolarmente piccante e alquanto licenziosa del Boccaccio. La novella è ambientata a Varlungo e il protagonista è un prete che intrattiene sempre molti dei suoi parrocchiani, soprattutto donne. Tra queste ce n' era una che gli piace maggiormente: monna Belcolore, moglie di Bentivegna del Mazzo, un contadino del paese del chierico. Per entrare in amicizia con lei il prete le manda dei doni, ma questa li ignora fino a quando un giorno il prete si presenta a casa sua, cerca di farle alcune proposte ma lei non cede. Finché un giorno le servono cinque lire, e il prete le promette le avrebbe procurate, ma lei non si fida cosi viene costretto a lasciarle in pegno un mantello che vale molto più di cinque lire.

Fatto ciò i due vanno in una capanna a "risolvere" l'accordo preso. Ma tornato in chiesa, il prete però si pente di aver lasciato quel pegno così pensa a come riprenderselo. Il giorno seguente manda un ragazzo dalla Belcolore per chiederle in prestito un mortaio e la donna accetta. Subito dopo chiede a un chierico di andare dalla donna per ridarle il mortaio e riprendersi il mantello che il giovane aveva lasciato prima come pegno. Quest'ultimo, consegnato il mortaio, riferisce ciò che gli aveva detto prima il prete al marito il quale arrabbia con la povera donna beffata per aver chiesto un pegno da un prete.

Infine il chierico può prendere il mantello e riconsegnarlo al prete. La donna parla al prete per molto tempo fino a quando questo minaccia di mandarla all'Inferno; allora si riparlano e tutto ritorna come prima.







LA NOVELLA:

Ottava giornata Novella seconda

Il Prete da Varlungo si giace con monna Belcolore; lasciale pegno un suo tabarro; e accattato da lei un mortaio, il rimanda e fa domandare il tabarro lasciato per ricordanza; rendelo proverbiando la buona donna

Commendavano igualmente e gli uomini e le donne ciò che Gulfardo fatto aveva alla 'ngorda melanese, quando la reina a Panfilo voltatasi, sorridendo gl'impose ch'el seguitasse; per la qual cosa Panfilo incominciò:
     Belle donne, a me occorre di dire una novelletta contro a coloro li quali continuamente n'offendono senza poter da noi del pari essere offesi, cioè contro a' preti, li quali sopra le nostre mogli hanno bandita la croce, e par loro non altramenti aver guadagnato il perdono di colpa e di pena, quando una se ne possono metter sotto, che se d'Alessandria avessero il soldano menato legato a Vignone. Il che i secolari cattivelli non possono a lor fare; come che nelle madri, nelle sirocchie, nell'amiche e nelle figliuole con non meno ardore, che essi le lor mogli assaliscano, vendichino l'ire loro. E per ciò io intendo raccontarvi uno amorazzo contadino, più da ridere per la conclusione che lungo di parole, del quale ancora potrete per frutto cogliere che a' preti non sia sempre ogni cosa da credere.
     Dico adunque che a Varlungo, villa assai vicina di qui, come ciascuna di voi o sa o puote avere udito, fu un valente prete e gagliardo della persona ne'servigi delle donne, il quale, come che legger non sapesse troppo, pur con molte buone e sante parolozze la domenica a piè dell'olmo ricreava i suoi popolani; e meglio le lor donne, quando essi in alcuna parte andavano, che altro prete che prima vi fosse stato, visitava, portando loro della festa e dell'acqua benedetta e alcun moccolo di candela talvolta infino a casa, dando loro la sua benedizione.

Ora avvenne che, tra l'altre sue popolane che prima gli eran piaciute, una sopra tutte ne gli piacque, che aveva nome monna Belcolore, moglie d'un lavoratore che si facea chiamare Bentivegna del Mazzo, la qual nel vero era pure una piacevole e fresca foresozza, brunazza e ben tarchiata, e atta a meglio saper macinare che alcuna altra. E oltre a ciò era quella che meglio sapeva sonare il cembalo e cantare: L'acqua corre la borrana, e menare la ridda e il ballonchio, quando bisogno faceva, che vicina che ella avesse, con bel moccichino e gentile in mano. Per le quali cose messer lo prete ne 'nvaghì sì forte, che egli ne menava smanie; e tutto 'l dì andava aiato per poterla vedere; e quando la domenica mattina la sentiva in chiesa, diceva un Kyrie e un Sanctus sforzandosi ben di mostrarsi un gran maestro di canto, che pareva uno asino che ragghiasse, dove, quando non la vi vedeva, si passava assai leggermente; ma pure sapeva sì fare che Bentivegna del Mazzo non se ne avvedeva, né ancora vicino che egli avesse. E per potere più avere la dimestichezza di monna Belcolore, a otta a otta la presentava, e quando le mandava un mazzuol d'agli freschi, che egli aveva i più belli della contrada in un suo orto che egli lavorava a sue mani, e quando un canestruccio di baccelli, e talora un mazzuol di cipolle maligie o di scalogni; e, quando si vedeva tempo, guatatala un poco in cagnesco, per amorevolezza la rimorchiava, ed ella cotal salvatichetta, faccendo vista di non avvedersene, andava pure oltre in contegno; per che messer lo prete non ne poteva venire a capo.
     Ora avvenne un dì che, andando il prete di fitto meriggio per la contrada or qua or là zazzeato, scontrò Bentivegna del Mazzo con uno asino pien di cose innanzi; e fattogli motto, il domandò dov'egli andava. A cui Bentivegna rispose: - Gnaffe, sere, in buona verità io vo infino a città per alcuna mia vicenda, e porto queste cose a ser Bonaccorri da Ginestreto, che m'aiuti di non so che m'ha fatto richiedere per una comparigione del parentorio per lo pericolator suo il giudice del dificio.
     Il prete lieto disse:  - Ben fai, figliuolo; or va con la mia benedizione, e torna tosto; e ti venisse veduto Lapuccio o Naldino, non t'esca di mente di dir lor che mi rechino quelle combine per li coreggiati miei.
     Bentivegna disse che sarebbe fatto; e venendosene verso Firenze, si pensò il prete che ora era tempo d'andare alla Belcolore e di provare sua ventura; e messasi la via tra' piedi, non ristette sì fu a casa di lei, ed entrato dentro disse: - Dio ci mandi bene, chi è di qua?
     La Belcolore, ch'era andata in balco, udendol disse: - O sere, voi siate il ben venuto; che andate voi zacconato per questo caldo?
     Il prete rispose: - Se Dio mi dea bene, che io mi vengo a star con teco un pezzo, per ciò che io trovai l'uom tuo che andava a città.
     La Belcolore, scesa giù, si pose a sedere, e cominciò nettar sementa di cavolini, che il marito avea poco innanzi trebbiati.
     Il prete le cominciò a dire: - Bene, Belcolore, de' mi tu far sempre mai morire questo modo?
     La Belcolore cominciò a ridere e a dire: - O che ve fo io?
     Disse il prete: - Non mi fai nulla, ma tu non mi lasci fare a te quel ch'io vorrei e che Iddio comandò.
     Disse la Belcolore: - Deh! andate, andate: o fanno i preti così fatte cose?
     Il prete rispose: - Sì facciam noi meglio che gli altri uomini; o perché no? E dicoti più, che noi facciamo vie miglior lavorio; e sai perché? Perché noi maciniamo a raccolta; ma in verità bene a tuo uopo, se tu stai cheta e lascimi fare.
     Disse la Belcolore: - O che bene a mio uopo potrebbe esser questo, ché siete tutti quanti più scarsi che 'l fistolo?
     Allora il prete disse: - Io non so, chiedi pur tu: o vuogli un paio di scarpette, o vuogli un frenello, o vuogli una bella fetta di stame, o ciò che tu vuogli.
     Disse la Belcolore: - Frate, bene sta! Io me n'ho di coteste cose; ma se voi mi volete cotanto bene, ché non mi fate voi un servigio, e io farò ciò che voi vorrete?
     Allora disse il prete: - Di' ciò che tu vuogli, e io il farò volentieri.
     La Belcolore allora disse: - Egli mi conviene andar sabato a Firenze a render lana che io ho filata e a far racconciare il filatoio mio; e se voi mi prestate cinque lire, che so che l'avete, io ricoglierò dall'usuraio la gonnella mia del perso e lo scaggiale dai dì delle feste, che io recai a marito, ché vedete che non ci posso andare a santo né in niun buon luogo, perché io non l'ho; e io sempre mai poscia farò ciò che voi vorrete.
     Rispose il prete: - Se Dio mi dea il buono anno, io non gli ho allato; ma credimi che, prima che sabato sia, io farò che tu gli avrai molto volentieri.
     - Sì,- disse la Belcolore - tutti siete così gran promettitori, e poscia non attenete altrui nulla; credete voi fare a me come voi faceste alla Biliuzza, che se n'andò col ceteratoio? Alla fè di Dio non farete, ché ella n'è divenuta femina di mondo pur per ciò; se voi non gli avete, e voi andate per essi.
     - Deh! - disse il prete - non mi fare ora andare infino a casa; ché vedi che ho così ritta la ventura testè che non c'è persona, e forse quand'io tornassi ci sarebbe chi che sia che c'impaccerebbe; e io non so quando e' mi si venga così ben fatto come ora.
     Ed ella disse: - Bene sta; se voi volete andar, sì andate; se non, sì ve ne durate.
     Il prete, veggendo che ella non era acconcia a far cosa che gli piacesse, se non a salvum me fac, ed egli volea fare sine custodia, disse:
     - Ecco, tu non mi credi che io te gli rechi; acciò che tu mi creda, io ti lascerò pegno questo mio tabarro di sbiavato.
     La Belcolore levò alto il viso e disse: - Sì, cotesto tabarro, o che vale egli?
     Disse il prete: - Come, che vale? Io voglio che tu sappi che egli è di duagio infino in treagio, e hacci di quegli nel popolo nostro che il tengon di quattragio, e non è ancora quindici dì che mi costò da Lotto rigattiere delle lire ben sette, ed ebbine buon mercato de soldi ben cinque, per quel che mi dice Buglietto d'Alberto, che sai che si conosce così bene di questi panni sbiavati.
     - O, sié? - disse la Belcolore - se Dio m'aiuti, io non l'averei mai creduto; ma datemelo in prima.
     Messer lo prete, ch'aveva carica la balestra, trattosi il tabarro, gliele diede; ed ella, poi che riposto l'ebbe, disse:
     - Sere, andiancene qua nella capanna, che non vi vien mai persona - ; e così fecero.
     E quivi il prete, dandole i più dolci baciozzi del mondo e faccendola parente di messer Domenedio, con lei una gran pezza si sollazzò; poscia, partitosi in gonnella, che pareva che venisse da servire a nozze, se ne tornò al santo.
     Quivi, pensando che quanti moccoli ricoglieva in tutto l'anno d'offerta non valevan la metà di cinque lire, gli parve aver mal fatto, e pentessi d'aver lasciato il tabarro e cominciò a pensare in che modo riavere lo potesse senza costo. E per ciò che alquanto era maliziosetto, s'avvisò troppo bene come dovesse fare a riaverlo, e vennegli fatto; per ciò che il dì seguente, essendo festa, egli mandò un fanciul d'un suo vicino in casa questa monna Belcolore, e mandolla pregando che le piacesse di prestargli il mortaio suo della pietra, però che desinava la mattina con lui Binguccio dal Poggio e Nuto Buglietti, sì che egli voleva far della salsa.
     La Belcolore gliele mandò. E come fu in su l'ora del desinare, e 'l prete appostò quando Bentivegna del Mazzo e la Belcolor manicassero, e chiamato il chierico suo, gli disse: - Togli quel mortaio e riportalo alla Belcolore, e di': - Dice il sere che gran mercè, e che voi gli rimandiate il tabarro che 'l fanciullo vi lasciò per ricordanza -.
     Il cherico andò a casa della Belcolore con questo mortaio e trovolla insieme con Bentivegna a desco che desinavano. Quivi, posto giù il mortaio, fece l'ambasciata del prete.
     La Belcolore, udendosi richiedere il tabarro, volle rispondere; ma Bentivegna con un mal viso disse: - Dunque toi tu ricordanza al sere? Fo boto a Cristo, che mi vien voglia di darti un gran sergozzone; va, rendigliel tosto, che canciola te nasca; e guarda che di cosa che voglia mai, io dico s'e' volesse l'asino nostro, non ch'altro, non gli sia detto di no.
     La Belcolore brontolando si levò, e andatasene al soppidiano, ne trasse il tabarro e diello al cherico e disse: - Dirai così al sere da mia parte: - La Belcolore dice che fa prego a Dio che voi non pesterete mai più salsa in suo mortaio, non l'avete voi sì bello onor fatto di questa - .
     Il cherico se n'andò col tabarro e fece l'ambasciata al sere, a cui il prete ridendo disse: - Dira' le, quando tu la vedrai, che s'ella non ci presterà il mortaio, io non presterrò a lei il pestello; vada l'un per l'altro -.
     Bentivegna si credeva che la moglie quelle parole dicesse perché egli l'aveva garrita, e non se ne curò. Ma la Belcolore, rimasa scornata, venne in iscrezio col sere, e tennegli favella insino a vendemmia; poscia, avendola minacciata il prete di farnela andare in bocca del Lucifero maggiore, per bella paura entro, col mosto e con le castagne calde si rappattumò con lui, e più volte insieme fecer poi gozzoviglia. E in iscambio delle cinque lire le fece il prete rincartare il cembal suo e appiccarvi un sonagliuzzo, ed ella fu contenta.






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