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Dante alighieri




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DANTE ALIGHIERI


Attualità

Dante rappresenta a pieno la cultura dell'intero Medioevo nelle sue opere. Affronta ogni aspetto (sociale, filosofico, religioso, politico, artistico, 'scientifico') con grandiosa passione ed originalità, con uno spirito nuovo e di autocritica.

E' con lui che si hanno molte delle attuali parole italiane per la prima volta.

Con la Vita Nova scrive il 'primo romanzo' della nostra letteratura; con il Convivio si ha la prima grande prosa a carattere filosofico- scientifico in volgare; con la Commedia un insuperato modello di narrazione e poesia. Ma è soprattutto con il De vulgari eloquentia che difende la nuova lingua e ne stabilisce canoni solidissimi.

Rappresenta anche un riferimento importantissimo per la nostra identità nazionale.

Quel che più fa di Dante una figura attuale è la sua concezione politica: infatti contestava quella società dedita solo al guadagno che però poi nei secoli successivi si sarebbe espnsa fino ai giorni nostri. Inoltre aveva una costante fiducia nella possibilità del riscatto e non cedeva assolutamente ai principi fondamentali che a quel tempo trionfavano.


Vita

Tra i maggiori autori della nostra letteratura, Dante è il personaggio di cui abbiamo minori informazioni biografiche; una causa di questa scarsità è sicuramente riconducibile all'esilio che lo portò in giro per l'Italia.

Abbiamo diverse descrizioni della sua vita nelle sue opere, ma queste non sono molto attendibili, poichè  tende a mitizzare la sua persona.

I problemi iniziano già dal nome: probabilmente il suo vero nome era Durante, ma la sua forma ipocoristica ne prese il posto. Non sappiamo nemmeno se il suo 'cognome' fosse Alighieri perchè figlio di Alagherio o perchè appartenente alla famiglia degli Alagheri.


Anche la data di nascita è incerta (ma non il luogo: Firenze): è lui stesso che ci dice di essere nato sotto il segno dei Gemelli, e da documenti si è riusciti a risalire all'anno che dovrebbe essere il 1265.


Dante proviene da una famiglia di nobiltà recente; infatti ad un trisavolo era stato concesso il titolo solo un secolo prima della nascita dell'autore.

La madre Bella morì presto ed il padre Alagherio si risposò.


Si sposò con Gemma Donati, da cui probabilmente ebbe 4 figli: Pietro, Iacopo, Antonia e forse Giovanni.

A diciotto anni si rincontrò con Beatrice e questo fu un avvenimento importantissimo per l'evoluzione della sua poetica. Dante fa risalire a questo episodio l'inizio della sua poesia.

Beatrice può essere ricondotta a Bice, figlia di Folco Portinari, che morì nel 1290. Dopo la sua morte, seguì in Dante una profonda crisi che si manifestò con l'abbandono degli studi teologici, con l'interruzione della fase creativa stilnovistica, ma essa appare superata nella Vita Nova.


Verso la fine del secolo cominciò la sua attività politica che come di consueto era stata preceduta da alcune partecipazioni a carattere militare.

Dopo aver combattuto contro aretini e pisani, e dopo aver accompagnato in visita a firenze Carlo Martello, figlio del re, si iscrisse all'Arte dei medici e degli speziali, a cui aderivano gli intellettuali e condizione necessaria per poter prendere parte alla vita politica. Rivestì numerose cariche pubbliche e la più importante gli fu conseguita nel 1300, quando diventò Priore.

Egli parteggiava per i guelfi bianchi che lottavano per gli interessi del popolo grasso.

Quindi Dante andò contro il papa Bonifacio VIII che favoriva i Neri.

Proprio nell'anno in cui diventò Priore, la lotta tra Bianchi e Neri si fece più acuta, per poi sfociare nella vittoria di questi ultimi.

In questo periodo Dante dimostrò spesso la sua ostilità verso il papa.

Quando Carlo di Valois, alleato del papa, con le sue truppe, entrò in Firenze, depose il governo in carica, iniziando la sanguinosa repressione dei Neri contro i propri nemici.


Dante in quel momento era lontano da Firenze, e la notizia della sua condanna lo raggiunse durante il ritorno. Così egli decise di non presentarsi per pagare la multa inflittagli, poichè si riteneva innocente. Così andò in esilio con tutti gli altri Bianchi.

Poi arrivò una seconda condanna che gli imponeva la confisca di tutti i beni e la condanna a morte sul rogo.

Non sappiamo con precisione dove Dante andò durante il suo esilio; probabilmente passò a Forlì, Arezzo, Verona Ad un certo punto ebbe una svolta nel comportamento: non volle più seguire gli esuli bianchi, abbandonò l'idea di ritornare in patria e concepì anche un nuovo ideale di potere politico, che non era più rappresentato dal municipalismo, ma era un progetto universalistico.

La sconfitta che i Bianchi ebbero alcuni anni dopo vicino Firenze diedero ragione al poeta che voleva andarsene.

In seguito soggiornò a Treviso e in altre città venete. E' proprio in questo periodo di esilio solitario che Dante compose l'Inferno, il Purgatorio, il De vulgari eloquentia ed il Convivio.

In seguito si alleò con Arrigo VII, esortandolo a venire in Italia e a concentrare la sua attenzione su Firenze. Però l'imperatore morì improvvisamente nel 1313.

Questa sua presa di posizione a favore dell'imperatore aggravò la sua situazione di esule, tant'è che, dopo un'amnistia in cui gli si chiedeva di pagare una sostanziosa multa e di ammettere in pubblico le sue colpe, essendosi rifiutato, venne confermata la condanna a morte per lui e per i suoi figli.

Passò il resto della sua vita prima a Verona, ospite con i figli di Cangrande della Scala, poi a Ravenna presso Guido Novello da Polenta. Mentre stava tornando da una ambasceria a Venezia, nel 1321, poco dopo aver concluso il Paradiso, morì. Venne sepolto a Ravenna, dove si trova tuttora, nonostante le richieste dei fiorentini.


Formazione

Come già detto, si hanno poche notizie certe sulla vita di Dantee ciò che riguarda anche la sua formazione culturale ed intellettuale.

Frequentò Brunetto Latini, da cui riprese la concezione dell'attività intellettuale come impegno filosofico e civile.

Un altro incontro decisivo fu quello con Guido Cavalcanti, massimo esponente dello Stilnovismo duecentesco.

Il periodo di maggiore interesse teologico e filosofico è quello dopo la morte di Beatrice: Dante frequenta le due scuole più esclusive di Firenze; quella di Santa Maria Novella, dove si discuteva di Aristotele, S. Tommaso, ecc.; quella di Santa Croce, che era più sensibile a Sant'Agostino e i mistici.

E' molto probabile che Dante andò anche a Bologna per seguire elaborazioni moderne di grammatica e di retorica, che si tenevano all'università.

Sicuramente ha avuto un ruolo fondamentale l'esilio, che lo ha portato in giro per l'Italia e gli ha dato l'opportunità di conoscere e modificare le sue concezioni.

Infatti risalgono a questo periodo quasi tutte le opere da lui scritte, tranne la Vita Nova.

Si può certamente dire che Dante ha avuto una formazione vasta e ricca e perlopiù da autodidatta; bisogna anche pensare che a quel tempo le opere scritte erano molto inferiori numericamente rispetto a quelle che conosciamo oggi, ma che quelle conosciute erano imparate a memoria, discusse ed imitate.

Quindi, per ricostruire la sua formazione non ci resta altro che affidarci a ciò che lui ha scritto nelle sue opere, sia esplicitamente che implicitamente, anche se si può essere ingannati, poichè nel Medioevo si faceva largo utilizzo di enciclopedie, riassunti e informazioni di seconda o terza mano delle opere famose.


Idee

Dante ci mostra la sua appartenenza al mondo medievale nella tendenza ad interpretare la realtà in base a principi universali e gerarchici che la collocano in strutture organiche e coerenti, anche se presenta una nota di 'modernità' nella costante problematizzazione del pensiero e  nel cercare posizioni sempre nuove.

Egli può discutere di tutto, non si specializza in un determinato settore, ma riesce ad esporre il proprio sapere in tutti i campi.

Alla base del suo pensiero c'è la visione religiosa della realtà, che gli fa vedere la storia come una rivelazione progressiva e lineare delle verità cristiane.

In Dante c'è un sincretismo tra i modelli classici che non hanno potuto conoscere la rivelazione di Cristo ed il rinnovamento cristiano.

Le sue 'idee' possono essere divise in tre gruppi:


POLITICA

Abbiamo scarse testimonianze del pensiero dantesco nella fase fiorentina della sua vita.

Prima dell'esilio difese l'autonomia del Comune dalle ingerenze della Chiesa.

Dopo l'esilio, dante maturò il rifiuto della frammentazione prodotta dall'esperienza dei Comuni e rilancia il modello universalistico ormai largamente in crisi.

Alla contrapposizione tra Impero e Chiesa che aveva segnato i secoli precedenti, Dante sostituisce inoltre una loro reciprocità di funzioni nel garantire la felicità terrena e soprattutto la salvezza eterna degli uomini: all'imperatore spetta intero il potere temporale, cioè materiale; al papa, quello spirituale.

Su questo modello si colloca la critica severa rivolta alla nuova civiltà borghese annunciata dalla rivoluzione comunale. Dante rifiuta il trionfo della logica del guadagnoe dello spregiudicato spirito d'iniziativa che tale nuova civiltà porta con sè.


FILOSOFIA E TEOLOGIA

Una prima questione fondamentale riguarda il rapporto che hanno secondo Dante la filosofia divina e la filosofia umana.

In una fase del suo pensiero è affermata l'indipendenza reciproca dei due campi; il che lo pone in qualche  modo all'interno di un filone di aristotelismo radicale influenzato soprattutto dal filosofo arabo Averroè, il quale sosteneva addirittura la superiorità della filosofia umana sulla teologia. Dante non aderì mai a posizioni così estreme, ma subì profondamente l'influenza del pensatore Alberto Magno, che ammetteva la distinzione tra verità di fede e verità di ragione, concedendo ampia libertà alla ricerca di quest'ultima.

Nella Commedia il primato della teologia è riaffermato con forza. Il pensiero di Dante si mostra suggestionato dal tomismo, di cui accoglie soprattutto l'unione di fede e ragione.

Ma dimostra anche di sentire l'influenza di due autori legati al filone platonico: Sant'Agostino, le cui Confessioni costituiscono certamente un modello per la Commedia, e Boezio, il cui De consolatione philosophiae orienta almeno in parte la tendenza all'allegoria riscontrabile nel Convivio e nella Commedia.


LINGUA E POETICA

Dante non è un autore spontaneo e immediato, ma riflessivo e consapevole.

Il nucleo del pensiero linguistico di Dante consiste nella valorizzazione del volgare, innalzato già sul piano teorico alla dignità degli argomenti più illustri e dello stile tragico, e poi adibito nel poema alla costruzione di un rivoluzionario epos cristiano- moderno che si ricongiunga all'epos classico integrandolo e rinnovandolo. Il volgare non è sostenuto in quanto lingua 'nuova' da sostituire al latino.

Secondo Dante il valore di una lingua dipende dalla possibilità di configurare in forma strutturata e regolarizzata il maggior numero di aspetti e di livelli della realtà.

Il nuovo epos cristiano può così contare su una lingua da un lato non inferiore al latino per regolarità e dall'altro capace di avere un rapporto più naturale ed immediato con la realtà, più aderente al mondo e alla storia della nuova civiltà comunale.



LA VITA NOVA


La Vita Nova è la prima opera di Dante e riguarda il suo amore per Beatrice.

Non si conoscono con precisione gli anni di composizione della Vita Nova, ma si può considerare che abbracci un arco di tempo di circa dieci anni; l'autore stesso ci testimonia che il più antico componimento risale al 1283, mentre il più tardo di cui si possa stabilire con sicurezza la data è quello scritto per il primo anniversario della morte di Beatrice, quindi nel 1291. Altri sonetti sarebbero assegnabili al 1293, perciò l'intera organizzazione dell'opera non può andare oltre 1295.

La Vita Nova è strutturata in modo da alternare parti in prosa e parti in poesia (25 sonetti, 3 canzoni compiute e 2 incomplete, una ballata); per un totale di 42 capitoli.

Questa complessità rende assai difficoltosa e controversa la definizione del genere letterario di appartenenza dell'opera. Non è l'alternanza di poesia e prosa a costituire il problema. Essa infatti risponde a un modello, definito prosimetro. Dante adibisce questa forma a una materia in sè inconsueta e non riconducibile a unità tematica. L'opera, infatti, può essere letta come una narrazione autobiografica ma anche come un romanzo, oppure come un testo mistico- simbolico e perfino come un saggio di 'teoria della lirica'.


Come si è detto, può essere considerata l'autobiografia della giovinezza di Dante, poichè narra la più importante vicenda relativa alla propria esperienza biografica: l'amore per Beatrice. Incontrata per la prima volta a nove anni, Beatrice saluta il poeta nove anni dopo, rafforzandone l'amore e provocando in lui una prima visione nella quale già si coglie il presagio della futura morte della donna. Un giorno, in chiesa, Dante fissa Beatrice; ma i presenti che egli guardi piuttosto una bella donna posta a metà via tra i due, sulla traiettoria dello sguardo di Dante, il quale accetta e anzi alimenta il malinteso per proteggere Beatrice dalle maldicenze. E' il motivo della donna- schermo, tipico della tradizione cortese.

Poi a causa della partenza di questa, Dante è costretto a sostituirla con un'altra ancora, suscitando il risentimento dell'amata che gli toglie il saluto, unica forma di piacere per il poeta.

Dopo un periodo di smarrimento e di sofferenza, Dante raggiunge una nuova poetica, più matura: non parlerà più della propria condizione, nè si rivolgerà all'amata; ma dedicherà la propria poesia a descrivere le bellezze di Beatrice, rivolgendosi a un nuovo pubblico esperto delle problematiche di un amore concepito secondo la tradizione guinizzelliana e stilnovistica. La morte del padre di Beatrice viene vissuta come nuovo e più esplicito annuncio della scomparsa dell'amata, apertamente presagita in una seconda visione, di biblica terribilità, che costituisce una sorta di anticipata rielaborazione del lutto, per la perdita imminente.

La morte di Beatrice, comunicata senza alcun particolare e invece riconnessa al legame tra l'amata e il numero nove, apre una nuova fase della produzione in versi di Dante, orientata a rappresentare variamente il dolore per la perdita.

Probabilmente un paio di anni dopo la morte dell'amata (secondo l'indicazione del Convivio) si apre l'episodio della donna gentile, la quale consola Dante con la propria pietà fino al punto di coinvolgerlo in una nuova passione. E' una terza visione di Beatrice ad allontanarlo da questa passione, facendolo vergognare per aver in qualche modo dimenticato il vero oggetto del proprio amore, che è più che mai degno di lode ora che è in cielo, gloriosamente accolto nella beatitudine dell'Empireo.

Vi sono nella Vita Nova numerosi elementi lontani dal genere autobiografico: mancano alcuni riferimenti fondamentali (Firenze non è mai nominata), dato che tutto è presentato in termini volutamente indeterminati e assoluti.


In quest'opera convergono i vari elementi costitutivi della cultura dantesca, di origine sia religiosa che profana (classica e cortese). In tal senso l'opera rappresenta la prima espressione compiuta del peculiare sincretismo di Dante, della sua capacità di fondere insieme ingredienti diversi al fine di una loro valorizzazione reciproca: e cioè una valorizzazione filosofica e formale della civiltà religiosa compiuta attraverso la rielaborazione della grande civiltà classica e della nuova cultura cortese; e una valorizzazione etica e spirituale degli scrittori antichi e della recente tradizione laica degli intellettuali e degli artisti comunali compiuta attraverso l'adozione del punto di vista cristiano.

Nel prosimetro il voluto isolamento introspettivo nella 'cameretta', per piangere e pensare, ha la funzione che in Boezio ha la prigionia; e l'elaborazione del lutto per la morte annunciata e poi avvenuta di Beatrice ricalca l'elaborazione boeziana per l'avvicinarsi della conclusiva condanna a morte. La Vita Nova si segnala come inauguratrice italiana del prosimetro.

In una cultura che condannava il protagonismo della soggettività, Dante ha avvertito l'incoraggiamento del più noto modello di opera autobiografica e al tempo stesso edificante: le Confessioni di Sant'Agostino, che presentano anche una trattazione del significato dell'esperienza amorosa per il soggetto, affiancata da Dante alla lettura di un libro fortunatissimo nel Medioevo, il De amicizia di Cicerone; nel quale è affermata l'importanza dell'amore come nobile manifestazione della soggettività.

L'opera è dedicata a Cavalcanti.

Alla tradizione lirica cortese l'opera si ricollega anche per il contatto con i generi provenzali della vida ('vita', breve narrazione biografica contenuta in alcuni canzonieri di trovatori) e della razo ('ragione', commento ed esposizione delle occasioni di testi poetici). Caratteristica di questi generi è l'alternanza di dati reali e di dati immaginari che si incontra, con alta consapevolezza e finalizzazione, anche nella Vita Nova.

L'influenza della recente cultura comunale è riscontrabile tanto nel contatto con il filone laico della lirica d'amore quanto nell'adozione delle procedure caratteristiche dell'agiografia.


L'influenza di Guinizzelli è assai pronunciata (per l'identificazione di amore e nobiltà, per la tendenza all'angelicazione della donna, per alcuni temi come per esempio quello del saluto) e di Cavalcanti (per la 'teatralizzazione' del mondo interiore, affidata agli spiriti, nonchè per l'alto impegno filosofico con il quale è affrontato il tema amoroso).

Ma Dante riutilizza gli insegnamenti dei 'maestri' costruendo una nuova poetica: al centro dell'attenzione non sta più la descrizione degli effetti dell'amore sulla interiorità del poeta, ma la rappresentazione della donna amata, le lodi da rivolgere alla quale costituiscono lo scopo prioritario della scrittura.

Il nuovo pubblico dovrà caratterizzarsi tanto per l'esperienza diretta dell'amore quanto per la consapevolezza teorica del suo significato, quale è dato nella tradizione e quale verrà riproposto da Dante stesso.


Si può dire che la Vita Nova inizi simbolica e finisca allegorica. La parte 'in vita' di Beatrice rappresenta in effetti l'estrema affermazione del grande simbolismo alto- medievale, secondo il quale esiste una corrispondenza diretta e immediata tra mondo dei valori e mondo dei fenomeni e secondo il quale quest'ultimo ha significato solo in quanto in esso si manifesta l'esistenza del primo, così che i fenomeni sono considerati come simboli dei valori.

La morte di Beatrice implica la necessità di una ridefinizione profonda dei modi in cui tale comunicazione si esplica e simboleggia la crisi del simbolismo.

La rielaborazione del lutto culmina nella stesura di un sonetto, introdotto eccezionalmente nell'opera da due inizi diversi. La diversità tra i due inizi rappresenta appunto il passaggio dalla dimensione simolica, oramai non più possibile, alla nuova dimensione allegorica.

Quest'ultima si definisce per una maggiore necessità di razionalizzazione, tant'è vero che il sonetto è spiegato da Dante in un modo più particolareggiato del solito; la sfera dei valori, prima raggiungibile senza mediazioni grazie alle apparizioni beatificanti di Beatrice, deve ora essere conquistata per mezzo di una ricerca complessa da compiersi attraverso le apparenze terrene; non è più un singolo fenomeno a essere potenzialmente portatore di verità, ma la ricostruzione dell'ordine e delle procedure secondo cui i fenomeni si mostrano e si cominano.




LE RIME


Le Rime è un insieme delle composizioni poetiche attriuite a Dante non incluse nè nella Vita Nova nè nel Convivio. Non si tratta pertanto di un'opera d'autore: non spettano quindi all'autore ma ai moderni editori sia il titolo della raccolta, sia la selezione dei testi, sia il loro ordinamento.

Anche per questa ragione le Rime comprendono componimenti di argomento e stile assai vari. Si tratta di 54 testi di sicura attribuzione (34 sonetti, 15 canzoni e 5 ballate), cui si aggiungono 26 liriche di attribuzione incerta e 26 di 'corrispondenti'.

Stando alle assegnazioni cronologiche più probabili, le rime più antiche risalgono al 1283 e le più tarde al 1307.

Nella gradissima varietà di stili e di poetiche, due sono le costanti di fondo: un'inesauribile ricerca sperimentale e una tendenza alla definizione realistica della materia trattata, anche in presenza di una poetica stilizzata e piena di convenzioni (es.: stilnovismo).

C'è poi un'altra costante dalla quale restano esclusi pochissimi componimenti: la centralità del tema amoroso, che dalle giovanili esperienze stilnovistiche passa, allegorizzandosi, ai temi filosofici della maturità e a quelli civili e autobiografici dell'esilio;

Larghissimo è il riferimento ai modelli: importantissimo quello alla tradizione siciliana e stilnovistica nella prima fase e quello ai trovatori provenzali nella seconda. Ma un certo rilievo occupa anche quello guittoniano, pure rifiutato a livello teorico- critico. Vitale è poi il rimando a Cavalcanti, dapprima imitato nei suoi aspetti più leggeri e disimpegnati, poi criticato e respinto nella concezione tragica dell'amore.

E' possibile suddividere le rime in cinque gruppi: 1) rime stilnovistiche; 2) Tenzone con Forese Donati; 3) rime allegoriche e dottrinali; 4) rime 'petrose'; 5) rime dell'esilio.


LE RIME STILNOVISTICHE

E' il gruppo più numeroso di componimenti, risalenti all'incirca al periodo tra il 1283 e il 1293.

Il tema amoroso domina incontrastato, secondo i modelli della poesia cortese e dei siculo- toscani, ma con un più diretto riferimento alle fonti siciliane che concorre, insieme all'influenza del Cavalcanti più sereno, alla straordinaria leggerezza di tono riscontrabile in alcuni componimenti.

Lo stile aristocratico e il ricorso a riferimenti culturali nobilitanti, con implicito rimando al nuovo pubblico d'élite sono riferimenti stilnovistici.

Dedicataria di molti testi è senz'altro la stessa Beatrice cui è consacrata la Vita Nova; e non è sempre comprensibile la ragione che ha spinto il poeta a inserire alcuni componimenti nell'opera e a escluderne invece altri; così come non è facile distinguere le rime rivolte ad altre donne da quelle indirizzate all'amata più importante. I nomi che compaiono (Fioretta, Lisetta, Violetta) sono da ritenere senz'altro convenzionali (cioè senhals non necessariamente riferibili a definite occasioni biografiche).


LE RIME PETROSE

La definizione 'rime petrose' appartiene ai commentatori, che utilizzano come discrimine tanto tematico quanto stilistico il riferimento dell'autore a una 'petra' che compare in quattro componimenti (due canzoni, una sestina e una sestina doppia) affini per poetica e per argomento. La composizione risale al periodo che segue il dicembre 1296. Dedicataria è una donna sensuale e crudele, indifferente all'amore del poeta e anzi lieta solo di conquistarlo con il proprio fascino; il termine- chiave 'petra' è probabilmente senhal allusivo alla durezza della donna, benchè non sia da escludere che possa trattarsi del nome proprio.

Ispiratore di questa nuova forma dell'arte dantesca è soprattutto il trovatore provenzale Arnaut Daniel. Il legame è testimoniato, oltre che dall'adesione al medesimo orizzonte del trobar clus, dall'impiego della sestina, introdotta proprio da Arnaut nella trattazione di temi affini a quelli delle 'petrose'.

Carattere originale e decisivo di questo breve ciclo è la corrispondenza coerente tra materia e modo della rappresentazione; così che alla violenza della passione e alla ostinata crudezza dell'amata corrisponde uno stile violentemente realistico, irto di dati concreti e di rimandi crudi, persino brutali. Coerente con il clima di esasperazione formale (e psicologica) è la ricerca insistita di suoni aspri e duri, contro la precedente tendenza della fase stilnovistica.


LE RIME DELL'ESILIO

Le rime composte nei primi anni dell'esilio, prima che Dante fosse interamente assorbito dalla Commedia, sono dominate da temi civili, presentati in chiave prevalentemente etica e affidati al consueto strumentario della tradizione amorosa, utilizzato in modo allegorico.

I temi di questa fase poetica determinano una vicinanza di fatto con la produzione civile di Guittone, anch'egli impegnato, pochi decenni prima e nella medesima condizione di esule, a denunciare il degradarsi dei valori sociali. A un livello elevatissimo di maturità artistica, Dante riprende e radicalizza la critica alla civiltà comunale e ai suoi valori.


IL CONVIVIO


Il Convivio è un'enciclopedia incompiuta del sapere medievale, rielaborata in chiave fortemente personale e di parte. E' scritta in volgare e strutturata in trattati contenenti temi tra loro affini, organizzati in forma di commento a testi poetici introduttivi.


Il titolo dell'opera è spiegato dall'autore stesso nel primo capitolo del primo trattato. Egli intende apparecchiare un banchetto metaforico, in cui al posto delle vivande siano serviti agli ospiti gli argomenti del sapere.

La sua intenzione è quella di condividere la ricchezza del sapere con quante più persone è possibile, comunicando loro le proprie scoperte in modo da renderle facilmente comprensibili anche a chi non abbia una solida preparazione culturale.

L'opera doveva comprendere ben quindici trattati, dedicati al commento di 14 canzoni (il primo trattato ha funzione introduttiva generale). Il piano era molto ambizioso e impegnativo; ed è rimasto incompiuto. Sono infatti conservati solamente i primi quattro trattati: quello introduttivo e tre di componimento ad altrettante canzoni.

Grazie a riferimenti a fatti storici e biografici, è possibile assegnare l'inizio della composizione al 1304 circa. Quasi sicuramente l'interruzione fu dovuta dall'impegno nella stesura della Commedia, non oltre quindi il 1308.

Ma le tre canzoni commentate nell'opera sono da far risalire al 1293- 1295.

L'esistenza di una notevole distanza temporale tra la composizione delle canzoni e quella dei commenti in prosa ha determinato in alcuni commentatori il sospetto che le interpretazioni fornite dall'autore in sede di autocommento non rispondano tanto alle intenzioni originarie dei testi poetici quanto a intenzioni diverse e successive, in qualche caso perfino estranee allo spirito delle canzoni.


Il trattato I, formato da 13 capitoli, ha funzione introduttiva. In esso Dante spiega qual'è lo scopo dell'opera e ne giustifica il titolo. In particolare spicca la scelta di un pubblico nuovo per un'opera di carattere dottrinario, non ristretto ai soli intellettuali, ma composto da tutti coloro che abbiano sincero desiderio di conoscere e animo nobile, uomini e donne cui gli impegni civili abbiano impedito finora di accostarsi agli studi. Collegata a questa scelta di destinatari è l'adozione del volgare, per la prima volta in un'opera di taglio non amoroso ma dottrinario. Tale scelta è difesa dall'autore e sostenuta con numerosi argomenti, sia direttamente riferiti alle competenze linguistiche del pubblico, sia centrati sul valore specifico del volgare, il nuovo sole che sta sorgendo dove tramonta il vecchio, e destinato a portare a molte più persone la luce del sapere.

I trattati II e III, sono entrambi formati da 15 capitoli e presentano forte affinità tematica.

Nel trattato II viene commentata la canzone «Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete». Il commento vero e proprio è preceduto da un'introduzione di carattere generale sul criterio seguito dall'autore nell'interpretazione. Egli distingue l'allegoria dei poeti, costituita da un significato letterale immaginario sotto cui si nasconde la verità, e l'allegoria dei teologi, nella quale tanto il significato letterale quanto quello profondo sono veritieri e storicamente fondati; a quest'ultima sono riferibili i testi dottrinari di Dante.

Nel trattato III è commentata la canzone «Amor che ne la mente mi ragiona», anch'essa collegata al tema della donna gentile, esaltata secondo la poetica stilnovistica della «loda». Come nel primo trattato, anche qui Dante compie numerose divagazioni sui temi di carattere sia scientifico che filosofico e teologico.

Il trattato IV è dedicato al commento della canzone «Le dolci rime d'amor ch'i' solìa» e si distende per trenta capitoli, con un raddoppiamento esatto rispetto ai due precedenti. Il tema biografico- amoroso è abbandonato a vantaggio di una elaborazione più risolutamente retorica. Al centro dell'attenzione sta la definizione della nobiltà. Dante esclude un rapporto tra nobiltà e nascita, a vantaggio di una concezione al tempo stesso provvidenziale e civile: la vera nobiltà non può che essere un dono divino, del quale però il soggetto deve rendersi degno attraverso l'esercizio delle virtù, da praticare soprattutto nella dimensione dell'impegno sociale.


I tre temi fondamentali sono dunque la difesa del volgare, l'esaltazione della filosofia, la discussione intorno all'essenza della nobiltà, cui si riconnette la proposta della monarchia universale rappresentata dall'Impero e dalla tradizione romana.

L'interesse per gli studi filosofici costituisce in Dante un importante allargamento di prospettive teoriche e culturali rispetto alla formula aristocratica della stagione stilnovistica.

Il Convivio rappresenta per l'autore un tentativo di inserire la propria vicenda stilnovistica entro la nuova dimensione sociale scoperta con la vita politica, cioè di fare della rielaborazione autobiografica un'esperienza fruibile collettivamente.

La scelta del volgare è tutt'uno con l'amore per una cultura teorica utilizzabile in prospettiva sociale; è cioè tutt'uno con la scelta di un nuovo pubblico, nei confronti del quale viene disegnato un nuovo ruolo per l'intellettuale. Esso è concepito da Dante come il risultato tanto della tradizione classica (intellettuale = sapiente) quanto di quella comunale (intellettuale = funzionario), ma in una prospettiva decisamente influenzata dal modello religioso cristiano (intellettuale = guida etica).

L'obiettivo dell'intellettuale è tanto quello di diffondere la cultura, quanto quello di fornire un modello eticamente consapevole e ragionato.


Nel Convivio Dante pronuncia la prima difesa del volgare fondata su argomenti generali e non circoscritta a ragioni artistiche. Lo scopo della rivalutazione del volgare è dichiaratamente fissato nella maggiore possibilità comunicativa. Ma gli argomenti usati puntano sul valore espressivo e sulla organizzazione interna della lingua volgare. Essa è dichiarata ancora inferiore al latino quanto a bellezza e nobiltà, ma pure dotata di potenzialità in grado di metterla all'altezza delle grandi lingue classiche. Dante stesso si propone di mostrare in opera, cioè messe in atto, tali potenzialità. E' perciò evidente che lo stile usato nell'opera non ha valore solo in se stesso, ma deve essere considerato strettamente connesso alle ragioni teoriche affermate.

Si può dire che la scommessa risulti largamente vinta.

Il modello che Dante tiene di continuo presente è quello della prosa latina, con la sua complessità sintattica (ricchezza di subordinate, tendenza alla prolessi e alla disposizione del verbo e delle proposizioni principali di fondo) e la sua ricerca di simmetria e di armonia strutturale.




IL DE VULGARI ELOQUENTIA


Il De vulgari eloquentia (L'eloquenza in lingua volgare) fu probabilmente composto da Dante tra il 1303 e il 1304, contemporaneamente al Covivio.

Il titolo è tramandato dai più antichi dantisti e trova conferma nel Convivio, nonchè in due passaggi dello stesso De vulgari eloquentia.

Tema dell'opera è la definizione di una lingua volgare illustre, capace di affiancare le grandi lingue classiche con pari diritti espressivi; nonchè in una rassegna delle forme retoriche nelle quali impiegare la nuova lingua d'Italia.


Il De vulgari eloquentia è, come il Convivio, incompiuto; tutti i codici si arrestano subito dopo l'inizio del capitolo XIV del secondo libro. Non è possibile dire con esattezza in quale modo si sarebbe svolto il progetto dell'autore, nè se Dante avesse uno schema chiaro della struttura dell'opera.

Il primo libro, suddiviso in 19 capitoli, dimostra la nobiltà del volgare illustre, superiore persino al latino, considerato da Dante una lingua artificiale. Infatti il volgare è una lingua naturale, che viene appresa dalla nascita senza studio. A sostegno della sua tesi, Dante ricostruisce una storia universale delle lingue.

Per combattere la proliferazione di varietà sempre più numerose e ristrette di parlate si è affermata la necessità di lingue artificiali e regolarizzate dalla grammatica, cioè convenzionali. Il latino è una di tali lingue. A questo punto Dante definisce le caratteristiche dei tre volgari, d'oïl, d'oc e del , ai quali corrispondono ormai splendide letterature. In particolare al volgare del , cioè al volgare d'Italia, è rivolta un'analisi assai particolareggiata. Scartate le parlate meno qualificate, Dante analizza quattordici varietà di volgare, offrendo un esempio precocissimo di classificazione su base geografica e linguistica.

Il volgare illustre è definito nei suoi caratteri ideali, quali non si riscontrano in questa o quella regione, ma nell'uso dei maggiori scrittori, e cioè illustre, cardinale, regale e curiale. Illustre perchè luminoso in sè e capace di dare lustro a chi ne fa uso nei suoi scritti; cardinale perchè costituisce il cardine al quale fanno riferimento tutti gli altri volgari; regale perchè se in Italia esistesse una reggia esso vi troverebbe la sua collocazione più ovvia; curiale perchè risponde alle norme stabilite dagli italiani più prestigiosi, rappresentanti una 'curia', cioè una corte, ideale, in mancanza di una curia effettiva.

Il secondo libro comincia a definire gli usi possibili del volgare illustre, e si caratterizza pertanto come un originale trattato di retorica. Solamente i poeti di cultura e di ingegno elevati sono degni di fare uso del volgare illustre, e solamente nella trattazione di temi elevati: politici, amorosi e morali. La forma più degna per il volgare illustre è quella di maggiore nobiltà, cioè la canzone. Questa deve essere costruita secondo regole rigorose, e deve fare ricorso allo stile tragico (o illustre) e al metro più splendido, l'endecasillabo, eventualmente alternato al settenario. Anche il lessico deve evitare cadute verso il registro umile, e restare al livello sublime che gli compete. Dopo alcune osservazioni sugli elementi costitutivi della canzone il libro si interrompe bruscamente.

E' probabile che il terzo libro dovesse essere dedicato agli usi in prosa del volgare illustre; e il quarto allo stile comico.

Lo stile del De vulgari eloquentia è fedele alle regole della trattatistica scientifica del tempo, in una prospettiva aperta ai più qualificati influssi, anche recenti, dell'Europa intera. La costruzione del periodo mostra, da una parte, ricerca di equilibrio, armonia, trasparenza semantica; dall'altra, volontà di nobilitazione e di innalzamento, attuati attraverso il ricorso al cursus, a figure retoriche anche raffinate e complesse, a neologismi e termini rari e difficili.


E' sempre fortissima in Dante l'esigenza di intervenire a livello teorico intorno alle proprie scelte artistiche, allargando la riflessione dalla poetica a categorie filosofiche più vaste.

Il De vulgari eloquentia può essere letto, da questo punto di vista, come una pausa di riflessione teorica intorno alle massime questioni creative, attinenti come è ovvio al linguaggio e alla retorica. L'interruzione segnalerebbe il raggiungimento di una nuova consapevolezza, ormai pronta all'impegno della Commedia.

Dante non propone un modello linguistico formato con il meglio delle varie parlate italiane, ma riconosce in ognuna di esse le potenzialità di identificarsi con il volgare illustre, a patto di liberarsi dai limiti 'provinciali', come hanno fatto i migliori scrittori di varie regioni italiane. In tal senso, il fatto che Dante per proprio conto, soprattutto con la Commedia, faccia ricorso a una base linguistica solidamente fiorentina non rappresenta una contraddione con il proprio sistema teorico; mentre costituisce un'innovazione il plurilinguismo, con il conseguente impiego, condannato nel De vulgari eloquentia, del registro umile del lessico e dello stile a fini realistici.

In effetti è assai probabile che la brusca interruzione dell'opera sia da mettere in relazione con l'insorgenza del progetto sconvolgente della Commedia. Questa verrà a sostenere la dignità artistica e filosofica dell'idioma volgare attraverso una poetica assai lontana da quella lumeggiata nel De vulgari eloquentia.

Il tentativo compiuto nel trattato è quello di dare autorità al volgare promuovendolo al livello di lingua 'regolata', cioè grammaticale, in qualche modo sottratta alla confusione babelica: mentre una forma di superiorità nei confronti delle lingue 'regolate' storiche resterebbe conferita al volgare dal suo carattere naturale e spontaneo, non artificiale.

L'opera mostra l'influsso dei grandi modelli retorici classici (Cicerone, l'Ars poetica di Orazio) e delle artes dictaminis italiane; ma decisivo risulta infine proprio il modello analogico sostenuto dai teorici della grammatica speculativa.

Quando Dante vorrà innalzare alla massima responsabilità storica e filosofica il volgare, accingendosi al progetto del poema, sarà costretto a superare in modo radicale la posizione rigorosa del De vulgari eloquentia, infatti interrotto; e proprio nella Commedia, improntata a una poetica realistica per la quale si dà corrispondenza tra forme dell'espressione e forme del contenuto, si incontrerà una ritrattazione anche teorica di uno dei postulati fondamentali dichiarati nel trattato: anche l'ebraico, nel De vulgari eloquentia definita lingua divina e incorruttibile, apparterebbe invece alla condizione storica e mutevole delle lingue umane.



LA MONARCHIA


La Monarchia è l'unica tra le opere teoriche di Dante a essere stata completata; quella che ha provocato più vivaci accoglienze e destinata a più controversa fortuna. Essa è scritta in latino (la lingua di comunicazione tra gli intellettuali di ogni paese) e raccoglie in forma organica le idee politiche dell'autore.

L'opera è divisa in tre libri, ognuno dei quali è dedicato a un aspetto diverso del tema centrale.

Il primo libro sostiene e argomenta la necessità, storica e filosofica, della monarchia universale. Essa ha il fine di garantire all'uomo le condizioni indispensabili alla positiva realizzazione delle proprie potenzialità spirituali e pratiche. Ciò che allontana l'uomo dall'impiegare il libero arbitrio in direzione moralmente corretta è la cupidigia dei beni materiali.

Il secondo libro è dedicato a considerazioni di carattere prevalentemente storico, interpretate però alla luce di una concezione provvidenzialistica e teologica della storia. Nell'Impero romano si è realizzata la forma storicamente determinata dalla monarchia universale; ed esso ha avuto origine dalla volontà di Dio stesso, perchè la parola di Cristo potesse diffondersi meglio grazie all'unificazione del mondo sotto un'autorità unica.

Il terzo libro è dedicato alla questione politica più controversa e attuale del tempo: i rapporti tra Impero e Chiesa. Il dibattito era dominato da due posizioni polemicamente contrapposte: quella dei filoimperiali, che sostenevano la superiorità del potere temporale su quello del papa, e quella dei filopapali, assai più diffusa in Italia e legata agli ambienti culturali vicini alla sensibilità di Dante. Questi ultimi sostenevano la subordinazione del potere temporale dell'imperatore al papa, il quale diveniva così un mediatore indispensabile dell'investitura divina sull'imperatore. Dante confuta entrambe le tesi, affermando che entrambe le autorità derivano direttamente da Dio, e sono perciò tutt'e due prive di ogni forma di subordinazione reciproca.

La posizione dantesca è per più aspetti originale. Essa è in contrasto tanto con i sostenitori della concezione teocratica (che riconoscevano nel papa l'unico rappresentante sulla Terra della volontà divina e pertanto il mediatore di ogni rapporto, anche politico, con essa), quanto con i sostenitori dell'autonomia politica e religiosa dei sovrani nazionali rispetto all'imperatore e al papa.




IL FIORE


Nel decennio successivo alla morte di Sigieri Brabante, un fiorentino di nome ser Durante, esperto conoscitore non solo della lingua d'oïl, ma delle cose di Francia e della dottrina filosofica di Sigieri, parafrasò in volgare, con il titolo di Fiore, l'opera che, già da qualche anno, stava conoscendo straordinaria diffusione in tutta Europa, il Roman de la Rose.

Che questo ser Durante sia Dante Alighieri  (Dante è contrazione di Durante) è ipotesi già sostenuta cento anni fa da Parodi. Questa ipotesi è stata autorevolmente ripresa da Contini, che ha ulteriormente rafforzato tale attribuzione. Solo un allievo di Brunetto Latini come Dante avrebbe potuto avere tale conoscenza della Francia; e inoltre vi sono numerosi riscontri testuali, linguistici, stilistici e culturali, che collegherebbero il Roman de la Rose, il Fiore e la Commedia. Per esempio, la valutazione positiva di Sigieri di Brabante è confermata nella Commedia, dove compare, nel Paradiso, questo filosofo, che pure era stato condannato dalla Chiesa in quanto averroista (cioè seguace dell'arabo Averroè, studioso di Aristotele d'impostazione materialistica). Ciò nondimeno, l'attribuzione a Dante non può essere del tutto sicura, e margini di dubbio persistono.

Nel titolo, la 'rosa' del testo francese diventa, più genericamente, il 'fiore'.

L'autore riprende le vicende narrative del Roman de la Rose, ora parafrasando, ora liberamente rifacendo il testo francese, ma tenendosi lontano sia dalle teorie cortesi della prima parte dell'opera, scritta da Guillaume de Lorris, sia dalle digressioni dottrinali ed enciclopediche della seconda, composta da Jean de Meung. In generale, tuttavia, l'autore si ispira piuttosto al secondo poeta che al primo. Questa preferenza per Jean de Meung è dovuta a motivi sia culturali che stilistici. Culturali, perchè questo scrittore è più borghese e materialista e quindi più vicino ai valori della società comunale; stilistici, perchè è più realista e usa un linguaggio più concreto e diretto. E in effetti lo stile del Fiore è 'comico', assai vicino alle soluzioni linguistiche di Rustico Filippi o di Cecco Angiolieri o a quelle che Dante stesso usa nella Tenzone con Forese Donati.

Il poemetto consta di 232 sonetti e vi si narra la ricerca di Fiore da parte di Amante.



ALTRE OPERE


IL DETTO D'AMORE

In origine faceva parte dello stesso manoscritto del Fiore anche il Detto d'Amore, altra rielaborazione del Roman de la Rose, di minore ampiezza e cronologicamente precedente al Fiore. E' un poemetto in settenari a rima baciata, come il Tesoretto di Brunetto Latini, e sembra dello stesso autore che ha composto il Fiore, per cui sarebbe attribuibile anch'esso a Dante.


LE EPISTOLAE

Attraverso una tradizione manoscritta composita, in parte legata alla personale attività di Boccaccio, ci sono pervenute tredici lettere scritte in latino da Dante per inizitiva personale o anche per conto di altri (per esempio a nome di signori presso i quali soggiornava come ospite negli anni dell'esilio). Di altre lettere, purtroppo perdute, ci danno testimonianza i biografi e in qualche caso Dante stesso. lo stile delle lettere mostra una grande perizia nell'uso delle convenzioni dell'ars dictandi, con abbondante ricorso al cursus e a rielaborazioni retoriche. Frequenti sono i riferimenti alla Bibbia e agli autori classici, con il fine di innalzare la materia. Infatti la personalità dantesca si esprime in queste lettere, e soprattutto in quelle di carattere politico, attraverso un atteggiamento profetico e sdegnato, propenso all'enfasi e ai moti d'orgoglio.

Tutte le lettere risalgono agli anni dell'esilio.


LE EGLOGHE

Si tratta di due componimenti poetici in esametri latini, sul modello delle Bucoliche di Virgilio. La tradizione manoscritta dipende per intero da autografi di Boccaccio, e non è mancata qualche dichiarazione di sfiducia sulla effettiva paternità dantesca. Entrambe le egloghe furono composte tra il 1319 e il 1320 in risposta alle sollecitazioni in versi di Giovanni del Virgilio, maestro di retorica a Bologna. Questi espone la propria concezione aristocratica della poesia, invitando Dante, del quale pure si confessa fervente ammiratore, ad abbandonare l'uso del volgare e a rivolgersi alla tradizione classica latina e ai suoi temi. La risposta di Dante configura una contraddizione tra la forma artistica e il contenuto. Infatti, oltre che scrivere in latino, Dante sceglie il metro classico latino (l'esametro)e rilancia il genere bucolico, con la conseguente adozione di riferimenti convenzionali; ma d'altra parte riconferma le proprie scelte di poetica (e cioè l'adozione del volgare e di argomenti anche comici). La devota risposta di Giovanni si svolge anch'essa secondo il modello dell'egloga dantesca, mostrando immediatamente i segni della fortuna cui tale genere sarà destinato nel periodo umanistico e in seguito. Più generica è la seconda egloga di Dante, che fra l'altro ringrazia l'interlocutore per l'offerta di ospitalità.


LA QUESTIO DE AQUA ET TERRA

Tramandata dalla sola editio princeps e messa in forse quanto ad autenticità, la Questio contiene il testo di una lezione tenuta da Dante a Verona nel 1320, riprendendo una disputa svoltasi poco prima a Mantova, alla quale aveva casualmente partecipato anche il poeta. Il titolo non è dell'autore ma editoriale, come altri proposti più di recente.

L'operetta entra in un dibattito di tipo scientifico, discutendo una questione di cosmologia con ricchezza di informazioni e originalità d'impostazione.

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