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La "Questione Romana"




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La "Questione Romana"


Tra il e il il governo Ricasoli dovette affron­tare anche lo spinoso problema di una eventuale an­nessione del Lazio e di Roma, laddove il pontefice Pio IX si era sem­pre più irrigidito in una posizione di totale intransigenza.

Per il suo temperamento severo, per la sua profonda religiosità, il conte Ricasoli, detto il «barone dì ferro», era forse il politico meno adatto ad ammorbidire la presa di posizione del pontefice. Osteg­giato dal re Vittorio Emanuele II che mal tollerava la sua rigidezza, sospetto ai cattolici per le sue idee religiose e inviso alla Destra li­berale per la sua tolleranza verso la Sinistra repubblicana, Rica­soli nel marzo del si dimetteva, e gli succedeva Rattazzi, ben visto dal sovrano per la sua maggiore malleabilità


Il nuovo primo ministro intendeva riprendere la po­litica di Cavour, che tanto abilmente aveva saputo sfruttare l'iniziativa del Partito d'azione senza mai compromettere direttamente il governo piemontese.

Questo suo atteggiamento in­coraggiò Garibaldi che, convinto di avere anche l'appoggio del so­vrano, nell'estate del si recò in Sicilia, dove godeva di una lar­ghissima popolarità e dove, sotto l'occhio benevolo dei funzionari governativi, si diede a raccogliere volontari per guidarli a conqui­stare i territori rimasti al pontefice.


Nell'agosto i volontari garibaldini superavano lo Stretto, mentre Vittorio Emanuele sconfessava ufficialmente il tentativo, nella spe­ranza di rassicurare Napoleone; questi peraltro protestò con estrema energia, costringendo così il governo Rattazzi a prendere le misure necessarie per fermare Garibaldi. Il 29 agosto le truppe regolari si scontrarono pertanto sull'Aspromonte con i garibal­dini, che per ordine del generale non risposero al fuoco. Lo stesso Garibaldi fu però malamente ferito, alcuni volontari rimasero uc­cisi e dei soldati regolari, che erano passati dalla parte di Gari­baldi, vennero processati e fucilati. Lo scandalo fu enorme e l'opinione pubblica rimase sconcertata per l'arresto dell'eroe che, rinchiuso nel carcere di Varignano, venne liberato nell'ottobre grazie a un'amnistia opportunamente concessa dal re. Rattazzi dovette dimettersi, perché Vittorio Emanuele, che pure aveva una pesante responsabilità nei fatti del­l'Aspromonte, scaricò su di lui ogni colpa.


A Rattazzi successe Farini, al quale poco dopo veniva affiancato e quindi sostituito il Minghetti, che stipulò nel '64 un accordo con la Francia per re­golare la questione di Roma. Fu questa la Convenzione di settem­bre (del 1864), con la quale, mentre il governo francese si impe­gnava a ritirare le proprie truppe da Roma, il governo italiano a sua volta si faceva garante dell'integrità del territorio pontificio. Un articolo segreto della Convenzione stabiliva inoltre che il go­verno italiano, entro breve tempo, avrebbe trasferito la capitale da Torino a Firenze. Quest'ultima clausola era stata firmata dai contraenti con intendimenti diversi: Napoleone voleva dimostrare all'opinione pubblica francese che gli Italiani avevano ormai ri­nunciato all'idea di Roma capitale, mentre il Minghetti pensava di compiere una prima tappa verso Roma e in definitiva sperava che, allontanatesi le truppe francesi da Roma, il pontefice per prevenire rivolte democratiche mazziniane sarebbe stato costretto a chiedere l'aiuto dello stesso governo italiano, sbloccando così la situazione e permettendo di avviare a soluzione il problema di Roma capitale d'Italia.

Quando 1' accordo per il trasferimento della capitale a Firenze fu reso noto, a Torino, dove fra l'altro il valore degli immobili subì un crollo, scoppiarono gravi incidenti che in due giorni provocarono una ventina di morti e centinaia di feriti. Minghetti venne allora bruscamente sosti­tuito dal sovrano con il generale Lamarmora, che nel provvide a far trasferire la capitale a Firenze.


Dopo le esperienze del d'altra parte, Pio IX si era irrigidito in una opposizione intransigente non solo nei confronti del processo di unificazione della penisola sotto la guida del Piemonte, ma anche nei confronti della cultura del tempo, che andava delineando nuove prospettive politiche, so­ciali e scientifiche, incompatibili o almeno difficilmente conci­liabili con la fede. Pertanto - in un clima di sempre più aspro contrasto tra cattolicesimo da una parte e liberalismo, socialismo e positivismo dall'altra - nel il pontefice, nell'enciclica Quanta cura, prendeva nettamente posizione contro la libertà di stampa, contro il principio democratico e liberale della sovranità popolare e, insomma, contro le tendenze più significative della cul­tura laica. Assieme all'enciclica veniva pubblicato il Sillabo o «catalogo dei principali errori del nostro tempo», che raccoglieva una serie di proposizioni (già condannate in allocuzioni e lettere apostoliche precedenti) che Pio IX riportava all'attenzione dei cattolici per confermarne l'in­condizionata condanna.

Il Sillabo ribadiva così il rifiuto della libertà di coscienza, della li­bertà di ricerca filosofica e scientifica, del socialismo, del liberali­smo e dello stesso cattolicesimo liberale, e respingeva in definitiva tutte quelle manifestazioni del pensiero moderno che sembravano incompatibili col magistero e l'autorità della Chiesa. Nel 1869-70 il Concilio Vaticano I proclamava poi il dogma dell'infallibilità del papa per quanto riguardava le affermazioni in materia di fede e di costumi, da lui pronunciate ex cathedra, ossia nella sua qualità di sommo pastore e maestro della Chiesa.

Questa drastica presa di posizione, gettata nel cuore di un'epoca in cui le concezioni liberali

era e socialiste, la libertà di opinione e di stampa e la libera circolazione delle idee stavano ormai vincendo anche le più ostinate resistenze politi­che, apparve come una condanna di ogni compromesso tra la Chiesa e il mondo moderno, e per reazione provocò in tutta Eu­pa una violenta ondata anticlericale.

Perfino Napoleone III e Vittorio Emanuele II vietarono la pubblicazione del Sillabo nei loro rispettivi paesi.


Dopo il '66 an­che  la confisca dei beni ecclesiastici aveva ulteriormente guastato i rapporti tra il governo e lo Stato Pontificio.

Di questo stato di cose approfittò il Partito d'azione che, incoraggiato tacitamente da Rattazzi tornato al po­tere nell'aprile del '67, si organizzò per agire contro lo Stato Ponti­ficio e annettere Roma all'Italia, nonostante il parere di un'esigua minoranza di politici che, come il d'Azeglio, rifiutavano la retorica esaltazione di Roma e preferivano accettare lealmente la Conven­zione di settembre, stipulata col governo francese nel '64.

Nel settembre del '67 Garibaldi, con la connivenza di Rattazzi, cominciò a raccogliere volontari nella Toscana meridionale, non lontano dal confine pontificio, provocando le proteste di Napo­leone, che costrinsero il Rattazzi a far arrestare Garibaldi e a confi­narlo a Caprera. Ancora una volta, come nel '62 per l'episodio di Aspromonte, Rattazzi non aveva dunque saputo preparare l'ope­razione sul piano diplomatico, e in particolare non si era assicu­rato l'appoggio di Bismarck, che pure avrebbe visto di buon oc­chio una vittoria in Italia dell'anticlericalismo a scorno della Fran­cia e dell'Austria.



In ottobre Garibaldi, fuggito da Caprera, penetrava con i suoi volontari nei territori pontifici, mentre una piccola colonna, guidata da Enrico e Giovanni Cairoli, puntava su Roma per appoggiare una ventilata sollevazione popolare. Le forze pontificie intercettarono però la colonna Cairoli alle porte di Roma, a Villa Glori, dove quasi tutti i volontari garibaldini caddero, combattendo fino all'ultimo (23 ottobre 1867).

Mentre Rattazzi dava le dimissioni, Garibaldi si inoltrava in territorio pontificio, batteva le truppe papali a Monterotondo il 25 ottobre e puntava su Roma; ma il 3 novembre, sconfitti ancora i papalini a Mentana, Garibaldi si trovò di fronte un corpo armato francese (inviato di tutta fretta da Napoleone e armato di fucili a retrocarica e a canna rigata) che per la sua superiorità tecnica ebbe facilmente ragione dei garibaldini e li costrinse a ripiegare in Toscana, dove Garibaldi fu ancora una volta arrestato.

L'episodio di Mentana costituiva un grave scacco sia per il Par­tito d'azione, sia per il governo italiano; i Francesi erano nuova­mente a Roma e il ministro francese della guerra, Rouher, affermava nel Parlamento di Parigi che «mai e poi mai» gli Italiani sa­rebbero entrati in Roma.


Falliti i tentativi del Partito d'azione di annettere Roma al Regno d'Italia con un colpo di mano, l'occasione favorevole per raggiungere questo obbiettivo si presentò nel 1870, quando scoppiò la guerra tra la Francia e la Prussia, che privò il papa dalla protezione di Napoleone III. In realtà, però, Vittorio Emanuele e i circoli monarchici più accesi, almeno in un primo tempo, si dimostrarono propensi a far interve­nire l'Italia al fianco di Napoleone III, che pure era oggetto di un diffuso risentimento; ma il governo Lanza fece poi prevalere il par­tito della neutralità e anzi approfittò della circostanza per affron­tare a fondo il problema di Roma, che fra l'altro era stata sgom­brata dalle truppe francesi di presidio, richiamate in patria a com­battere contro i Prussiani.

Dopo la battaglia di Sedan e la caduta del Secondo Impero, il governo italiano, considerandosi libero dagli impegni assunti verso Napoleone III, tentò dunque sia di venire a patti col pontefice, sia di suscitare una solle­vazione popolare in Roma per trarne pretesto per un intervento. Entrambi i tentativi fallirono, ma Vittorio Emanuele II indirizzò ugualmente un messaggio al papa dicendosi costretto a intervenire «per la sicurezza di Sua Santità e per il mantenimento dell'ordine» (che in realtà non era affatto turbato).

Pochi giorni più tardi, il 20 settembre 1870, le truppe italiane, dopo aver bombardato e sbrecciato le mura di Porta Pia, infransero la breve resistenza dei reparti pontifici e penetrarono in Roma: il combattimento provocò peral­tro complessivamente circa settanta morti e permise al papa di denunciare con maggiore evidenza, di fronte all'opinione pubblica mondiale, l'aggressione subìta. L'annessione dei territori pontifici fu quindi ratificata il 2 ottobre da un plebiscito, e l'anno dopo la capitale del Regno fu definitivamente trasferita da Firenze a Roma (luglio 1871).


Risolto il problema territoriale, bisognava però af­frontare l'assai più complessa questione dei rapporti fra lo stato italiano e il pontefice: il papa, infatti, non poteva essere ridotto alla condizione di semplice cittadino del Regno d'Italia, che gli avrebbe impedito di svolgere liberamente la sua missione religiosa universale.

Il 13 maggio del 1871, pertanto, il Parlamento italiano approvò una legge, legge delle guarentigie - così detta appunto per le garanzie ch'essa assicurava alla Chiesa - che, ispirandosi al principio cavouriano della separazione fra Chiesa e Stato:


assicurava al papa la più am­pia libertà d'azione e di comunicazione con tutto il mondo catto­lico

gli riconosceva dignità e prerogative sovrane, attribuiva il di­ritto di extraterritorialità

ai palazzi del Vaticano, del Laterano e alla villa di Castelgandolfo

garantiva al clero italiano piena indi­pendenza nell'esercizio delle funzioni spirituali

stabiliva una dota­zione annua a favore delle casse vaticane, pari a quella precedentemente versata dall'erario pontificio per il mantenimento della corte papale.


La legge fu peraltro approvata e applicata per decisione unilaterale degli or­gani statali italiani, perché Pio IX non l'accettò e si rifiutò di rice­vere come concessione le prerogative ch'egli rivendicava di diritto come sovrano dello Stato Pontificio.

Egli negò pertanto il proprio riconoscimento al Regno d'Italia, ne scomunicò i sovrani e i gover­nanti, dichiarò «di fronte a Dio e a tutto il mondo cattolico di es­sere caduto in tale prigionia da non poter affatto esercitare libera­mente la sua suprema autorità pastorale».


Nel 1874, anzi, la Santa Sede condannò come «inopportuna» (non expedit) la partecipa­zione dei cattolici alle elezioni politiche e amministrative del Re­gno d'Italia; e questa condanna ebbe conseguenze assai gravi per lo stato, perché ne restrinse ulteriormente la base sociale, già molto limitata.


Il dissidio fra Stato e Chiesa si andò peraltro pro­gressivamente attenuando: col tempo infatti la Chiesa dovette constatare che la perdita del potere temporale non comprometteva affatto l'indipendenza del papa, anzi la rendeva anche più completa perché liberava i pontefici da preoccupazioni politiche estranee alla loro missione spirituale. Nel primo Nove­cento maturarono pertanto le condizioni per un graduale supera­mento del contrasto apertosi nel 1870.






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