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"Fuga in Egitto" di Annibale Carracci




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"Fuga in Egitto" di Annibale Carracci


Titolo: Fuga in Egitto.

Definizione tipologica: lunetta.

Autore: Annibale Carracci

Dimensioni: cm 122 (altezza massima) x 230.

Materiali e tecniche: olio su tela. La lunetta è realizzata con la più tipica delle tecniche ad olio, sovrapponendo, a partire dal cielo luminoso e trasparente, stesure progressivamente più scure, che letteralmente costruiscono in profondità i diversi piani del dipinto, completato infine con le figure, i riflessi, le luci, resi più brillanti con stesure coprenti di materia colorata più densa e pastosa. Talvolta, la consunzione della pellicola pittorica ha reso trasparenti le ultime stesure, come si vede negli alberi a destra; in altri casi, come nel gregge a destra, ha portato alla luce dei pentimenti, delle correzioni, che rivelano l'immediatezza della tecnica pittorica di Annibale Carracci.

Data e luogo di realizzazione: 1603-1604, Roma.

Collocazione originale: cappella del Palazzo Aldobrandini al Corso.

Condizioni attuali: ottime.


Elementi del linguaggio visivo: vi sono due andamenti lineari prevalenti:

ondulato (nel paesaggio naturale e nei personaggi), che conferisce movimento e dinamicità ad una natura apparentemente statica, anche grazie alla forma lunare della composizione; la dinamicità è data soprattutto dal movimento dei personaggi, degli uccelli, della cascatella.

spezzato (nella rocca), di minor rilevanza.

Convenzioni: è utilizzata la prospettiva lineare centrale nella rappresentazione della rocca.


Disposizione elementi è il paesaggio ideale per eccellenza: ogni elemento è accuratamente selezionato ma reso in una sintesi pittorica che trascura il singolo dettaglio; la costruzione è profondamente razionale ma genera un effetto di grande naturalezza. E nel realizzare ciò è di aiuto lo studio dell'effeto che ogni particolare ha sull'osservatore: allora, se ben si osserva la composizione, si capisce che gli alberi a destra servono da repoussoir, che la struttura del dipinto è guidata da diagonali interconnesse, che gli edifici rappresentati non sono nitide descrizioni ma elementi finalizzati a bilanciare. Si tratta di una vera e propria composizione scenica, in cui gli elementi ordinatori sono celati da una inconsueta vitalità. L'illusione di profondità è affidata alla prospettiva aerea, non ci sono linee di fuga precise, è un degradare di piani che genera un effetto di libertà apparente.

Schemi compositivi la serenità e l'equilibrio del paesaggio sono raggiunti con un'articolazione complessa dei rapporti tra i diversi piani in profondità. Annibale evita una simmetria rigida, troppo meccanica: sul lato destro troviamo solo i due alberi, grandi e vicini, che pesano molto, otticamente, perché formano in basso una zona più scura e indicano la direzione verso la quale si orientano tutte le diagonali del dipinto; la chioma di questi alberi, slanciata e aperta nel cielo, raccoglie e delimita, da unità ai diversi elementi del paesaggio. Verso la zona più scura convergono, scen­dendo in diverse linee ripetute, le balze che degradano dalla città, l'avvallamento che passa a destra delle mura, la linea del gregge; qui salgono le linee che delimitano la riva del corso d'ac­qua e il terreno su cui si avviano Giuseppe e Maria. La direzione del movimento è talmente sottolineata che tutti gli elementi figurativi più significativi - la Sacra Famiglia, il gregge, la città - sono spostati leggermente a destra, ma risultano sospinti verso sinistra dalla costruzione del dipin­to. Acquista così una forza singola­re il distacco che, mettendo in rilie­vo la Madonna, da l'idea del suo passo leggero, rispetto alla salita più faticosa di Giuseppe con l'asinello. A queste indicazioni fanno da con­trappunto, nella ricerca di un com­plessivo equilibrio, lo sforzo visibile del barcaiolo, diretto verso destra alla sponda lontana e, in alto, alli­neati su quella stessa diagonale, gli alberi più grandi e luminosi. Que­sti alberi richiamano quelli grandi a sinistra e indicano il progressivo aumento della distanza dei piani disposti in diagonali successive; come "misurano" la distanza, così definiscono anche la variazione di luminosità, che aumenta gradatamente da sinistra verso destra con l'aumentare della profondità, fino a raggiungere il massimo e nel cielo, in cui sfumano i monti lontani. Allo stesso modo i toni verdi del paesaggio fluviale, schiarendo, diventano progressivamente più caldi, fino alle variazioni di bruno dorato nella città, oltre la quale i toni azzurrini dello sfondo sono stemperati dalla luminosità del cielo; solo le figure risaltano con i colori intensi delle vesti, che immediatamente indicano il centro signi­ficante del dipinto, il blu della Madonna, il rosso della sua veste e del manto appoggiato sul­l'asinello, il giallo del mantello di Giuseppe, toni che si ripetono, come echi lontani, nelle figu­rine sparse nel paesaggio.

Linee di forza: le l.d.f. sono deboli in quanto poco estese nello spazio: il tronco dell'albero sulla sinistra, i crinali [oblique], i personaggi [verticali + orizzontali]. Il centro focale della composizione è la cittadella (l'illusione di profondità è affidata alla prospettiva aerea, non ci sono linee di fuga precise, è un degradare di piani che genera un effetto di libertà apparente).


Che cosa è rappresentato: il tema della fuga in Egitto è, in quest'opera, posto in secondo piano rispetto al paesaggio: le tre figura sacre non appaiono protagoniste. Esso qui acquisisce un significato diverso: i personaggi sono il centro di un ampio sistema di accordi ed equilibri e il paesaggio, necessario alla comprensione del senso del tono della narrazione, diventa protagonista in una compiuta dimensione classica. Non il paesaggio idilliaco e silenzioso del Giorgione, ma un paesaggio vasto e maestoso, ricco di verdi intonati all'azzurro del cielo percorso da nubi chiare, mosso e animato da elementi umani e naturali (dalla cittadella fortificata che domina il colle ai monti sul fondo, dagli alberi fronduti al fiume e al lago, dal barcaiolo alle pecore pascolanti, dai pastori alla Famiglia che cammina verso la salvezza); un paesaggio idealizzato in cui la collocazione dentro la città di un edificio circolare e cupolato come il Pantheon ricorda la romanità e la presenza nei campi di un pastore che suona la cornamusa richiama all'antica poesia bucolica. Tutto è molto accurato nei particolari, tanto da parere quasi innaturale. I colori, caldi ed asciutti, conferiscono plasticità all'intera immagine e, soprattutto, armonia. L'ambiente non sembra creato dalla Natura, ma creato dall'uomo stesso, che lo ha epurato di quanto di difettoso possa esserci. La Natura risulta quindi idealizzata, ma non certo schematizzata rigidamente. Dà ancora l'illusione d'essere un paesaggio veridico. Ma, a ben analizzarlo, non è così. Il paesaggio, dai colori tenui, sorride, illuminato da una luce leggermente velata dalle nubi leggere che trascorrono in cielo; stormi d'uccelli contribuiscono alla connotazione primaverile. La luce è chiara, leggerissima, ma non piena perchè sono le prime ore del mattino; l'atmosfera avvolgente così come gli uccelli che volano bassi, le pecore che pascolano.

Genere iconografico: soggetto religioso-paesaggistico.

Tema iconografico: l'episodio fa riferimento a quanto narrato nel Vangelo di Matteo (2,12): dopo la partenza dei Magi, un angelo apparve in sogno a Giuseppe e gli disse di fuggire con la famiglia in Egitto "finché io non te lo dica", poiché Erode voleva uccidere Gesù; rimasero lì fino alla morte del Re. Troviamo quindi Maria con il bimbo in braccio e l'anziano Giuseppe che conduce l'asinello, mezzo di trasporto degli umili e, fin dalle rappresentazioni medievali, paziente compagno di viaggio della Sacra Famiglia. Molti indizi dicono che ormai la salvezza è raggiunta: la famiglia ha appena superato un fiume, un confine, e viene accolta nella nuova terra da una coppia di colombe, simbolo di pace. La città fantastica, o, più semplicemente, il ricordo delle rocche del Lazio, è un avamposto sul confine, dominato da un Pantheon e fortificata, con il suo carico di allusioni alle discordie e agli errori degli uomini, e sembra ormai definitivamente alle spalle dei viaggiatori. Lontani, due cammelli rammentano che siamo in Oriente, tra Palestina ed Egitto.

Contesto: fine '500-inizi '600. Lo stile prevalente era il barocco, ma i Carracci (Annibale e Agostino, fratelli, e Ludovico, cugino) appartenevano al filone classicista - anche se qui non si vede molto. Fondano a Bologna l'"Accademia degli incamminati", e saranno loro discepoli il Guercino, Guido Reni, il Domenichino, Lanfranco, pittori locali. Rifiutano in parte le regole, all'inizio però le accettano per guadagnare qualcosa, poi si abbandonano a rappresentazioni mitologiche.

Stile dominante: il barocco prevedeva, secondo i dettami clericali, queste caratteristiche ben codificate: i crocifissi sono chiari, le carni livide, quasi bianche, è messo in risalto il Sangue delle ferite, nelle mani e nelle corone di spine; gli occhi sono languidi, sofferenti, per stupire. La scelta di un soggetto volgare, non inusuale per la tradizione realistica lombarda, ma polemica nei confronti dell'arte ufficiale, comporta nel decennio in questione una precisa responsabilità nel rapido processo di rinnovamento in senso naturalistico che interessa i vitali filoni dell'arte alla fine del '500.

Elementi caratterizzanti: fondata l'Accademia degli Incamminati nel 1582, i Carracci propongono lo studio ed il disegno dal vero come uno dei fondamenti dell'attività artistica, sperimentando le possibilità offerte dall'impianto tonale della pittura veneta e dai morbidi chiaroscuri del Correggio per arricchire i modelli derivati da Michelangelo e Raffaello. D'altra parte le richieste di verità e chiarezza che la Chiesa della Controriforma rivolgeva ai pittori trovavano piena corrispondenza nel loro metodo.: la galleria di Palazzo Farnese divenne il paradigma del classicismo seicentesco: le figure derivate dai modelli michelangiolesci e l'impianto raffaellesco della decorazione acquistarono nuova forza grazie all'efficacia illusionistica e ai colori luminosi, caratteri tipici della pittura lombarda e veneta. La fusione innovativa degli stili, che divenne sempre più funzionale all'espressione di accenti sentimentali, fu il tratto più caratteristico delle opere che Annibale realizzò a Roma, dopo la Galleria. Il tema del paesaggio acquisice un significato diverso, si crea un nuovo rapporto tra natura e storia: le piccole figure sono il centro di un ampio sistema di accordi ed equilibri e il paesaggio diventa protagonista in una compiuta dimensione classica. Le suggestioni della cultura veneta, i paesaggi allusivi di Giorgione e Tiziano, fatti di campagne arcadiche e lontane fortezze, vengono riproposti in un sistema preciso di elementi organizzati gerarchicamente e combinati con logica stringente. Questa capacità di comporre e misurare, di equilibrare e far interagire le forme apre la strada al nuovo paesaggio classico.


Commisionata da?: fa parte di un gruppo di sei tele commissionate, tra il 1603 e il 1604, ad A. Carracci dal cardinale Aldobrandini per la Cappella del Palazzo Aldobrandini al Corso. Probabilmente Annibale completò solo questa prima lunetta e riuninciò all'esecuzione delle altre: soffriva infatti di una grave forma di depressione psichica tanto che, come riporta il Bellori, lasciava i lavori ai suoi allievi. Le sei lunette raffiguranti paesaggi con Storie della Vergine che decoravano la cappella privata di Palazzo Aldobrandini, andata distrutta dopo il 1750, apparvero certamente ai contemporanei come dimostrazione della modernità del gusto collezionistico del cardinale, sia per la collocazione delle tele che per la loro novità di linguaggio. Dalla fine del '600 le lunette verranno considerate quadri di paesaggio a tutti gli effetti e ritenute adatte a comparire nelle sale del palazzo e nelle ville, piuttosto che in una cappella privata.

A chi era rivolta: ai familiari del card. Aldobrandini (probabilmente).

Funzione: comunicativa, informativa, espressiva.


Espressività/significati + originalità espressiva e iconografica: Annibale rappresenta la natura non quale è ma quale "dovrebbe essere". La nobilitazione del dato naturale propria del classicismo appare qui in tutta la sua evidenza: il paesaggio non è più quello quotidiano cui si era abituati, ma ogni albero, fiume, montagna, è scelto tra i più belli. La natura appare idealizzata.
Con una tale compenetrazione tra figure e ambiente Annibale realizza una formula perfetta, classica, per l'ambientazione della storia sacra. L'uomo è la misura del paesaggio, il paesaggio accompagna l'episodio sacro. I personaggi in primo piano hanno la stessa rilevanza della natura che li circonda, sono figure che vivono l'ambiente che le circonda senza esserne schiacciate e senza dominare. Il perfetto equilibrio crea l'effetto di una serena semplicità. Qui si leggono i temi e i valori del rinnovamento culturale e stilistico della pittura, la nuova forma dell'ideale classico che, grazie ad Annibale, si sarebbe imposta nel '600 e non solo di Italia.





Il mangiafagioli di Annibale Carracci.


Titolo: Il mangiafagioli (o Il mangiatore di fagioli, o Contadino che mangia dei fagioli)

Autore: Annibale Carracci

Definizione tipologica dell'oggetto: quadro

Dimensioni: cm 57 x 68

Materiali e tecniche: olio su tela

Data e luogo di realizzazione: 1583-84 circa, Bologna

Collocazione originale: la prima collocazione riportata dell'opera è la collezione Pallavicini a Roma (1679); si trova presso la Galleria Colonna di Roma almeno dal 1787, come afferma il Ramdhor (Ueber Mahlerei und Bildhauerarbeit in Rom, 1787).

Stato di conservazione: ottimo



Elementi del linguaggio visivo utilizzati: vi sono due tipi di andamenti lineari prevalenti:

ondulato (nel personaggio e negli oggetti situati sulla tavola) = movimento, specie nel trinomio braccio-cucchiaio-bocca e volumetria nei lievi panneggi;

spezzato (nella tavola e nella finestra sulla sinistra) = necessario per prospettiva

Convenzioni utilizzate: la prospettiva centrale, in finestra e tavola



Disposizione elementi: il mangiafagioli occupa quasi interamente in orizzontale la tela (i tre quarti superiori), al di sotto c'è la tavola, che anch'essa si estende per tutto lo spazio, con sopra gli oggetti disposti spazialmente davanti/dietro. Sullo sfondo si apre solo una finestrella sulla sinistra.

Schemi compositivi: composizione piramidale

Linee di forza: le spalle del mangiafagioli [diagonali] e la tavola [orizzontale] + (lieve) cucchiaio [diagonale], perpendicolare alla spalla.

Centro focale: l'attenzione è concentrata sulla bocca, posta al centro della composizione, verso cui il contadino porta il pasto.



Che cosa è rappresentato nell'opera: è un episodio che riproduce una scena della vita quotidiana, che richiama i dipinti di nature morte con figure. La scena è ambientata in un interno illuminato da una luce che proviene dalla finestra a sinistra, e che diffonde una tonalità grigio-azzurra. L'ambientazione scenica è quasi abolita, cosicché la nostra attenzione è costretta a concentrarsi su poche cose essenziali, notevolmente ravvicinate: la mensa poveramente imbandita e, soprattutto, il giovane, spettinato e malvestito, che mangia voracemente, portandosi alla bocca il cucchiaio colmo con tale foga che ne sgocciola il liquido. Tutto è rappresentato con evidenza, ma sinteticamente: il disegno è forte, la luce è mobile, la materia pittorica è densa con un risultato ben diverso da quello della pittura fiamminga, oggettiva e minuziosa, anzi con un'intensa partecipazione affettiva.

Genere iconografico: pittura di genere. Termine coniato nel tardo '600 da Bellori per indicare quelle pitture il cui tema fosse ispirata alla vita quotidiana, contrapponendole come un genere minore alle pitture illustri con soggetti sacri, o mitici, o comunque nobili. Considerata inferiore anche successivamente, soltanto la critica moderna ha rifiutato questi pregiudizi.

Attributi iconografici/simboli: pane + fagioli (slurp). Di questa tela si consideri specialmente la metà inferiore, dov'è rappresentata la tavola colle vivande, giacchè la figura è un po' di maniera e quasi caricaturale: le cose ivi rappresentate sono espresse con la più schietta intonazione prosastica. È evidente che qui si cerca di esprimere semplicemente soltanto le loro qualità di cose modeste e comuni, mediante un corrispondente mezzo di espressione: qui veramente è il caso di parlare di qualità delle cose; di qui il colore è grasso, impuro, pesante, e il tocco incolto, rude e quasi impacciato che esorbita dal contorno deformandolo, concorrono a rappresentare il desco campagnolo.


Contesto: fine '500-inizi '600. Lo stile prevalente era il barocco, ma i Carracci (Annibale e Agostino, fratelli, e Ludovico, cugino) appartenevano al filone classicista - anche se qui non si vede molto. Fondano a Bologna l'"Accademia degli incamminati", e saranno loro discepoli il Guercino, Guido Reni, il Domenichino, Lanfranco, pittori locali. Rifiutano in parte le regole, all'inizio però le accettano per guadagnare qualcosa, poi si abbandonano a rappresentazioni mitologiche.

Stile dominante: il barocco prevedeva, secondo i dettami clericali, queste caratteristiche ben codificate: i crocifissi sono chiari, le carni livide, quasi bianche, è messo in risalto il Sangue delle ferite, nelle mani e nelle corone di spine; gli occhi sono languidi, sofferenti, per stupire. La scelta di un soggetto volgare, non inusuale per la tradizione realistica lombarda, ma polemica nei confronti dell'arte ufficiale, comporta nel decennio in questione una precisa responsabilità nel rapido processo di rinnovamento in senso naturalistico che interessa i vitali filoni dell'arte alla fine del '500.

Elementi stilistici: la vivacità, il moto, l'immediatezza sono espressi non soltanto dalla molteplicità delle azioni compiute, ma anche dalle pezzature cromatiche giustapposte, dalla rapidità del segno; perché tutto ciò risalti con chiarezza, perché ogni oggetto sia percepito nei suoi valori formali e cromatici con la stessa importanza, Annibale rinuncia alla profondità spaziale (che li avrebbe differenziati a seconda della loro collocazione, più vicina o più lontana) mediante il punto di vista rialzato.

Commissione: nessuno.

A chi era rivolta: a nessuno, perché faceva parte di un periodo di assidua sperimentazione, di proficui sondaggi su nuove possibilità stilistiche, il cui fulcro, a denotare una scelta dichiaratamente "settentrionale", diviene il Correggio.

Funzione: comunicativa,



Espressività/significato: Annibale si soffermò su un banale soggetto quotidiano e ne fece un'opera ricca di dinamicità e di vita. Fu così il primo ad accordare alla semplice esistenza di un contadino la stessa simpatia e la stessa attenzione che in precedenza erano state riservate alle classi aristocratiche. Anche se le varie versioni fanno pensare che il tema possa avere un significato simbolico, peraltro non ancora individuato, l'opera non richiede per essere apprezzata un'adeguata lettura iconografica, ma è notevole per l'immediatezza con cui il soggetto ci si presenta; la scena vi è colta con una franca obiettività e senza elucubrazioni intellettualistiche. Ciascun oggetto è trattato con estrema chiarezza e il contadino, spettinato e malvestito, non è né esagerato, né ironizzato, né, romanticamente, esaltato.

Originalità: è dunque un quadro di alto valore, fra i migliori di Annibale, che qui può esprimersi al di fuori dei canoni imposti dalla pittura ufficiale destinata ad ambienti pubblici e finalizzata alla dimostrazioni di tesi religiose o alla pubblicità dei personaggi politici.


Annibale Carracci: vita

La sua famiglia è di origini cremonesi. Nacque il 3 novembre 1560 da un noto sarto, e iniziò la sua carriera come incisore, come suo fratello Agostino; poi imparò a dipingere presso il manierista Prospero Fontana. Dopo un breve apprendistato, cominciò a girovagare per il nord Italia per ampliare le sue conoscenze: imparò nuove tecniche pittoriche del 10° secolo, specialmente a Venezia. Sperimentò ogni tipo di composizione: il ritratto, il quadro di genere ("Bottega del Macellaio"), il paesaggio ("Fuga in Egitto") e la pittura murale, aiutando il cugino Ludovico e il fratello Agostino con il ciclo degli affreschi con le Storie di Giasone in Palazzo Fava, dove dipinse le Storie d'Europa di persona.

Nel 1589-90, insieme con Ludovico e Annibale, fondò l'Accademia degli Incamminati, precedentemente Accademia dei Desiderosi. Il nome stesso era parte del programma: imparare le tecniche pittoriche di cui loro erano stati iniziatori. I Carracci consideravano l'arte delle precedenti generazioni troppo astratta, eccessivamente rifinita, volevano recuperare l'importanza della natura riportando in vita i valori di Raffaello e del Rinascimento. Le loro idee, criticate dai vecchi pittori di Bologna, si diffusero fuori dalla loro città. Questo dipendeva anche dal fatto che il problema dello scopo delle arti coinvolgeva la Controriforma della Chiesa cattolica, che affermava che gli artisti avevano il dovere di porre l'arte al servizio della verità. Questo concetto aveva particolare valore per l'arte sacra, il cui obiettivo principale era quello di educare prima di tutto il popolo ignorante. L'influenza di questa Scuola, in particolare grazie ad Annibale e ai discepoli Guido Reni e Guercino, si diffuse in tutta Europa. Le Storie di Romolo e Remo affrescate in una stanza di Palazzo Magnani fra il 1590 e il 1592 rappresentano il manifesto artistico dei Carracci, che desideravano rinnovare, con lo scopo di reagire al Manierismo, la pitture rifacendosi ai grandi maestri del '500, come il Correggio e Tiziano.

Nel 1595 fu chiamato a Roma. Il suo primo lavoro era la decorazione del "Camerino" (uno spogliatoio) con le storie di Ercole e Ulisse. Dopo due anni il cardinal Edoardo Farnese gli commissionò la decorazione della Galleria nel Palazzo Farnese, progettato nel 1530 da Paolo III Farnese con dipinti del Sangallo e finito dal Vignola e da Giacomo della Porta. Sulla volta affrescò I Piaceri e le Guerre d'Amore tra gli Dei e gli Uomini, nel mezzo il Trionfo di Bacco e Arianna, Aurora and Cefalo, Aci and Galatea, tutt'intorno Giove e Giunone, Venere e Anchise, Diana e Endimione, Ercole e Onfale; poi Polifemo e Galatea, lo Sdegno di Polifemo, Pan e Diana, Mercurio e Paride (fu poi aiutato da Agostino e dai discepoli Domenichino, Albani, Lanfranco). Sempre in questo periodo accettò commissioni per pale d'altare, figure profane, paesaggi.

Fra il 1603 e il 1603 il cardinal Pietro Aldobrandini gli commissionò la decorazione della sua cappella con lunette raffiguranti storie bibliche su sfondo paesaggistico: quelle che rappresentò inaugurarono il tipico paesaggio del 16° secolo preso a modello da altri come Domenichino e Claude Lorraine.

Nel 1605 si ammalò e dovette fermare il suo lavoro, continuando ad aiutare i suoi seguaci fino alla sua morte, nel 1609. Un secolo e mezzo dipo Winckelmann e gli archeologi neoclassici aprirono la questione della sua abilità, accusandolo di essere un imitatore, un eclettico, ma la recente critica, a partire da Roberto Longhi, lo ha rivalutato.


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