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La seconda guerra mondiale - La rappresentazione del conflitto - L'organizzazione del Reparto Guerra




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La seconda guerra mondiale





La rappresentazione del conflitto.





1.1 L'organizzazione del Reparto Guerra.


Alla vigilia della dichiarazione di guerra, per la precisione ai primi di giugno, gli organi cinematografici del Regio Esercito, della Regia Marina, della Regia Aeronautica e dell'Istituto Nazionale Luce, erano già stati mobilitati, pronti con il loro personale operativo ad iniziare la documentazione della guerra in atto. Il tipo di struttura organizzativa rimase simile a quella del conflitto etiopico[i]. Accanto al servizio Attualità[ii], incaricato di fotografare la mobilitazione del fronte interno, l'Istituto Luce costituì anche il Reparto Guerra, del quale facevano parte numerose squadre di operatori cinematografici e fotografi, dislocate presso le diverse Forze Armate[iii].

A queste squadre appartenevano operatori dell'Istituto Luce ed operatori militari dei vari servizi cinematografici delle Forze Armate, nonché alcuni professionisti privati appositamente reclutati. I vari organi cinematografici e l'Istituto Luce erano così riuniti in un'unica organizzazione, che assommava il personale ed i mezzi tecnici di ognuno.

Per il servizio presso le unità del Regio Esercito, erano state costituite sette squadre di operatori e fotografi, più una di collegamento ed una per riprese sonore, per un totale di nove squadre dislocate presso i comandi delle varie unità combattenti, composte appunto da elementi sia dell'Istituto Luce, sia del Servizio Fotocinematografico dello Stato Maggiore del R.E., ed attrezzate con i mezzi tecnici dei due organismi. Un'altra sezione fotocinematografica dell'Istituto Luce, composta da sette operatori e quattro fotografi, era stata messa a disposizione della Regia Marina, per effettuare la documentazione della guerra sul mare. Alle dipendenze di un «Nucleo Comando e Collegamento», erano state poste quattro squadre di operatori e fotografi, composte da elementi dell'Istituto Luce e della Regia Aeronautica, e dislocate rispettivamente presso il comando della Prima, della Seconda, della Terza squadra aerea, e presso i reparti aeronautici della Sardegna. In Libia, le riprese erano affidate ad ulteriori tre squadre di operatori, che svolgevano la loro attività di documentazione fotocinematografica alle dirette dipendenze del locale Governo Generale; mentre la copertura dei territori dell'Africa Orientale Italiana, era affidata al Reparto Luce AO.

Anche in Albania, le riprese furono affidate agli operatori del Luce che normalmente erano dislocati in quel territorio. Il materiale girato dalle varie squadre di operatori era inviato dai vari fronti all'Istituto Luce, dove una volta raccolto, era sottoposto ai consulenti dell'Esercito, della Marina, dell'Aeronautica, i quali prestavano sia un'opera di consulenza tecnico-militare per la composizione ed il montaggio dei filmati, sia effettuavano un'opera di vera e propria censura.

Il materiale era quindi passato alle cineteche militari ed agli archivi fotografici di competenza; mentre il materiale giudicato programmabile in pubblico era utilizzato per produrre i cinegiornali ed i documentari che il Luce avrebbe poi distribuito per la proiezione. Tutti gli articoli, ma soprattutto tutte le fotografie di carattere militare, anche se non inviate dai corrispondenti di guerra, dovevano essere inviate al Ministero della Cultura Popolare, per essere sottoposte alla preventiva autorizzazione alla pubblicazione sulla stampa quotidiana e periodica. Identica procedura era prevista per le fotografie concernenti le visite di Mussolini in ispezione nelle zone di operazione. In un rapporto del 1941, il Minculpop ricordò «nel modo più tassativo e categorico» che tali fotografie non potevano «essere pubblicate se non con specifica autorizzazione di questo ministero[iv]».

Il ruolo del Minculpop non era soltanto di censore sul prodotto finale, ma anche di vero e proprio committente statale dell'immagine ufficiale che si voleva dare alla guerra. Infatti, già durante il periodo di non belligeranza italiano, il ministro competente aveva ripreso ad incontrare quotidianamente i giornalisti per diramare i propri rapporti[v], che concernevano sia le notizie da divulgare sulla stampa nazionale, sia le modalità di tale informazione. In tal modo, il Minculpop più volte diramò quali dovessero essere le caratteristiche che l'immagine fotografica doveva assumere, prima e durante il conflitto mondiale.

Già nel febbraio del 1940[vi], esso aveva demandato alla fotografia il ruolo di preparare psicologicamente la popolazione al conflitto che si volgeva imminente. Inizialmente, Pavolini dispose ai giornali di pubblicare «settimana per settimana fotografie di carattere militare», ed invitò l'Istituto Luce a produrre fotografie che non avessero un carattere strettamente simbolico, ma che serbassero più un carattere di attualità, alle quali si potessero apporre delle eventuali didascalie come «rivista del Reparto passata il giorno X nel tal paese» oppure «esercitazioni di carri armati nel tal posto», facendo attenzione, nel riprendere le truppe, «a non farle mai vedere di schiena».

Successivamente, però, dal marzo del 1940, il Minculpop pose l'accento sulla simbolizzazione della potenza militare italiana che la fotografia doveva perseguire. Le fotografie, innanzitutto, dovevano riguardare ed esaltare più i mezzi che gli uomini, giacché il fine supremo era di «mostrare al popolo italiano che esso è bene e sempre meglio armato».

A tal scopo, più che mostrare i reparti, la cui conoscenza era a disposizione di tutti, era importante dimostrare e documentare l'esistenza di buoni cannoni, di mitragliatrici ed altri armamenti. Le fotografie dei reparti dovevano riguardare masse imponenti, a dimostrare «questa nostra razza armata nella sua espressione di fierezza, baldanza e gioventù[vii]».

Il Minculpop, quasi un mese dopo, invitava la stampa periodica ad astenersi dal pubblicare tutte le fotografie militari in cui i reparti fossero stati presi alle spalle, quelle in cui le truppe non avessero un atteggiamento marziale ed un allineamento impeccabile, od ancora le immagini di «present'arm» in cui i fucili non fossero stati ripresi in perfetto allineamento. Esso ricordava, inoltre, che nella selezione delle fotografie da pubblicare, dovevano essere «preferite fotografie di materiali a quelle di truppe, salvo in occasione di importanti cerimonie militari», o quando le medesime truppe erano «impiegate per la messa in opera del materiale[viii]

Il Minculpop, infine, delineando nel gennaio del 1941 quale dovesse essere la natura ed il carattere della stampa in tempo di guerra, fra i tanti temi ordinava ai giornali di non pubblicare «fotografie di donne nude o seminude», perché tali fotografie avrebbero potuto attirare le attenzioni degli adolescenti, i quali potevano da esse «trarre motivo per le solite e note masturbazioni», arrivando poi ai «Reggimenti sfibrati e tutto ciò, specialmente in tempo di guerra, non giova alla razza[ix]».

Dieci giorni dopo l'ingresso dell'Italia nella guerra, sempre il Minculpop ribadì il monopolio dell'Istituto Luce quale immagine ufficiale nel campo dell'informazione fotografica, inviando a tutti i giornali la seguente disposizione: «Da domani o dopo la Luce diramerà quotidianamente un largo materiale fotografico sulla nostra guerra. Si prega di pubblicarlo, tanto più che in questo momento le notizie sono molto scarse e per ragioni di riserbo lo saranno per qualche giorno[x]».

L'Istituto Luce cercò spesso, attraverso le sue fotografie, di estetizzare la guerra per meglio celebrare le truppe e gli armamenti italiani. Gli operatori fotografavano proiettili e cannoni ammassati nei depositi, od il susseguirsi di ostacoli anticarro lungo le linee fortificate, cercando di sfruttare le geometrie degli allineamenti e costruire un'impressione di imponenza e di ordine. I soldati erano spesso ripresi frontalmente, in ritratti e posizioni che enfatizzassero il loro aspetto fiero, molto spesso a torso nudo, risaltandone così un'immagine virile e combattente[xi]. I ritratti costruivano una sorta di tipologia visiva dell'esercito italiano, avendo gli operatori fotografici ripreso, appunto, l'intero organico delle truppe, dal genio militare all'artigliere, dal corazziere al telegrafista.

Tale estetica della guerra, oltre a voler celebrare la presunta superiorità militare italiana, si ricollegava alle precedenti forme di rappresentazione iconografiche, che avevano il fine di scongiurare l'idea della morte e del dolore. La guerra non era mai fotografata nel suo pieno svolgimento, ma era ricostruita, come nelle immagini dei bombardamenti navali o aerei, o delle batterie antiaeree e dei carri armati in azione, che solitamente erano riprese durante le esercitazioni. Una pattuglia di aerei in volo, fotografata durante un'esercitazione, era indicata nella didascalia come un'azione di bombardamento o come un momento del conflitto. Lo stesso valeva per le battaglie navali, il più delle volte ricostruite nel mar Ionio. Il conflitto, altre volte, era fatto percepire attraverso una simbologia che riprendeva il dopo degli avvenimenti, come nel caso delle immagini raffiguranti fucili od automezzi abbandonati nel deserto dell'Africa Orientale, la cui appartenenza agli avversari era specificata nelle didascalie.

La tranquillità del fronte era rappresentata, come nella Prima Guerra Mondiale, dalle fotografie che ritraevano i soldati nella vita del campo, a mangiare dalle proprie gavette, intenti a leggere la posta in arrivo, o a scrivere le lettere per i propri familiari. I soldati non erano mai ripresi in situazioni drammatiche, ma in momenti di svago o che comunque facevano risaltare la loro tranquillità, come nelle fotografie che ritraevano un gruppo di ascari a giocare a pallone, od alcuni soldati italiani impegnati in partite di pallavolo. I soldati della marina erano ripresi, invece, a scalare a torso nudo le funi e le vele delle navi, con i muscoli stagliati contro il cielo, in un simbolismo di continua virilità.

La fotografia non doveva, inoltre, documentare la morte nella sua oggettiva atrocità, nel suo dolore, ma doveva celebrare appunto la gloria che tale morte apportava al soldato. A tal fine, durante la Seconda Guerra Mondiale, il Corriere della Sera iniziò a pubblicare nelle sue pagine i ritratti dei soldati morti, inizialmente in maniera saltuaria, ma poi con un tale frequenza da istituire una vera e propria rubrica intitolata «I gloriosi caduti», che continuò ininterrottamente dal febbraio del 1941 all'agosto del 1943[xii].

La rubrica era costituita da uno o più ritratti fotografici[xiii], solitamente dello spazio di mezza colonna, attorno ai quali erano apposte delle didascalie, per tracciare un breve profilo biografico. I ritratti erano quasi sempre a mezzo busto, la cui inquadratura vedeva le spalle riprese a tre quarti, mentre il viso era leggermente voltato, sempre ripreso frontalmente rispetto all'obiettivo. Nelle fotografie, come ha notato Messina, la morte perdeva tutta la sua drammaticità, per rappresentare il momento supremo in cui un'esistenza, fino ad allora anonima e mediocre, e grazie al sacrificio apportato durante la guerra, assurgeva a divenire simbolo di eroismo.

Il Minculpop, attraverso una sua consueta disposizione, indicando come dovesse essere pubblicato l'elenco dei caduti sui giornali, accordava la possibilità di «aggiungere fotografie dei cimiteri di guerra[xiv]». Il cimitero militare rappresentava un luogo di sonno eterno, in cui la morte, appunto, era simbolizzata nella pace che il soldato trovava, libero dal dolore[xv]. Il cimitero, dunque, sacralizzava la morte del soldato, onorandola come un sacrificio necessario per la rigenerazione e la salvezza della propria nazione. Inoltre, le fotografie dei cimiteri contribuivano a rafforzare il momento istituzionale della commemorazione ufficiale del caduto, legando ancor di più la sua morte alla patria per cui era avvenuta, e rappresentandola come un momento della vita collettiva e della storia nazionale.

Se dunque la morte degli italiani era celata nelle fotografie dell'Istituto Luce, essendo essa stata raramente ripresa, ed il più delle volte simbolizzata, uguale attenzione era dedicata alla rappresentazione dei soldati feriti.

Anche nelle fotografie dei feriti si doveva negare la drammaticità ed il dolore, per cercare di spostare le attenzioni sul momento del riconoscimento ufficiale del regime al soldato. In tale contesto vanno lette le varie fotografie che riprendevano Mussolini durante le visite negli ospedali. Il soldato ferito doveva essere sempre ritratto steso nel suo letto nella più piena tranquillità, mentre Mussolini era ripreso a donare carezze od annotare su di un blocchetto le varie richieste che i feriti gli porgevano. In tal modo, si cercava di coronare le attenzioni ed il riconoscimento che Mussolini, ed il regime fascista, riservava a chi combatteva per la propria patria.

Lo stesso Minculpop, negli anni successivi, intimando di prestare attenzione agli effetti psicologici che potevano derivare dalla pubblicazione sulla stampa di determinate fotografie, avvertì come «le fotografie di feriti trasportati in barella» non giovassero «al morale di famiglie che hanno combattenti al fronte[xvi]».

Le fotografie del Reparto Guerra dell'Istituto Luce, sicuramente, non si distaccarono molto dalla precedente tradizione iconografica della rappresentazione della guerra. Tuttavia, la polisemia insita nella fotografia si ampliò notevolmente, essendo ogni immagine caricata di diversi contenuti e significati politici, a seconda di chi ne usufruisse. Tale processo di politicizzazione non avveniva sempre per opera dell'Istituto Luce, ma tramite un successivo intervento della propaganda, o del giornale che pubblicava la fotografia, accompagnandola con didascalie che, a volte, stravolgevano il vero senso dell'immagine. In tal caso, la fotografia era utilizzata come la testimonianza visiva e tangibile del messaggio che le era stato apposto.

Poteva anche accadere, così, che una stessa fotografia fosse utilizzata in maniera diversa dalle varie parti in conflitto, o dalle rispettive propagande, rendendola appunto portatrice e testimone di significati, a volte, totalmente inesistenti nelle intenzionalità del singolo fotografo.

La fotografia, dunque, deteneva importanti e molteplici funzioni nella rappresentazione della guerra. Innanzitutto, essa doveva tranquillizzare il fronte interno, cercando di mantenere sempre più saldo lo spirito nazionale, stringendo ed ampliando il sostegno ed il consenso del paese alla politica del regime fascista. Essa deteneva un ulteriore ruolo nella più ampia opera di demonizzazione e demoralizzazione del nemico.

Ancora il Minculpop, durante la guerra, avvisò diversi giornalisti che, «nel documentare più o meno ironicamente quel che si riferisce al nemico», bisognava prestare un'accurata attenzione nella pubblicazione delle fotografie, le quali non dovevano presentare il nemico «in una forma eroica», e comunque, dovevano «dare un'idea del nemico non edificante[xvii]».

Infine, e forse questa fu una novità politica rispetto alle precedenti guerre, le fotografie, per certi versi, dovevano anche rasserenare e convincere l'alleato tedesco della potenza militare dell'Italia. Quest'ultimo significato, tuttavia, fu ben presto smentito nel corso delle prime battaglie, quando l'Italia dimostrò inesorabilmente tutta la propria debolezza militare, per divenire sempre più dipendente e succube dall'esercito della Germania. A tal punto, la fotografia fu spesso utilizzata per nascondere agli italiani tale realtà di subordinazione militare, e cercare semmai di attestare la comunanza d'intenti e la piena fratellanza fra l'esercito italiano e quello tedesco.

Ma la polisemia della fotografia testimoniò anche l'effettiva realtà della guerra, nonostante le frasi della propaganda che tendevano a negarla. Ed in molte fotografie dell'Istituto Luce, infatti, i soldati italiani, che le didascalie indicavano come valorosi combattenti ripresi nell'avanzare verso gloriose conquiste, avevano gli stessi visi stanchi e le stesse uniformi dimesse di quei soldati inglesi, che invece venivano indicati come sconfitti prigionieri.




Note


Cap. 1 La rappresentazione del conflitto.


[i] Vedi il saggio La fotografia strumento dell'imperialismo fascista, pubblicato all'indirizzo https://www.romacivica.net/anpiroma/fascismo/fascismo17e.htm

[ii] D'ora in poi, per distinguere la differente origine fotografica e semplificare la conseguente diversa provenienza archivistica, intenderò con il termine Luce i fotografi adibiti ad effettuare il servizio attualità, e le immagini conservate tutt'ora in tale fondo nell'archivio dell'Istituto; mentre con il termine Reparto Guerra specificherò i servizi fotografici effettuati dalle squadre operative sui vari fronti od ancora oggi appartenenti all'archivio del reparto medesimo.

[iii] Vedi Cerchio Fernando, Servizio di guerra, in Cinema. Organo della Federazione nazionale fascista dello spettacolo, 10 luglio1940, n.97, pag.12-13.

[iv] La disposizione è conservata in ACS, MCP, Gabinetto, b.51, f. Rapporto ai giornalisti del 2 febbraio 1941, sf.92.

[v] I rapporti ai giornalisti del ministro del Minculpop, dal settembre 1939 al luglio 1943, sono conservati in ACS, MCP, Gabinetto, nelle buste 49,50 e 51.

[vi] Vedi il Rapporto di Pavolini del 1 febbraio 1940, conservato in ACS, MCP, Gabinetto, b.49, f. 313.5 Rapporto ai giornalisti 1-2-1940.

[vii] Disposizione del 9 marzo 1940 riportata in Mignemi A., L'Italia s'è desta, pag.67 e in Matteini C., Ordini alla stampa, pag.81.

[viii] Disposizione del 5 aprile 1940 riportata in Mignemi A., L'Italia s'è desta, pag.67; in Matteini C., Ordini alla stampa, pag.84 ed in Coen F., Tre anni di bugie, pag.58.

[ix] Vedi il rapporto ai giornalisti del 30 gennaio 1941, conservato in ACS, MCP, b.50, f. 314.2 Rapporto del 30-1-1941.

[x] Disposizione del 20 giugno 1940 riportata in Mignemi A., L'Italia s'è desta, pag.68 ed in Matteini C., Ordini alla stampa, pag.258.

[xi] Il fondo Attualità dell'archivio fotografico Luce, per quanto concerne la raccolta della produzione dei primi mesi della guerra, contiene essenzialmente tali ritratti delle truppe italiane, intervallati soltanto da alcune fotografie che ritraggono le marionette dell'opera dei pupi del teatrino di Antonino Insanguine.

[xii] Anche se la rubrica procedette ininterrottamente dal febbraio 1941 all'agosto 1943, tuttavia ciò avvenne con una consistenza numerica di fotografie alquanto difforme. La maggior presenza di fotografie si ebbe nel 1941, con un totale di circa trecento ritratti pubblicati, alla media di cinquanta al mese tra marzo e giugno. A partire dall'agosto del 1941, invece, la loro consistenza numerica iniziò a ridursi consistentemente, oscillando mediamente intorno alle 15 presenze mensili. Vedi Messina R., La fotografia di cronaca a Milano (1940-1943), pag.191-192.

[xiii] Nell'Archivio Fotografico dell'Istituto Luce, fondo Reparto Guerra, sono ancora conservate le riproduzioni dei Ritratti dei valorosi citati nei bollettini solitamente diffusi dall'esercito.

[xiv] Disposizione dell'8 luglio 1940 riportata in Matteini C., Ordini alla stampa, pag.111 e Mignemi A., L'Italia s'è desta, pag.68.

[xv] Per un studio approfondito sull'evoluzione e la simbolizzazione dei cimiteri militari, vedi Mosse G.L., Le guerre mondiali, pag.90-104.

[xvi] Disposizione del 12 febbraio 1943 riportata in Matteini C., Ordini alla stampa, pag.216 e Mignemi A., L'Italia s'è desta, pag.73.

[xvii] Vedi il rapporto ai giornalisti del 12 agosto 1941, conservato in ACS, MCP, Gabinetto, b.50, f. 314.3 Rapporto del 12-8-1941.

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