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Norme e valori nella prospettiva simbolica




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Norme e valori nella prospettiva simbolica


La  riflessione sulla devianza nella tradizione sociologica, ha proceduto all'unisono con la riflessione sul concetto di "normalità", quale presupposto all'indagine delle possibili relazioni fra azione individuale e reazione sociale.

Il concetto di normalità ha subito, nel tempo, una serie di adattamenti a opera dei processi culturali, i quali hanno contribuito a ridefinirne i contorni.

Studiare le inferenze che derivano dalla traduzione del concetto di normalità sul piano delle relazioni sociali, si è dimostrato essenziale per comprendere il processo di costruzione e conferma di quadri di significato e, quindi, di categorizzazione della realtà.

In una prospettiva simbolica, infatti, la devianza può essere considerata un'attribuzione di significato sociale alla diversità. Una diversità colta in rapporto allo spessore della normalità quotidiana che l'atto deviante ha infranto.

Devianza e diversità , dunque, condividono una relazione in funzione del rapporto con la infrazione-rottura di una regola sociale, culturalmente determinata.

Come ha osservato Becker, infatti, "giudicare se un atto sia o meno deviante dipende in parte dall'atto - dal grado di infrazione di una regola - in parte dal trattamento che gli viene riservato dal pubblico. Ossia da chi, quando e dove esso venga commesso".

Qui, il concetto di devianza intercetta il concetto di norma. E qui il concetto di norma apre a due percorsi interpretativi, a seconda che si attribuisca alla violazione di una norma un valore di rottura di regole sociali, o infrazione di una regola dell'ordinamento sociale - una regola istituzionalmente prescritta.

Questo doppio canale di senso, notevolmente significativo, per comprendere come, da parte delle istituzioni, il processo di riabilitazione del deviato si intenda concluso con l'espiazione, mentre da parte della collettività il processo di riabilitazione - se mai compiutamente concluso - comporterà tempi più lunghi e, comunque, l'insorgere di un pregiudizio, un etichettamento. Infatti, la rottura di una regola sociale, nella coscienza collettiva, è vissuta come un tradimento di ruolo, che comporta un discredito difficile da rimuovere. La collettività opera una valutazione della condotta, a prescindere dall'entità della violazione in termini di danni procurati, ma in relazione al potenziale che l'atto deviante porta in sé, in termini di spiazzamento dell'orizzonte d'attesa nell'interazione sociale.

In tal senso vale ricordare Garfinkel quando dice che " la collettività percepisce la devianza come una violazione delle regole costitutive dell'interazione". Esse somigliano alle regole fondamentali di un gioco. In un contesto di gioco, i giocatori non rispondono tanto a un atto, quanto invece, al suo significato simbolico, in relazione alla strategia di gioco che ne emerge. Si presume che le regole costitutive possano essere evidenziate in quanto guide all'interazione nel corso degli eventi quotidiani, così come nei giochi.

Una conclusione che si può cogliere, da quanto fin qui detto, è che in certe situazioni non è possibile determinare se un comportamento sia considerato deviante, esaminando semplicemente le sue caratteristiche esteriori. E' necessario conoscere, quali regole sono a fondamento dell'interazione sociale, poiché ogni azione sociale viene colta nel contesto in cui si sviluppa. Ogni segno, ogni azione, lega la sua significazione al quadro di significati entro cui si attualizza.

L'atto deviante, assume valore simbolico differente, in relazione a due componenti: la componente individuale e la componente culturale. La prima designa un giudizio, in base alla familiarità dell'attore con una certa classe di comportamenti; essa riguarda più da vicino la cosiddetta "ragione del crimine".

La seconda componente, invece, riguarda la relazione fra la struttura culturale del sottosistema in cui si attualizza l'atto deviante, e la cultura del sistema sociale.

Come ricorda E. Lemert, in riferimento a situazioni non strutturate, quando le regole costitutive vengono infrante, la situazione diviene confusa. Questo da luogo a una ridefinizione - del comportamento non conforme alle aspettative, nei termini di significati alternativi a ciò che è costitutivamente normale e accettabile.

Qui, il gruppo - la famiglia, la comunità professionale, il club - si produce in un'opera di risemantizzazione dell'atto deviante, inserendolo in un quadro di significazione che scivola verso una deriva. L'interazione culmina nella mutua accettazione delle nuove regole costitutive. Si attua, così una normalizzazione dell'atto deviante, al fine di incapsulare la deviazione, e trattenere il deviato, preservandolo dall'etichetta.

In altre parole, si tende a coprire un comportamento operato dai membri di un gruppo o cultura, mediando la percezione dello spessore dell'atto deviante, attraverso filtri culturali, in funzione del ruolo del deviato. E questo anche al fine di non esporre la rappresentazione del gruppo, a rischi di dissolvenza per tradimento di ruolo o eccessiva apertura del retroscena. Infatti, da un lato,  nell'accomodamento precario della stigmatizzazione, il gruppo continua la sua rappresentazione, senza privarsi del contributo del ruolo dell'autore della devianza; dall'altro, il gruppo risulta più coeso in funzione della condivisione di un segreto. Si tratta di quello che Goffman definisce "passare" e "mascheramento", a proposito della gestione dell'immagine dello stigma nell'interazione sociale.

Ed è in questa dinamica di accomodamento precario della devianza, che possiamo rintracciare il prototipo di molti comportamenti che caratterizzano l'interazione sociale quotidiana. Una operazione di chirurgia cultural-cognitiva, attraverso la quale si autorizza una deriva culturale dei valori, in una sorta di relativismo etico di disimpegno critico.

Come dire che, per definizione o per decreto, determinate pratiche culturali - siano esse di gruppi dominanti o minoritari - divengono o meno reati passibili di sanzioni, in funzione dell'inter-esse che il gruppo, o le élites dominanti, ripongono negli esiti della normalizzazione o della stigmatizzazione .

Potremmo concludere, intanto, che, in una prospettiva valutativa della devianza primaria quale infrazione di regole sociali, essa acquista significato nel quadro simbolico in cui prende corpo, influenzato dal pluralismo dei valori e da interessi socialmente condivisi.



Devianza e motivazioni: una questione di istanze identitarie.


In una società fluida, caratterizzata dalla velocità e trasversalità dei processi di socializzazione, appare particolarmente significativo il passaggio che Durkheim ha dedicato alla devianza. Egli assegna all'atto deviante, uno statuto di atto politico di ribellione profetica nei confronti dell'esistente. Una valutazione della devianza quale profezia sociale del "non ancora", in cui si possono individuare, sia i limiti dei paradigmi interpretativi dell'azione sociale, sia il carattere dinamico della società, che si ridefinisce nell'interazione sociale.

L'analisi durkheimiana, infatti, pone l'accento sul rapporto fra dimensione normativa e bisogni sociali dell'individuo, rilevando che il tipo di rapporto che si svilupperà fra individuo e società potrà essere determinato sia dall'alterna riuscita del processo di socializzazione, sia dal grado di soddisfazione dei bisogni individuali.

Anche nella prospettiva della tensione strutturale di Merton, la deviazione trae origine dal variare delle scelte compiute dagli individui, sia in funzione del valore attribuito al raggiungimento di mete e fini, culturalmente definiti, sia in funzione delle disuguali opportunità di accesso ai mezzi.

In una struttura culturale, in cui il valore delle mete sia in qualche maniera rapportato al valore etico-sociale dei mezzi, si potranno rilevare condizioni particolarmente favorevoli allo sviluppo del "collective self-esteem"[2], una stima di sé intrinsecamente connessa alla propria appartenenza a gruppi sociali, e al valore riconosciuto alla condotta individuale da parte del gruppo - e del sistema.

Al contrario, se l'interesse viene spostato unicamente sul risultato del competere, allora è abbastanza comprensibile che, coloro i quali sono perennemente penalizzati nell'accesso ai mezzi, possano adoperarsi per un cambiamento delle regole del gioco.

In tal senso, risulta illuminata l'intuizione di Merton, quando asserisce che "la devianza è il prodotto secondario delle disuguaglianze economiche", se viste quale inadeguatezza dei mezzi per il raggiungimento di mete culturalmente definite.

Laddove i mezzi e i processi siano stati depauperati del loro valore etico, in un quadro simbolico costruito attorno al valore del risultato, verso il raggiungimento di una meta, sarà quel procedimento, che si mostrerà piu efficace tecnicamente, a essere preferito rispetto alla condotta prescritta istituzionalmente - non importa se sia o meno legittimo. Come dire che si attua una deriva culturale verso uno prototipo efficientista, in cui i valori di liceità vengono considerati un retaggio di una cultura statica e obsoleta, fuori moda, e sostituiti dalla cultura dell'arrivismo.

Ed è in questo passaggio subdolo, che si può individuare una integrazione alla teoria mertoniana, considerando gli aspetti intra-psichici della tensione strutturale sull'individuo.

In un sistema dove la mobilità sociale tende ad allargare le aree di contatto fra i cerchi sociali, dove gli ambienti informativi da retroscena sono sempre più accessibili, se da una parte il comportamento individuale è sottoposto a una tensione che scaturisce dal conflitto fra norme e realtà sociale (struttura culturale e struttura sociale), dall'altra l'individuo è soggetto a una tensione identitaria.

L'individuo, infatti, sempre alla ricerca del giusto posto[3] nel processo di socializzazione, avendo sacrificato una parte delle proprie istanze, a favore dei valori universali condivisi dal gruppo e dal sistema, nel cogliere - attraverso l'interazione intergruppi - la deriva dei valori culturali condivisi, vive una sorta di tradimento sociale. Il tradimento di un patto, stipulato sulla scorta di valori che, per alcuni, hanno perso di significato. Come dire che mentre per alcuni, i valori fondanti la cultura, continuavano a essere i riferimenti ai quali ispirare l'interazione sociale, per altri, gli stessi valori avevano perso di significato, ed erano stati sostituiti da valori - tecnici - di arrivismo, contrabbandati dai mezzi di comunicazione di massa. Con buona pace della cultura dominante.

Significativo, appare, ora, il riferimento a Karl Mannheim, il quale dice che " rientra fra i fatti fondamentali della vita sociale a noi nota, che l'uomo non agisce per amore immediato della prestazione, ma inserisce nelle sue motivazioni una deviazione e trova la via della prestazione solo attraverso l'ambizione soggettiva di successo. In genere e in media l'uomo riesce a realizzare una data cosa , solo se contemporaneamente afferma in qualche modo anche se stesso"

Alla luce di queste considerazioni, e sul contributo durkheimiano e mertoniano, integrato dalla prospettiva della tensione identitaria in funzione del successo, possiamo tentare un'altra conclusione.

Assunto che,

in una prospettiva simbolica, il valore individuale di una meta, è in stretto rapporto con l'istanza di riconoscimento di identità individuale;

l'azione individuale verso il raggiungimento di una meta passa per l'interazione sociale, attraverso la quale l'individuo assume i riferimenti della sua identità sociale;

l'interazione è supportata da valori universali, ovvero trasversali a tutti i cerchi sociali;

riconoscere il valore della partecipazione alla costruzione sociale, significa riconoscere il contributo e il valore di ogni identità. Spostare la valutazione del contributo individuale solo sul piano del successo, significa riconoscere una identità ai soli soggetti in grado di produrre risultato, con la conseguente tensione tra mezzi e fini.

Sul piano delle motivazioni, si potrebbe concludere, pertanto, che:

la tensione tra mezzi e fini produce devianza nella misura in cui il riconoscimento di una istanza identitaria è associata al raggiungimento della meta;

il grado di devianza dipende, sia dalla significazione individuale del valore identitario assegnato alla meta, sia dalla significazione individuale del tradimento sociale, in termini di anomia.


Impostare l'interazione sociale nei termini di una pedagogia sociale, che guardi al valore simbolico della condivisione dei valori, sia in termini normativi che identitari, significa porre l'accento sull'arricchimento che ognuno può trarre dalla partecipazione a un risultato collettivo, e dall'esperienza di squadra. Questo potrebbe significare, ancora, lasciare aperta una finestra alla probabilità di un reinvestimento del frutto di quella esperienza, in un'altra occasione possibile. E inoltre: mentre l'esasperazione del valore del risultato, può indurre a una mortificazione del sé, il riconoscimento di un valore partecipativo all'azione sociale, avrebbe il significato di riconoscimento di una ruolo sociale, capace di produrre gratificazione identitaria.




Carriera morale e coscienza critica


La mortificazione del sé, tuttavia, potrebbe non essere un elemento sufficientemente significativo, da indurre a una condotta deviante, pur rappresentandone, comunque, una condizione prodomica; ovvero, uno dei piccoli passi, ognuno dei quali è condizione dello svilupparsi di una nuova prospettiva, che è premessa di nuovi comportamenti.

Se si può parlare di carriera deviante, infatti, lo si può fare proprio in funzione di una deriva comportamentale per gradi, che, proprio in virtu della gradualità, conduce a quel relativismo morale di disimpegno critico, di cui ci ha parlato Lemert.

Se ne deduce che, comunque, il processo deviante, contiene degli elementi  volontaristico-valutativi.

Infatti, la carriera deviante, riguarda la scelta di alcuni percorsi mediante i quali attualizzare l'istanza di identità sociale. La diversa scelta dei percorsi, pur se condizionata dalla pregnanza culturale di determinati atti devianti - in virtù della quale attendersi una normalizzazione - si attua attraverso una assunzione di rischio, così come ricorda Lemert:


.abbiamo proposto una teoria della deviazione fondata sull'assunzione dei rischi invece che su una concatenazione semplice di mezzi e fini. Essa considera la deviazione (o la conformità) come risultato di una tra le diverse sequenze possibili di mezzi e fini, che non può essere spiegata completamente senza tener conto di fattori accidentali e del controllo sociale attivo.

Riconoscendo nei gruppi primari, una delle principali agenzie di controllo sociale, potremmo dire che la scelta dei percorsi per attualizzare una istanza di identità sociale - prima di praticare l'opzione deviante e l'assunzione di rischio - passa per il filtro di quella che abbiamo chiamato coscienza critica, determinata socialmente, col contributo dei gruppi primari.

Per coscienza critica, abbiamo inteso quel lavoro del sé sul sé, di cui ci ha parlato Michel Foucault.

Una alterazione del processo di maturazione della coscienza critica individuale, potrebbe determinare una alterazione del quadro di significato dell'interazione sociale, tanto da indurre a giustificare una deviazione dai percorsi ordinari.

Un contributo in tal senso può venire, sia dai media, chiamati a svolgere un ruolo di mediatori di modelli culturali e connettori di istanze sociali, sia da una impostazione della struttura sociale che favorisca una interazione sociale aperta. Una apertura, che appare come opportunità di confronto, da attuare mediante la promozione dell'accesso, dei gruppi emarginati, agli ambienti informativi delle aree di sovrapposizione dei cerchi sociali[4].

Nella interazione sociale, aperta allo scambio informativo intergruppi, infatti, si realizzerebbero condizioni di confronto, foriere di elementi significativi per una approccio alla socializzazione da prospettive diverse. Per dirla con Goffman, è nel "salutare recupero delle relazioni quotidiane", che possiamo individuare elementi che ci consentano di prendere le distanze dall'immanenza del presente.

In tema di devianza e di processi, sviluppare una coscienza critica, potrebbe significare avere gli strumenti per operare una equa valutazione del rapporto fra istanze identitarie, e mezzi.




Ristrutturazione identitaria e senso di ingiustizia, nella socializzazione dell'internamento.


Il processo piu generale, mediante il quale avviene il passaggio di status e di ruolo, è quello di socializzazione. In tema di devianza, un particolare processo di cambiamento di status, riguarda la socializzazione dell'internamento. In questo processo, si realizza sia una deriva sociale dell'individuo verso uno status moralmente e socialmente inferiore, sia una deriva identitaria, verso una particolare percezione del sé interpersonale e del sé ecologico.

E' in questa deriva identitaria, prodotta dalla socializzazione dell'internamento, che potremmo rintracciare un gradino intermedio nella transizione dalla devianza primaria alla devianza secondaria.

Tale ristrutturazione dell'identità dell'internato, si attuerebbe proprio grazie all'isolamento in una subcultura, dove le opportunità di contaminazione culturale sono precluse significativamente.

Qui, l'individuo, nello sforzo di portare avanti una lotta per la resistenza identitaria, non accetta lo status ma la condizione. Non accetta l'etichetta di criminale, ma il grado di deviante-vittima, che si sostanzia sul senso di ingiustizia per una punizione eccessiva, somministrata con metodi che hanno piu il sapore di una vendetta sociale. In questo passaggio, il mondo esterno viene rifigurato come lo stereotipo di un unicum coeso e omogeneo nel suo antagonismo. Qui, l'internato, grazie al processo di fraternizzazione e al mutuo appoggio con i compagni che condividono il destino comune, trova la possibilità di opporsi al sistema, in forza della condivisione di un comune senso di ingiustizia e di amarezza verso il mondo esterno.

Ed è proprio in questo scarto, che potremmo individuare un passaggio importante verso la ristrutturazione dell'identità di gruppo. In questa fase l'internato passerebbe dall'accettazione della condizione, alla interiorizzazione del ruolo, dietro la motivazione reattiva al senso di ingiustizia. Egli infatti, se fino a quel momento si sente diverso dal mondo esterno, solo per la condizione di internato, da quel momento egli sà di essere diverso per l'opposizione al mondo esterno. Una opposizione acuita, sia dalla percezione di essere diventato oggetto di una pratica burocratica, finalizzata all'esercizio del potere di punire e di normalizzare l'internamento, sia dalla frattura con il sistema informativo esterno, dovuta all'amnesia sociale derivante dalla sua uscita di scena.




Media, identità e amnesia sociale


Con l'internamento, infatti, il detenuto non partecipa più alla rappresentazione sociale. Egli perde il ruolo e la faccia. Ma non solo. Egli entra a far parte di una realtà virtuale, di cui si perdono le tracce nella rappresentazione quotidiana. Il detenuto è un alias. Collocato in un territorio di frontiera, privo di cittadinanza, l'internato vive nell'attesa di una riabilitazione, che il pregiudizio ha confinato nelle eventualità piu remote.

Ed è proprio in quella mancanza di cittadinanza, di attenzione da parte del sistema, che si consuma quel collasso mentale che spiana la strada alla devianza secondaria.

Per dirla con Marshall McLuhan, ".i collassi mentali di vario genere sono spesso il risultato dello sradicamento e dell'inondazione di nuove informazioni e di modelli di informazione incessantemente nuovi".

Con l'uscita di scena, l'internato, sprofonda nel precipizio del vuoto comunicativo; in un baratro che lo separa da ogni possibilità di progresso identitario, mentre scivola verso una deriva identitaria, confinato in un sottosistema virtuale.

E' in questa fase di transizione, invece, che l'azione dei media acquista significato in un orizzonte riabilitativo.

Mantenere un canale di comunicazione aperto, sia in entrata che in uscita, durante la parentesi dell'internamento, potrebbe rappresentare, sia una opportunità di collegare i sottosistemi - così come annunciato da Luhmann e Wilden - sia una possibilità di sfuggire informativamente alla cultura dei gruppi ancorati al luogo.

L'accesso ai media, dunque, può rappresentare una condizione essenziale al mantenimento di un senso di continuità all'esperienza umana, dal quale trarre elementi di emancipazione morale. Può rappresentare un modo per offrire l'opportunità di emancipare la coscienza critica, attraverso l'esperienza del raccontarsi, per sentirsi partecipi di una realtà che ha bisogno del contributo di tutti, e non solo dei risultati di pochi.

E questo al fine di non dare spazio ai collassi mentali, nella consapevolezza che il processo di degrado identitario non giova alla collettività, se non in quanto depositario di un valore di anormalità, funzionale alla normalità.


E' la nostra relazione a valori che ci guida e ci orienta nel selezionare gli exempla illuminanti e appropriati per mostrare la plausibilità o la ragionevolezza delle teorie che, di volta in volta, ci guidano e ci orientano nel giudicare istituzioni e pratiche sociali[5].

"La realtà empirica è per noi 'cultura' in quanto, e nella misura in cui, la poniamo in relazione con idee di valore; essa abbraccia quegli elementi della realtà che diventano per noi significativi in base a quella relazione, e soltanto questi elementi. E ciò dipende dal fatto che noi siamo esseri culturali dotati della capacità e della volontà di assumere consapevolmente posizione nei confronti del mondo e di attribuirgli senso"[6]




A questa ipotesi, fa eco la discussione su cultura, conflitto e criminalità, portata avanti da Sellin, che si propone quale monito rispetto alle implicazioni sociali del relativismo etico.

K. Long e L. Spears, (1997)The self-esteem hgypothesis revisited: differentiation and the disaffected, in C. Serino, Percorsi del sé, Roma, Carocci Editore, 2001.

Giusto posto che corrisponde al bisogno di identità, al bisogno di dare continuità e senso alla propria identità, in funzione del grado di integrazione delle sue istanze con quelle del gruppo. Sentirsi riconosciuti dal gruppo, vuol dire sentirsi adeguati.

Magari scaricando i gruppi svantaggiati, dal peso dell'etichetta dell'indigenza, attraverso un'opera di rivalutazione del valore del "dono", che risiede in ogni comunicazione.

Veca S., La bellezza e gli oppressi. Dieci lezioni sull'idea di giustizia, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 2002, p.145;

Weber M., Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, Torino,Edizioni di Comunità, 2001, pp.174-79.

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