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Psicodinamica della Xenofobia




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Psicodinamica della Xenofobia






La teoria sociologica del razzismo risale ai primi anni Venti del Novecento quando alcuni psicologi cominciarono a sostenere, esibendo un'ampia documentazione, che il pregiudizio razziale non era una caratteristica ereditaria bensì una forma di comportamento appreso durante la socializzazione. Gli psicologi e "in primis" Sigmud Freud e Martin Wangh (Bertani M. - Ranchetti M., Psicoanalisi e antisemitismo, Einaudi, Milano, 1999, pg 35) , dicono che il pregiudizio nasce dallo sviluppo mentale normale e patologico, e che le primissime esperienze e le prime modalità di reazione di un bambino restano il modello per tutte le esperienze successive, e che sussiste la tendenza a restare rigidamente fedeli alle prime reazioni. Ad esempio il bambino turbato teme l'estraneo e si aggrappa alla madre, sebbene presumibilmente egli abbia fatto proprio con lei, a livello soggettivo, la sua prima cattiva esperienza.






E' qui che si rinvengono i presupposti per lo sviluppo degli atteggiamenti xenofobi e di quelle concezioni reazionarie che si accompagnano regolarmente al cieco pregiudizio. Ogni frustrazione nel normale processo di crescita produce un' energia aggressiva che, combinata con gli elementi libidici della fase corrispondente, si manifesta in un rafforzamento della qualità sadica della fase. Dalla proiezione di queste fissazioni sadiche derivano i caratteri paranoici del pregiudizio. La psicodinamica del sentimento d'identità in riferimento ai contesti esterni (istituzioni, partners, ecc.) rende pensabile che esistano problemi alla base della psiche umana, di insicurezza, vulnerabilità, onnipotenza ecc. che portano a fenomeni come la difficoltà di integrazione.

Secondo Silvia Amati (Silvia Amati, Onnipotenza e impotenza, certezza e incertezza, dilemmi della soggettività, saggio), questi sono "dilemmi" della soggettività, poiché appartengono all'ordine dei termini non ben definiti, accavallati, come nel caso di 'heimlich-unheimlich', come nel caso del "perturbante" freudiano. L'onnipotenza soggettiva ci fa "credere" fermamente nei nostri desideri e nei nostri pensieri. Il sentimento di certezza nelle nostre percezioni e nel loro significato costituisce un "background of safety" [sfondo di rassicurazione] (Sandler); la loro perdita implica la perdita del sentimento di familiarità col contesto, ossia di quello che è considerato ovvio, sicuro, "scontato". Simultaneamente appare l'intuizione di quello che è stato lasciato da parte, che è stato ignorato e che pertanto ci risulta sconosciuto, fuori dall'ovvio. Ogni soggetto trova nel mondo esterno concreto circostante, nelle metafore e nei simboli che lo significano, un appoggio alle sue "appartenenze". Il "perturbante" può essere descritto tanto come un "estraneamento" dell'identità in riferimento a cambiamenti del mondo esterno, quanto come un' "estraniazione", un turbamento della percezione di se stessi, come se ci percepissimo distaccati dal contesto, qualcosa di analogo fanno i poeti o i romanzieri quando scrivono di sé in terza persona. L'unheimlich (il perturbante), implica la presa di coscienza dell'effimero, dell'ovvio, nel quale viviamo e porta all'intuizione di quello che è inconsciamente escluso dall'ovvio, comportando un momento di confusione e di indefinizione identitaria.

Il perturbante può essere un utile segnale che porta a nuove discriminazioni. Freud (1919) (Flavia Tricomi, Estetica e Psicoanalisi, Rubettino, 2001, pg. 51), lo spiega come un "ritorno del rimosso", ossia di quello che è stato respinto nell'inconscio per evitare il conflitto interno. Si considera il razzismo una perturbazione dell'identità, un'"identità contro", che proviene da una grossolana discriminazione tra valori e qualità di solito arbitrari, apparenti e di superficie. Il razzismo mostra una difficoltà a "integrare" la propria identità e ad elaborare similitudini e differenze con l'altro o con gli altri.

Se "il perturbante" (lo strano) è un momento di perplessità tra quello che è familiare e l'inaudito e impensato (sia esso rimosso o scisso), lo straniero della xenofobia o del razzismo è una "costruzione" mentale proiettiva legata a pregiudizi, propaganda, ecc., in una ricerca onnipotente di certezza di solito condivisa con un gruppo di appartenenza. Ogni società ha una propria cultura e, contestualmente, è soggetta a una serie di pregiudizi culturali: l'etnocentrismo è infatti la tendenza a compiere ragionamenti e formulare giudizi 'come se la propria cultura e il proprio gruppo etnico fossero al centro del mondo'.  Traub Werner (1984) (Bertani M. - Ranchetti M., Psicoanalisi e antisemitismo, Einaudi, Milano, 1999, pg. 82), che ha sviluppato una teoria generale del pregiudizio dice che il contenuto di esso (pregiudizio) rappresenta la sua dimensione sociale,e le sue manifestazioni sono oggetto delle scienze sociali. La dimensione intrapsichica riguarda invece il processo della formazione del pregiudizio, che è diretto da meccanismi proiettivi, e che ha per l'IO una funzione di difesa. L'anello di congiunzione tra la dimensione sociale e quella intrapsichica è la simbolizzazione. Ciò significa che i contenuti consci del pregiudizio sono, l'espressione velata di forze e inclinazioni inconsce della psiche umana. Il fatto che le rappresentazioni inconsce del desiderio possano legarsi così facilmente a ideologie nazionali ed etniche, è reso possibile soprattutto dalle seguenti circostanze:

Molti fenomeni sociali sono connessi alle primissime fasi del processo primario dello sviluppo.

Accanto alle rappresentanze familiari sono utilizzate anche le metafore del corpo per ancorare profondamente a livello immaginativo l'idea di un' appartenenza sostanzialistica di comunità etniche o statali.


Le teorie biologiche sulla razza subirono profondi mutamenti negli anni Trenta quando, con l'affermarsi della genetica che documentò come non la specie ma il gene fosse l'unità di selezione, si poté inferire che esistevano potenzialmente tante razze quanti erano i geni. Nel 1939 Julian Huxley e Alfred Cort Haddon, nel libro Noi europei, (Edizioni di Comunità, 2002) sostennero così che i gruppi solitamente considerati razze non erano fenomeni biologici ma invenzioni politiche e che sarebbe stato più corretto denominarli 'gruppi etnici'.


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