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La prima guerra mondiale - Le cause e il contesto, L'attentato di Sarajevo e l'inizio della guerra, «Guerra totale», II secondo anno di guerra (1915), Neutralismo e interventismo in Italia, II terzo anno di guerra (1916)




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La prima guerra mondiale






Le cause e il contesto



La prima guerra mondiale, nata occasionalmente dalla tensione austro-serba, fu in realtà l'esito tragico di una serie di con­trasti di ben più ampia portata. Si può fare già riferimento al sistema bismarckiano, già studiato nelle precedenti lezioni, per capire il sistema di alleanze e i contrasti tra le potenze europee sul finire dell'Ottocento e gli inizi del Novecento.


In primo luogo va analizzato il contrasto anglo-te­desco, alimentato dal progresso dell'industria ger­manica che, nel campo della metallurgia, della mec­canica e della chimica, minacciava o superava il primato inglese fi­no allora indiscusso. Il volume complessivo delle esportazioni in­dustriali britanniche, fortissimo nel settore dei tessili, teneva anco­ra la testa, ma le distanze si accorciavano rapidamente, e nel primo decennio del secolo, mentre le esportazioni tedesche crescevano del 93,2%, quelle inglesi aumentavano solo del 62,3%. L'Inghilter­ra, d'altra parte, era fortemente interessata a conservare in Europa una situazione di equilibrio che le permettesse di continuare quella politica della «mano libera» grazie alla quale essa poteva far fronte ai suoi impegni di potenza mondiale; e la preponderanza germani­ca sul continente violava tale equilibrio. Infine, il programma tede­sco della «grande flotta», aveva costretto l'Inghilterra ad affrontare spese quasi insostenibili per conservare l'egemonia marittima.


Ricordiamo, in secondo luogo, il contrasto fran­co-tedesco a proposito dell'Alsazia e della Lorena, strappate dalla Germania alla Francia nella guerra del 1870-71. L'offesa aveva esasperato il nazionalismo francese e aveva alimentato la volontà di rivincita sulla quale facevano leva le correnti dello sciovinismo reazionario. Questo, d'altra parte, era so­lo la manifestazione politica distorta di un problema reale, in quan­to la Francia si trovava effettivamente impegnata a fronteggiare la preponderanza demografica, industriale e militare della Germania.


In terzo luogo, occorre tener presenti la concorren­za austro-russa nei Balcani, gli interessi dei Russi al controllo dei Dardanelli, per i quali passava gran parte del loro commercio estero, la forte aspirazione dei popoli balcanici a conse­guire la piena indipendenza, ostacolata dai fitti rapporti economici e militari stabiliti dagli Imperi Centrali con la Turchia.


A un'espansione economica e politica sulla sponda adriatica della penisola balcanica aspirava d'altra parte anche l'Italia, che mirava inoltre a togliere all'Austria il Trentino e la Venezia Giulia per portare a termine il processo di unificazione nazionale.


Queste gravi ragioni materiali di contrasto, peraltro, non sarebbe­ro forse approdate a una guerra, senza il supporto delle ideologie nazionalistiche e irrazionalistiche, cui abbiamo più volte accennato. Tali ideologie, pur nella loro varietà, avevano in co­mune l'esaltazione della guerra e della violenza, servivano efficacemente a organizzare il consenso negli ambienti di mezza cultura della piccola borghesia, e rivestiva­no di colori affascinanti i concreti interessi imperialistici delle grandi concentrazioni capitalistiche; tanto più che la guerra era anche un ottimo strumento per dirottare sui nemici esterni le ten­sioni e i conflitti sociali che dividevano le singole compagini na­zionali. «La guerra, il sangue, le stragi, le durezze, le crudeltà non erano più oggetto di deprecazione e di ripugnanza e di obbrobrio, ma, come cose necessarie ai fini da conseguire, si facevano accette­voli e desiderabili, e si rivestivano di una certa attrazione poetica.


Va anche ricordato che nell'Im­pero germanico gli ambienti militari godevano di un altissimo prestigio e, convinti che la guerra fosse inevitabile, ritene­vano necessario scatenarla al più presto, dato che (come dichiarò Moltke, capo di stato maggiore tedesco, nel maggio del 1914 in un incontro col suo collega austriaco Conrad von Hötzendorf) «ogni at­tesa significava diminuire le loro possibilità».

La Germania, infine, malgrado gli ottimi risultati raggiunti anche nell'agricoltura, data la densità del­la popolazione in continua crescita doveva ricorrere a massicce im­portazioni di derrate alimentari che, per quanto largamente com­pensate dalle esportazioni industriali, creavano una sorta di dipen­denza dall'estero, poiché la Germania non disponeva, come l'In­ghilterra, di un impero coloniale capace di supplire alle sue caren­ze.

Da questa «contraddizione» traevano spunto ideologie estrema­mente pericolose: la Germania, per la sua superiorità culturale e tecnica, avrebbe dovuto guidare una confederazione europea e assegnare a ciascun popolo i compiti più idonei per il raggiungi­mento del bene comune; ossia, in parole povere, avrebbe dovuto ri­durre 1'intera Europa alla condizione di colonia.

E naturalmente questi deliri del «germanesimo» ne suscitavano per reazione altri analoghi presso gli sciovinisti di tutti i paesi.





L'attentato di Sarajevo e l'inizio della guerra



Nelle condizioni descritte, l'innesco alla guerra partì dalla penisola balcanica.


II 28 giugno del 1914, l'arciduca Francesco Ferdinan­do, erede presunto dell'Impero austro-ungarico, durante una visita a Sarajevo (Bosnia) fu ucciso con la moglie da due nazionalisti serbi.


Poiché l'arciduca era uno dei più convinti assertori del «tria­lismo», cioè dell'estensione anche agli Slavi del regime di parità già concesso agli Ungheresi nel 1867, il signifìcato politico dell'attenta­to era chiarissimo: il trialismo mirava infatti ad inserire definitiva­mente gli Slavi delle regioni dipendenti da Vienna nell'ambito del­l'impero, mentre le più profonde aspirazioni degli Slavi sì rivolge­vano non alla conquista della parità, ma all'indipendenza e all'u­nione con la Serbia.

La notizia dell'attentato fu accolta in Serbia con entusiasmo; e lo stesso governo serbo era almeno indirettamente responsabile del­l'atto terroristico, in quanto, pur avendone avuto sentore, non ave­va preso alcuna misura per prevenirlo. Da parte sua l'Austria, data la composizione plurinazionale dell'Impero, era fortemente interes­sata a stroncare sul nascere ogni manifestazione indipendentistica delle minoranze allogene e temeva particolarmente l'attrazione esercitata dalla Serbia sui nazionalisti slavi.

Per umiliare la Serbia essa le inviò pertanto un ultimatum (23 luglio) col quale praticamente le impose di farsi complice degli Asburgo nell'opera di repressione e di pre­venzione contro gli Slavi ribelli, e, all'ovvio rifiuto della Serbia, passò senz'altro alla dichiarazione di guerra (28 luglio), trascuran­do il chiaro avvertimento della Russia che aveva a sua volta ordina­to la mobilitazione parziale.

La Russia ordina allora la mobilitazione generale (30 luglio) che, per gli accordi della Duplice Alleanza, implica la contemporanea mobilitazione anche dell'esercito francese.

La Germania risponde immediatamente con la dichiarazione di guerra alla Russia (31 lu­glio) e alla Francia (2 agosto).

Il sistema di alleanze cominciava a far sentire i suoi effetti.


Lo stato maggiore tedesco ritiene che solo un suc­cesso in Occidente possa portare a una conclusione rapida e vittoriosa della guerra: perciò, secondo piani da lungo tempo prestabiliti, tenta di liquidare la Francia ancor prima che la Russia, più lenta nella mobilitazione, possa efficacemente interve­nire.

Pertanto i Tedeschi, rimanendo sulla difensiva sul confine franco-germanico, ben munito di fortezze e di truppe, attaccano di sorpresa al nord, violando la neutralità del Belgio e garantendosi un clamoroso successo iniziale

Ma i risultati positivi, colti sul terreno militare, sono pagati con la squalifica morale della Germania pres­so l'opinione pubblica europea; e l'invasione del Belgio induce l'In­ghilterra a rompere gli indugi e ad intervenire immediatamente a fianco della Francia (4 agosto).

La Gran Bretagna possiede inizialmente solo un esercito profes­sionale di 120 000 uomini, ma mette a disposizione dell'Intesa le risorse inesauribili del suo impero mondiale e le assicura la pre­valenza sui mari. La superiorità militare degli Imperi Centrali ri­mane per ora schiacciante, ma le possibilità economiche, produtti­ve e demografiche dell'Intesa sono destinate a una progressiva mo­bilitazione, che alla distanza risulterà decisiva.


Intanto, però, la sorpresa e la perfetta efficienza per­mettono all'esercito tedesco di penetrare profonda­mente nel territorio nemico, e privano la Francia delle regioni nord-orientali densamente industrializzate, donde essa ricavava gran parte del suo carbone e quasi tutti i minerali ferrosi: la stessa Parigi è in pericolo, tanto che, mentre le armate francesi, comanda­te dal generale Joffre, si attestano sulla Marna, il governo ritiene necessario trasferirsi a Bordeaux.

Tuttavia, la guerra lampo, o guerra di movimento,  iniziale sta per cedere il posto alla guerra di trincea (non meno sanguinosa): il successo tede­sco è ben inferiore alle speranze e alle previsioni di liquidare la Francia in sei settimane, dalla Marna, infatti, i Francesi contrat­taccano (5-12 settembre), e i Tedeschi sono a loro volta costretti a retrocedere sull'Aisne.

La battaglia della Marna ha un'importante funzione psicologica sui francesi, grazie alla pur parziale vittoria riportata.


A questo risultato contribuiscono le contemporanee vicende del fronte orientale: due corpi d'armata, in­fatti, hanno dovuto essere distolti dall'offensiva contro la Francia per tamponare l'irruzione che le truppe russe hanno iniziata sin dall'agosto nella Prussia orientale. L'offensiva viene respinta, ma i Russi sono riusciti a sfondare più a sud, nel­la Galizia, e minacciano da vicino il territorio ungherese dell'Impe­ro asburgico.


Sul fronte occidentale, alla battaglia della Marna se­gue la «corsa al mare» per il controllo delle coste della Manica, e gli Anglo-francesi riescono a conservare i porti di Calais e di Dunkerque, preziosi per i reciproci collegamenti. Al termine della campagna il fronte si stabilizza su una linea esten­dentesi da nord-ovest a sud-est, che fino al marzo 1918 non subirà più escursioni maggiori di 15 km.


La guerra di movimento, sulla quale puntava lo stato maggiore tedesco, si è dunque trasformata in guerra di posizione e di trincea, con grande vantaggio per gli Alleati, che potranno ormai disporre del tempo necessario per la mobilitazione delle proprie risorse.


Gli Alleati possono segnare al loro attivo anche l'intervento del Giappone che, schieratosi al loro fianco dal 23 agosto, continuerà però sino al termine del conflitto a con­durre una guerra «parallela», più che da vero e proprio alleato, li­mitandosi ad attaccare le isole e le basi tedesche nel Pacifico e in Cina.

A loro volta gli Imperi Centrali sono avvantaggiati dall'interven­to della Turchia (31 ottobre), grazie al quale le comunicazioni fra le potenze occidentali e la Russia attraverso il Bosforo e i Dardanelli rimarranno costantemente bloccate.




«Guerra totale»


Le vicende puramente militari del conflitto sono ben lontane dal­l'esaurire il significato complesso della guerra, che è guerra totale e impegna non solo gli eserciti, ma l'intera compagine delle nazio­ni: l'economia, le capacità produttive, le risorse morali, le strut­ture politiche e sociali vi sono tutte ugualmente messe alla prova.

Questo carattere di totalità è reso anche più evidente dal fatto che, al di là dei contrasti di interesse, la guerra viene presentata dalle opposte propagande come un conflitto di idee e di culture, viene vissuta non solo come lotta e confronto di sistemi politici, ma addi­rittura come scontro fra diverse concezioni del mondo e, persino, come insanabile contrasto di razze.

L'internazionalismo socialista, che ancora nel lu­glio del 1914 si manifestava in imponenti dimostra­zioni a favore della pace, si scioglie non appena la guerra è inizia­ta, e i singoli partiti socialisti - in testa quello tedesco che era allo­ra il più forte e il più organizzato del mondo - aderiscono alle «unioni sacre» con i partiti sino al giorno prima combattuti e di­sprezzati come «borghesi».

La cultura, che fino allora era stata concepita come attività uni­versale e sovrannazionale per eccellenza, cessa di essere il terreno di incontro e di superamento dei particolari punti di vista, e si of­fre come strumento di giustificazione e di propaganda delle parti in lotta.

Dei pericoli inerenti a questo clima spirituale vi fu coscienza presso alcuni esponenti dell'intellettualità europea. Croce, per esempio, si batté costantemente per «la dife­sa del comune patrimonio civile e della comune opera del pensiero e dell'arte tra i contrasti e le lotte politiche e guerresche dei popoli» ed espresse la sua «indignazione contro gli uomini di scienza, che presero allora a falsificare la verità sotto pretesto di servir la patria o il partito politico», ma operarono in realtà quello che nel 1927 il francese Julien Benda chiamerà, in un'opera omonima, «il tradi­mento dei chierici» (cioè degli intellettuali).

Queste posizioni che volevano mantenere al di sopra della mischia almeno la cultura o gli intellettuali fu­rono però rare: anche presso i massimi esponenti dell'intellettualità europea prevalse la tendenza all'immedesima­zione senza residui con la passione e con le vicende della propria patria particolare.





II secondo anno di guerra (1915)



I successi degli Imperi Centrali du­rante i primi mesi di guerra furono controbilanciati dal trapasso dalla guerra di movimento alla guerra di posizione: con ciò il «fattore tempo» cominciava ad agire a favore dell'Intesa, superiore per potenza economica e per l'illimitata possibilità di ri­fornirsi delle materie prime necessarie alla guerra.

Gli Austro-te­deschi, al contrario, salvo che per i rapporti con i paesi neutrali immediatamente confinanti e con quelli raggiungibili attraverso il Mar Baltico, potevano essere efficacemente strozzati mediante il blocco navale messo in atto dall'Inghilterra.

I Tedeschi erano però nettamente superiori per quanto riguardava i sommergibili che, a partire dal febbraio 1915, tentarono a loro volta un controblocco, affondando le navi, anche neutrali, dirette verso le potenze occidentali.

In que­sto campo un episodio clamoroso, abilmente sfruttato dalla propa­ganda alleata, fu l'affondamento del transatlantico inglese Lusita­nia (7 maggio 1915), che provocò la morte di più di mille passegge­ri, fra i quali più di cento Americani.

La formale protesta elevata in quest'occasione dagli Stati Uniti indusse quindi il governo tedesco ad impegnarsi per una condotta più oculata della guerra sottoma­rina.

Come dicevamo, i successi degli Imperi Centrali du­

navale rante i primi mesi di guerra furono controbilanciati dal trapasso dalla guerra di movimento alla guerra di posizione: con ciò il «fattore tempo» cominciava ad agire a favore dell'Intesa, superiore per potenza economica e per l'illimitata possibilità di ri­fornirsi delle materie prime necessarie alla guerra. Gli Austro-te­deschi, al contrario, salvo che per i rapporti con i paesi neutrali im­mediatamente confinanti e con quelli raggiungibili attraverso il Mar Baltico, potevano essere efficacemente strozzati mediante il blocco navale messo in atto dall'Inghilterra.


Sul fronte occidentale intanto la situazione rimane statica. Sul fronte orientale i tedeschi costringono i Russi a sgomberare la Polonia, i franco-inglesi hanno così tempo di riprendersi e si impegnano in una serie di battaglie che, tuttavia, non intaccano l'esercito nemico (le perdite sono altissime, 400.000 morti contro i 170.000 tedeschi).

La ritirata dei Russi però consente all'Austria-Ungheria di attaccare a fondo la Serbia.


In questa situazione l'Italia decide il proprio intervento a fianco dell'Intesa (24 maggio 1915).


Mentre le nostre truppe impegnano l'esercito austriaco con ripetute offensive sull'Isonzo, la situazio­ne precipita nei Balcani.

La Bulgaria infatti interviene a fianco de­gli Imperi Centrali rendendo insostenibile la situazione della Serbia, attaccata, oltre che da nord, anche dal suo fianco orientale. Malgrado i vincoli di alleanza che la legano alla Serbia, la Grecia - per le tendenze filogermaniche di re Costantino - si rifiuta di soc­correrla, né un corpo di spedizione che gli Alleati fanno sbarcare a Salonicco serve per ora a ristabilire l'equilibrio. Invasa dal sover­chiante nemico, la Serbia riesce solo a salvare una parte dell'eserci­to, che viene trasportata a Corfù da navi italiane e inglesi.

Gli Imperi Centrali controllano ora un imponente blocco di terri­tori, che si estende senza soluzione di continuità dalle coste del Mare del Nord e dal Mar Baltico sino alla Turchia: un enorme dia­framma separa dunque le potenze occidentali dalla Russia.

Per sbrecciare questa muraglia gli Anglo-francesi, lungo tutto il corso del 1915, tentano di impadronir­si degli stretti che mettono in comunicazione il Mar Egeo col Mar Nero, ma riescono solo a stabilire delle teste di ponte nella penisola di Gallipoli, a prezzo di tali perdite che nel gennaio del 1916 si ras­segnano ad abbandonare l'impresa.



Neutralismo e interventismo in Italia


L'ultimatum, che nel luglio del 1914 l'Austria aveva inviato alla Serbia senza alcun preliminare accordo con l'Italia, era redatto in termini tali da consentire al governo Salandra (subentrato a Giolit­ti nel marzo 1914) di dichiarare ufficialmente la neutralità (3 agosto 1914) senza venir meno agli impegni della Triplice.


Naturalmente la dichiarazione di neutralità non impedì però che i partiti e gli or­gani di stampa si pronunciassero sull'atteggiamento che l'Italia avrebbe dovuto assumere nell'immane conflitto, destinato a scon­volgere le strutture geo-politiche del continente europeo e dell'inte­ro mondo. Nei mesi successivi, pertanto, l'opinione pubblica ita­liana si venne dividendo nei due opposti campi dell'interventi­smo e del neutralismo, nell'ambito di ciascuno dei quali emersero differenze di prospettiva di grandissimo rilievo.


Fra gli interventisti sono, in primo luogo, i repubbli­cani di origine e di ispirazione mazziniana, gli irre­dentisti (come il socialista trentino Cesare Battisti), i social-riformi­sti (come il Bissolati), i radical-progressisti (come il Salvemini). Pur nelle diverse sfumature di sensibilità, gli interventisti democratici, che tendono a dimenticare di trovarsi virtualmente schierati anche con la Russia zarista, vogliono il nostro intervento a fianco del­l'Intesa concependolo come prosecuzione delle lotte risorgimen­tali per l'indipendenza nazionale, come guerra al militarismo de­gli Imperi Centrali, come impegno di solidarietà con le nazioni op­presse e con le grandi democrazie occidentali: l'Inghilterra e la Francia.


Accanto a questi, sono pure per l'intervento nazionalisti, che esaltano ideali imperialistici di «sacro egoismo» e di potenza; essi credono nel valore taumaturgi­co della guerra e la considerano un bene in se stessa. Tant'è vero che, dopo aver inclinato in un primo tempo per l'intervento accan­to ai nostri alleati della Triplice, passano con estrema disinvoltura a farsi entusiasti sostenitori dell'intervento accanto all'Intesa.


Ultima recluta del più acceso interventismo è anche Benito Mussolini, che ancora nel settembre 1914, come direttore dell'Avanti! ed esponente dell'ala rivoluzionaria del Partito socialista, ha confermato la sua irriducibile avversione alla guerra, «forma estrema, perché coatta, della collaborazione di clas­se, annientamento dell'autonomia individuale e della libertà di pen­siero»; ma che già nel novembre dello stesso anno, facendosi espel­lere dal Partito socialista, prende a pubblicare Il Popolo d'Italia e si fa promotore e divulgatore di miti giovanilistici e nazional-rivo­luzionari: per lui la guerra è l'evento tragico dal quale si potrà deri­vare una rivoluzione.


Tesi interventiste 'rivoluzionarie' sostengono an­oche gli anarco-sindacalisti, guidati da Arturo La­briola, già ardente sostenitore della campagna libi­ca. Sia Mussolini sia gli anarco-sindacalisti sembrano ignorare che la probabilità di derivare una rivoluzione da una guerra è lega­ta all'ipotesi di una guerra perduta, perché ben difficilmente può essere scalzata dal potere una classe dirigente che abbia guidato un paese alla vittoria.


Non meno composito è lo schieramento dei neutrali­sti


Per i socialisti il neutralismo è una questione di principio; mentre, come abbiamo visto, gli altri partiti socialisti della Seconda Internazionale venivano meno ai loro solenni impe­gni e appoggiavano i rispettivi governi partecipando alle «unioni sacre», i socialisti italiani tenevano fede alla propria ostilità alla guerra, considerata come un affare esclusivamente borghese e ca­pitalistico. Una volta dichiarata la guerra, essi si ridussero però ad adottare il motto «né aderire, né sabotare» che, per un verso, risul­tava impraticabile data la perentorietà dell'alternativa reale, per l'altro li esponeva all'accusa d'essere estranei e indifferenti agli in­teressi della nazione.


Meno rigido fu il neutralismo degli ambienti catto­lici, non ancora organizzati in partito. Benedetto XV (1914-1922), asceso al soglio pontificio nell'agosto del 1914 dopo la morte di Pio X, inclinava a concedere un certo margine di autono­mia e di iniziativa alle organizzazioni cattoliche che, sia in base ai fondamenti stessi del cristianesimo, sia perché in questo caso si sa­rebbe trattato di risolversi a combattere contro la cattolicissima Au­stria, si espressero inizialmente in senso decisamente neutralistico. Ma ben presto alcune personalità del laicato cattolico operarono una distinzione fra l'assoluto neutralismo, al quale doveva necessa­riamente attenersi la Chiesa, e l'atteggiamento dei singoli fedeli, che potevano preferire o rifiutare il neutralismo, secondo gli inte­ressi, i sentimenti e i diritti della comunità nazionale cui apparte­nevano.


Fondato su rigorose considerazioni realistiche fu il neutralismo di Giovanni Giolitti, che aveva il con­senso di vasti strati dell'opinione pubblica italiana, ben lontani pe­raltro da ogni preciso impegno politico. «I fautori della guerra - scriveva lo statista nelle sue Memorie - sostenevano allora l'urgenza di prendervi parte, ritenendo che essa sarebbe stata di breve durata; temevano che, venendo a finire senza il nostro intervento, si perdesse una magnifica occasione per com­piere l'unità nazionale; ed affermavano che l'intervento nostro, rompendo l'equilibrio delle forze, avrebbe fatto finire la guerra in tre o quattro mesi». Egli riteneva invece che la guerra sarebbe stata per l'Italia una prova durissima e molto rischiosa, e che fosse per­ ciò più opportuno patteggiare la nostra neutralità contro quelle concessioni cui l'Austria sarebbe stata costretta dallo stato di ne­cessità.


Mentre si svolgono queste polemiche fra gli opposti schieramenti, il governo Salandra, nel quale il mini­stero degli esteri è occupato da Sidney Sonnino, tentate inutilmente le trattative con l'Austria, si risolve (marzo 1915) a prendere contat­ti con l'Intesa, e i126 aprile conclude con gli Alleati il patto segre­to di Londra, che impegna l'Italia ad intervenire entro un mese contro gli Imperi Centrali dietro la promessa del Trentino e del Sud-Tirolo, dell'Istria, esclusa Fiume, e della Dalmazia.

Il patto pre­vede anche l'annessione definitiva del Dodecaneso ed eventuali compensi in Adalia (Turchia meridionale) «in caso di spartizione totale o parziale della Turchia», nonché «qualche equo compenso coloniale nel caso che la Francia e la Gran Bretagna aumentassero i loro domini coloniali d'Africa a spese della Germania».

Col patto di Londra, ispirato a una concezione na­zionalistica che non lasciava alcuno spazio alle esi­genze dell'interventismo democratico, l'ingresso dell'Italia nella guerra era praticamente deciso, cosicché la lotta finale fra inter­ventisti e neutralisti, svoltasi nel maggio seguente, era già pregiudi­cata in favore dei primi e doveva solo servire a dar veste «popola­re» al fatto compiuto.

Essa fu connotata da una vasta attività di piazza, e le dimostrazioni interventistiche assunsero spesso ca­rattere di intimidazione.

D'Annunzio, per esempio, in un comi­zio tenuto a Roma, non esitò ad aizzare la folla perché procedesse senz'altro al linciaggio di Giolitti.

Ben diversa rimaneva però l'opinione prevalente dei parlamentari, che in gran numero espressero la loro solidarietà al leader liberale del neutralismo.

Salandra, sentendo­si virtualmente battuto, rassegnò allora le sue dimissioni, che il re peraltro respinse, mentre Giolitti - convintosi che le decisioni fossero già state prese - abbandonava la lotta e si ritirava nella sua residenza di Cavour.

Stroncate così anche le ultime speranze dei neutralisti, nella se­duta del 20 maggio la Camera, dopo essere stata informata delle nostre vane trattative con l'Austria, si rassegnò a votare per l'in­tervento, con l'unica eccezione dei socialisti.


Troppe volte é stato detto che la maggioranza parla­mentare neutralistica non interpretava le esigenze più profonde della nazione, le quali si sarebbero invece espresse nelle dimostrazioni interventistiche del radioso maggio del 1915; in realtà il clima nel quale avvenne la deliberazione dell'intervento e le modalità con cui fu stipulato il patto di Londra (rimasto se­greto fino al 1918) furono una prima lacerazione delle istituzioni liberal-democratiche, perché il Parlamento dovette ratificare - sotto la pressione della piazza - una decisione già presa dal gover­no e dal re (il quale aveva facoltà di stipulare autonomamente trattati internazionali).




II terzo anno di guerra (1916)



All'aprirsi del 1916, sono ancora i Tedeschi a pren­dere l'iniziativa: essi vogliono ripetere il tentativo dei primi mesi di guerra e risolvere a proprio vantaggio la situazio­ne sul fronte occidentale.

Scatenano perciò sin dal febbraio una violentissima offensiva contro Verdun; ma essa si risolve in una tragica ecatombe: mentre le perdite complessive ammontano a cir­ca 700.000 caduti, ugualmente ripartiti fra le due parti in lotta, lo scopo strategico di ridare mobilità al fronte non viene conseguito.

Sui nostri confini l'esercito italiano s'impegna, con­temporaneamente, in una offensiva sull'Isonzo, che deve però essere interrotta nel maggio, quando, da nord, gli Au­striaci rispondono con la cosiddetta Strafexpedition («spedizione punitiva»).

Essi attaccano sul fianco sinistro del nostro schieramen­to, tra l'Adige e il Brenta, con l'intenzione di sfondare in tal punto e di far così retrocedere tutto il nostro fronte, avanzato ad oriente fino all'Isonzo. Il piano non consegue peraltro i previsti risultati strategici, e la stessa avanzata austriaca sull'altopiano di Asiago viene neutralizzata da una nostra controffensiva che permette i1 re­cupero di quei territori.

Per la Strafexpedition l'Austria ha dovuto distrarre delle truppe dal fronte orientale, il che facilita ora una vittoriosa offensiva russa, che sfonda nella Polonia meridionale e rientra in Bucovina e Galizia, ri­petendo contro l'Austria-Ungheria la minaccia del 1914.


Anche sul fronte occidentale gli Alleati, dopo l'of­fensiva tedesca di Verdun, passano alla controffensi­va con la battaglia della Somme (luglio), nella quale vengono im­piegati per la prima volta í carri armati. Ma essa fallisce, com'era fallita quella del nemico, e le perdite sono anche più gravi: circa 700 000 caduti fra gli Alleati, circa 500 000 fra i Tedeschi. Intanto i successi della campagna del Brusilov indu­cono la Romania ad intervenire a fianco dell'Intesa, ma l'iniziativa sarà disastrosa sia per quella nazione sia per gli Al­leati: presa in mezzo fra l'Austria-Ungheria e la Bulgaria, la Ro­mania viene occupata quasi per intero, e in essa gli Imperi Centrali trovano una preziosa fonte di rifornimento di grano e di petrolio.

Nel corso del 1916 si combatte anche l'unica vera e propria battaglia navale di tutta la guerra: la batta­glia dello Jütland (31 maggio). La flotta tedesca d'alto mare incon­tra e attacca una squadra di incrociatori inglesi ad occidente della penisola di Jütland, e infligge agli avversari perdite assai maggiori di quelle subite, ma deve ritirarsi quando so­pravviene il grosso della flotta inglese. Paradossalmente questo epi­sodio, che in sostanza fu una vittoria tedesca, si risolse in un dure­vole e decisivo successo della flotta britannica, dato che in seguito i Tedeschi non osarono più contestarle il pieno e incontrastato do­minio dei mari.


In Italia intanto entrò in crisi nel giugno il ministero Salandra, considerato corresponsabile dei pericoli corsi dal nostro fronte durante la Strafexpedition e accusato di aver dato al nostro intervento un significato troppo angusto e restrittivo (basti pensare che la guerra era stata dichiarata alla sola Austria). A Salandra succedette Boselli che, conservando agli esteri il Sonnino, formò un ministero più ampiamente rappresentativo del­l'unità nazionale, si preoccupò di realizzare più cordiali e coordi­nati rapporti con gli Alleati e, per togliere ogni motivo di riserva e di diffidenza nei nostri confronti, dichiarò formalmente la guerra anche alla Germania (28 agosto).





II quarto anno di guerra (1917)



I primi due anni e mezzo di guerra, svanite per tutti le speranze di una conclusione rapida, avevano ridotto i belligeranti in condi­zioni morali e materiali durissime; il 1917 fu per molti paesi l'anno della prova suprema, e per la Russia zarista l'anno del definitivo sfacelo.

Lo stato di grave sofferenza investe tutte le nazioni­ della guerra  neppure l'inasprimento fiscale e l'aumento del debi­to pubblico bastano a sostenere le enormi spese di guerra, e dovun­que si ricorre all'espediente di stampare nuova moneta.

Nella depressione generale il massimo peso è nondi­meno sostenuto dalla Germania e dall'Austria, costrette al raziona­mento dei generi di prima necessità e scarseggianti di alcune mate­rie prime indispensabili alla produzione bellica, come il rame e il caucciù. Il blocco economico, tanto più dopo l'incidente del Lusita­nia, agisce a senso unico in loro sfavore e fa sentire i suoi progres­sivi effetti di soffocamento. Anche in Russia, dove le materie prime non mancherebbero, l'arretratezza delle strutture produttive e la in­sufficienza dei trasporti dà luogo a gravissimi problemi; in partico­lare, le grandi città risentono delle difficoltà di approvvigionamen­to e mancano di pane: in un paese che pure è gran produttore di grano!


In queste condizioni, già nel dicembre del 1916 le  potenze centrali, chiedendo la mediazione del presi­dente degli Stati Uniti, Wilson, avanzano generiche proposte di pa­ce.


Nel gennaio del 1917, comunque, l'«offensiva di pace», che gli Austro-tedeschi conducono senza offrire alla con­troparte neppure lo sgombero del Belgio e dei territori francesi oc­cupati, viene nettamente respinta.

Né varrà a riaprire la questione la nota che nel successivo agosto Benedetto XV rivolgerà con ben altro proposito ai capi dei paesi belligeranti invitandoli a porre ter­mine all'«inutile strage».

Lo stato maggiore tedesco, che è ora comandato da Hindenburg, prende all'inizio dell'anno la deci­sione gravissima di rilanciare la guerra sottomarina senza limitazioni, con la speranza di ridurre alla fame l'Inghilterra nel giro di sei mesi.

Le potenze neutrali vengono pertanto avvertite (31 gennaio 1917) che le navi mercantili di qualunque nazionalità, sorprese nelle zone di guerra, saranno immediatamente affondate senza preavviso.

Com'era da prevedere, la risposta degli Stati Uni­ti, sempre più interessati alla vittoria dell'Intesa cui avevano con­cesso ingentissimi prestiti, fu immediata: già il 3 febbraio essi ruppero le relazioni diplomatiche con la Germania, invitando an­che gli altri stati neutrali a seguire il loro esempio, e il 5 aprile di­chiararono la guerra.

Così il bilancio dell'operazione, malgrado l'enorme incremento del naviglio affondato dai sommergibili tede­schi, diventava disastroso.

Gli Stati Uniti, se per il mo­mento non potevano incidere sulle sorti della guerra nello scac­chiere europeo, rendevano immediatamente impensabile una vitto­ria finale degli Austro-tedeschi, e col loro intervento sostenevano in modo decisivo il morale dei popoli dell'Intesa, destinato a subire in quell'anno il duro colpo del crollo della Russia.


Sul fronte occidentale, dall'aprile al maggio, il nuo­vo generale francese Robert Nivelle, che dal di­cembre 1916 ha sostituito Joffre, scatena un'offensi­va su tutta la linea da Arras a Reims, ma ancora una volta essa si conclude con spaventose perdite, soprattutto fra gli attaccanti, mentre l'aumentato stato di sofferenza si manifesta in Francia con una serie di scioperi e persino con ammutinamenti che si dif­fondono ampiamente fra le truppe scoraggiate. Toccherà a Philippe Petain, subentrato a Nivelle alla metà di maggio, ristabilire una si­tuazione che minacciava di farsi insostenibile.


Particolarmente drammatiche sono in questa fase della guerra anche le vicende italiane. Il proletaria­to industriale torinese alimenta una sommossa (22­/25 agosto) che, nata dallo stato di disagio determinato dal calo dei salari reali e dalla temporanea chiusura delle fornerie per man­canza dei rifornimenti di farina, assume immediatamente il carat­tere di protesta contro la prosecuzione della guerra. L'insurrezio­ne viene sedata dall'intervento di reparti dell'esercito e costa ai ri­belli parecchie decine di morti e centinaia di arresti.

Sull'alto Isonzo - dopo che il nostro esercito fra l'a­gosto e il settembre è riuscito a caro prezzo ad occu­pare l'altopiano della Bainsizza - gli Austro-tedeschi sferrano una massiccia offensiva, riescono a sfondare le nostre linee a Caporetto (24-27 ottobre) e, minacciando di isolare le truppe scaglionate sul fronte giuliano, costringono il nostro esercito ad una precipito­sa ritirata che si trasforma in una vera e propria rotta e determina lo sbandamento di interi reparti.

In conseguenza del gravissimo rischio superato, che fu sul punto di tramutarsi in un completo disastro, il governo Boselli entrò in crisi e fu sostituito da un nuovo governo di unità nazionale, presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, nel quale ancora una volta il ministero degli esteri rimase affidato a Sonnino.


Cadorna - che per il suo eccessivo autoritarismo e per la sua incapacità di ridurre al minimo le perdite e di tener conto del morale della truppa era considerato fra i maggiori responsabili della rotta di Caporetto - fu destituito e dovette cedere il coman­do supremo al generale Armando Diaz.


Mentre in Francia e in Italia si manifestavano pericolosi sintomi di crisi e di sbandamento, in Russia il regime autocratico dello zar andava incontro a completa rovina, attraverso vicende cui per ora accenniamo solo in riferimento alla guerra riservandoci di trattar­ne più avanti.

Fin dagli ultimi mesi del 1916 la società russa è in preda a uno stato di marasma che si va facendo sem­pre più acuto. Nel marzo del 1917 il diffuso malessere sfocia a Pietrogrado (Pietroburgo, poi Leningrado) in una vera e propria insurrezione, che in pochi giorni costringe lo zar Nicola II Romanov ad abdicare e induce lo stesso granduca Michele, designato a succedergli, a rinunciare a una corona ormai manifestamente squalificata.

Si forma allora un governo provvisorio che, in un primo tempo, s'impegna a continuare la guerra a fianco degli Alleati e anzi, nel luglio, tenta di organizzare una nuo­va offensiva in Galizia; ma il completo fallimento dell'impresa di­sperata prepara il terreno per una nuova ondata rivoluzionaria guidata dai bolscevichi, e questi il 7 novembre eliminano il go­verno provvisorio e s'impadroniscono del potere.

Il programma dei bolscevichi comportava la necessi­tà di concentrare tutte le energie popolari sul fronte interno della rivoluzione e imponeva l'immediata cessazione della guerra: una guerra che la Russia, comunque, non era più in grado di proseguire

Perciò i bolscevichi intavolarono subito con gli Im­peri Centrali trattative di pace, iniziate in dicembre con l'armi­stizio di Brest-Litovsk, e concluse il 3 marzo 1918 con l'omonima pace.

Le condizioni imposte dai Tedeschi furono durissime: in pra­tica, la Polonia, la Finlandia, la Lituania, la Curlandia, la Livonia, l'Estonia e persino la Russia meridionale (Ucraina) furono ridotte in condizioni di vassallaggio nei confronti dei vincitori, mentre la Russia dovette impegnarsi a pagare una cospicua indennità di guerra.

Complessivamente la pace di Brest-Litovsk strappava alla Russia 56 milioni di abitanti (pari al 32% della sua popolazione) e la privava di un terzo delle strade ferrate, del 73% dei minerali ferro­si, dell'89% della produzione di carbone.

Il crollo della Russia costrinse anche il governo ro­meno, che sin dalla fine del 1916 era stato ridotto a controllare solo un'esigua porzione del suo precedente territorio, ad accettare la pace di Bucarest (5 aprile 1918), non meno esosa di quella imposta alla Russia.


Nel frattempo, già prima della fine del 1917, l'Intesa aveva serra­to le file: si era rinnovato, come abbiamo visto, il governo italiano; in Francia il potere era passato nelle mani del radicale George Cle­menceau, detto «Tigre» per la sua decisione nel condurre la guerra; in Inghilterra Lloyd George esercitava una specie di provvisoria dittatura, assistito da un ristretto Comitato di guerra.

Nel corso del 1917, contro i successi degli Imperi Centrali sul fronte orientale, gli Alleati segnavano al loro attivo, oltre all'intervento americano, anche quello della Gre­cia, dove il comandante delle truppe stanziate a Salonicco, generale Sarrail, aveva costretto il re Costantino I ad abdicare e aveva otte­nuto da Venizelos, dal giugno ripristinato al governo, l'entrata in guerra del paese a fianco dell'Intesa.




La conclusione della guerra (1918)



Con le quaranta divisioni che dopo l'armistizio e la pace di Brest-Litovsk hanno potuto togliere dal fron­te russo i Tedeschi rafforzano le loro armate sul fronte occidentale e, dal 21 marzo 1918, scatenano una nuova e violenta offensiva.


L'esercito tedesco dimostra ancora una volta di non essere inferiore alla propria fama: esso sfonda le linee nemiche e penetra profondamente nel suolo francese, sino a raggiungere nel luglio la Marna e a superarla in qualche punto.

Ma anche questa vittoria ha le sue ombre: l'attacco non riesce a rompere la continui­tà fra gli eserciti francese e inglese, com'era nei suoi scopi; gli Al­leati si sono finalmente risolti ad unificare il comando supremo nelle mani del generale francese Foch; le perdite tedesche sono sta­te ingentissime; i soldati tedeschi, avanzando, hanno potuto consta­tare che - contrariamente a quanto affermava la propaganda - le retrovie nemiche erano ancora ricchissime di rifornimenti e si son fatti la convinzione che, malgrado tutti i loro sforzi, il nemico sia invincibile.

D'altra parte, l'apporto americano è in rapido aumento: dalla fine di aprile sbarcano in Francia circa 300 000 soldati statu­nitensi al mese.

Nella seconda metà del luglio la guerra subisce la svolta decisiva: il generale Foch inizia infatti, con largo impiego anche di aerei e di carri armati, quella controffen­siva che non avrà termine sino alla vittoria finale.

I Tedeschi si ritirano ordinatamente, ma già in settembre sono ricacciati sulle posizioni dalle quali erano partiti nel marzo. E l'avanzata nemica non si arresta. E ormai evidente che, per quanto lo strumento mili­tare germanico possa ancora protrarre la propria resistenza, esso non ha più la minima prospettiva di vittoria.


Nel settembre anche il fronte balcanico è in movi­mento: la Bulgaria, attaccata da sud dalle forze con-giunte francesi, inglesi, serbe e greche, è battuta in pochi giorni e costretta ad arrendersi (29 settembre). Così non solo sono interrot­te le comunicazioni fra gli Imperi Centrali e la Turchia, ma gli Al­leati possono risalire la penisola balcanica e minacciare diretta­mente i territori della monarchia austro-ungarica.

Separata dai suoi alleati, anche la Turchia deve pre­sto cedere: la concomitante caduta della Bul­garia, risulta fatale all'Impero turco e lo costringe alla resa a discre­zione (30 ottobre).


Sotto la pressione esterna va intanto crescendo la ri­bellione contro l'Impero austro-ungarico delle nazio­nalità oppresse, che reclamano ormai la propria completa indipen­denza. Lo sfacelo dell'Austria viene accelerato dalla vittoriosa of­fensiva italiana di Vittorio Veneto (22 ottobre-3 novembre), che dissolve l'esercito nemico.

Il 4 novembre l'Austria firma l'armi­stizio di Villa Giusti; ma è chiaro che tale armistizio non segna so­lo la fine delle operazioni militari, quanto piuttosto l'atto di morte dell'Impero asburgico, che si dissolve nelle singole nazioni fino al­lora in esso incorporate.


Anche in Germania la crisi socio-politica è evidente: l'esercito, pur retrocedendo, continua a resistere, ma la flotta è in rivolta; Brema, Amburgo e Lubecca sono nelle mani dei marinai e degli operai; in Baviera viene proclamata la repubblica; una frazione dei socialisti, organizzata da Karl Liebk­necht e da Rosa Luxemburg nella Spartakusbund (Lega di Spartaco, significativamente intitolata al nome del condottiero della più gran­de rivolta servile contro Roma), si muove nella stessa direzione dei bolscevichi russi e tenta di derivare dal fallimento della vec­chia classe dirigente una rivoluzione proletaria.

Il 30 settembre il Kaiser Guglielmo II promette al po­polo ampie riforme democratiche e chiede pace al presidente degli Stati Uniti.

Ma è ormai troppo tardi perché la mo­narchia possa separare le proprie responsabilità e perché la guerra possa concludersi con una pace contrattata. Il regime viene travol­to nella sconfitta e, quando il 9 novembre Guglielmo II abdica e si rifugia in Olanda, non fa che prendere atto di una trasformazione già consumata.

La Germania è ormai una repubblica, e saranno i suoi delegati che l'11 novembre, presso Compiègne, firmeranno l'armistizio con i rappresentanti dell'Intesa, ponendo termine al più che quadriennale conflitto.





Trattati di pace



Dallo spaventoso travaglio della guerra popoli e go­verni uscirono con speranze e aspettative profon­damente contraddittorie.

Da una parte si avvertiva la necessità di imboccare una strada radicalmente nuova che stornasse per sem­pre i pericoli di guerra;

dall'altra, si attribuiva agli sconfitti l'esclu­siva responsabilità del conflitto e si pretendeva di punirli, metten­doli in condizioni tali da impedire ogni reale e solida pacificazione.


La guerra era stata presentata dagli Alleati come «guerra democra­tica» contro il militarismo degli Imperi Centrali, ma ora, di fronte alla rivoluzione bolscevica e alla suggestione ch'essa esercitava sul proletariato europeo, gli ideali democratici erano guardati con so­spetto sia dalle masse popolari che inclinavano a considerarli come semplice maschera degli interessi capitalistici, sia dalla borghesia che riteneva eccessive le possibilità legali garantite dalla democra­zia al nemico di classe.


Fin dal gennaio del 1918 il presidente americano, Woodrow Wilson aveva fissato in quattordici punti le finalità che gli Stati Uniti intendevano raggiunge­re con la loro partecipazione alla guerra.


Sostanzialmente egli pro­poneva:

di abolire la diplomazia segreta,

di rendere libera in pace come in guerra la navigazione sui mari,

di eliminare le barriere doganali,

di ridurre al minimo gli armamenti,

di risistemare (ma non di abolire) le colonie tenendo conto anche degli interessi dei popoli assoggettati,

di evacuare tutti i territori occupati durante la guerra,

di consentire l'autodeterminazione dei popoli,

di ride­finire i confini d'Europa secondo le linee di divisione delle varie nazionalità,

di costituire infine una Società delle Nazioni, «fon­data su convenzioni precise, capaci di fornire garanzie recipro­che di indipendenza politica ai piccoli come ai grandi stati».


L'impostazione di Wilson, certamente legata agli interessi di un grande paese capitalistico che non aveva nulla da temere dalla libe­ralizzazione degli scambi, era comunque adeguata alle necessità di pacifica ricostruzione, tanto che suscitò vastissimi consensi; ma, contrastata in Europa dal miope «realismo» dei governi e più tardi rinnegata dalle correnti isolazionistiche statunitensi, ebbe il decisi­vo torto di rimanere soltanto sulla carta, come semplice dichiara­zione di buone intenzioni.


Alla conferenza di pace apertasi a Parigi nel gen­naio del 1919 furono ammessi i rappresentanti di 27 paesi, ma in realtà, poiché le riunioni plenarie contarono assai po­co, le decisioni fondamentali furono prese dai «quattro grandi», ossia da Wilson, Lloyd George, Clemenceau e Orlando (che peral­tro si trovava in posizione subalterna).

Per l'assenza della Russia bolscevica e dei rappresentanti dei paesi sconfitti, i lavori procedet­tero speditamente e si conclusero in pochi mesi con l'elaborazione del trattato di Versailles, imposto alla Germania e comprendente anche lo statuto della Società delle Nazioni (giugno 1919), del tratta­to di Saint-Germain, stipulato con l'Austria (settembre 1919), del trattato di Neuilly con la Bulgaria (novembre 1919), del trattato del Trianon con l'Ungheria (giugno 1920), del trattato di Sèvres con la Turchia (agosto 1920).


Il trattato di Versailles, dai Tedeschi giustamente ribattezzato Diktat, imponeva alla Germania:

di restituire l'Alsazia e la Lorena alla Francia e di concederle per quindici anni lo sfruttamento del bacino minerario della Saar (che allo scadere del periodo avrebbe deciso la propria sorte mediante un plebiscito),

di evacuare il Belgio

di cedere alla costituenda repubblica polacca le terre abitate da popolazioni polacche o da po­polazioni miste tedesco-polacche, come la Posnania,

di rinuncia­re a tutto il suo impero coloniale, del quale si impadronivano - in Asia e nel Pacifico - principalmente il Giappone, - in Africa - principalmente l'Inghilterra e, in misura minore, la Francia, il Bel­gio e il Portogallo.


Alla Germania venne altresì imposta la riduzione delle forze ar­mate a soli 100 000 uomini, la cessione della flotta all'Inghilterra (ma le navi tedesche preferirono autoaffondarsi), la smilitarizzazio­ne della Renania, la rinuncia all'artiglieria pesante, all'aeronautica e ai sommergibili così il disarmo proposto dal Wilson veniva fatto valere per la sola Germania.


Infine la Germania venne costretta a dichiararsi unica responsabile della guerra e a impegnarsi pertanto al risarcimento di tutti i danni provocati dal conflitto. Questa clausola, moralmente disgustosa, era anche praticamente ineseguibile, sia per l'enormità delle riparazioni (definite più tardi da una speciale commissione), sia perché si pretende­va dalla Germania un così smisurato risarcimento mentre la si pri­vava delle risorse economiche delle colonie, della Saar, nonché, co­me ora diremo, dell'Alta Slesia e dei Sudeti.

In tal modo i vincitori fomentavano in Germania la rinascita del più sfrenato nazionali­smo e aprivano le porte all'avvento del nazismo.


Con i trattati di Saint-Germain e Trianon si prendeva atto della dissoluzione dell'Impero asbur­gico, sulle cui rovine nascevano la Repubblica austriaca, cui si face­va divieto di unirsi alla Germania, la Repubblica cecoslovacca, che includeva più di tre milioni di Tedeschi dei Sudeti, il Regno di Un­gheria (che non ebbe mai un re), il Regno di Iugoslavia, che riuniva ai territori della Serbia, il Montenegro e le regioni slave già appar­tenenti all'Austria.

Dello sfacelo asburgico si avvantaggiava anche l'Italia, che otte­neva il Trentino e l'Alto Adige, Trieste e l'Istria.

Rimaneva invece in sospeso la questione della Dalmazia, che il Patto di Londra asse­gnava all'Italia ma che ora era rivendicata dalla Iugoslavia.        

Nell'Europa orientale, sulle terre restituite dalla Ger­mania, dall'Impero asburgico e dalla Russia, nasce­va la Repubblica polacca, che includeva anche l'Alta Slesia tede­sca, ricca di miniere, e otteneva uno sbocco sul Mar Baltico me­diante un «corridoio» facente capo a Danzica, eretta a città libera.

Questo passaggio si insinuava però nel corpo della Germania sepa­rando dal restante territorio tedesco la Prussia Orientale.

Più a nord, sui territori che la pace di Brest-Litovsk aveva strappati alla Russia e posti sotto il protettora­to tedesco, sorgevano le repubbliche di Lituania, Lettonia, Estonia e Finlandia. Nella penisola balcanica, la Romania si annetteva la Transilvania; la Iugoslavia e la Grecia si spartivano la Macedonia; la Bulgaria veniva privata di ogni sbocco sul Mar Egeo dal trattato di Neuilly; la Turchia conservava, al di qua degli Stretti che venivano posti sotto il controllo internazionale, la sola Costantinopoli.


Del resto il trattato di Sèvres sanciva lo smembra­mento dell'Impero ottomano, sulle cui rovine sorge­vano i nuovi stati della Siria, della Palestina, della Transgiordania e dell'Irak. Non si trattava però di stati indipendenti, perché la Socie­tà delle Nazioni affidò la Siria come mandato alla Francia e gli altri paesi all'Inghilterra; e il «mandato» era una finzione giuridica, escogitata per l'occasione e applicata anche alle colonie ex-tede­sche, che comportava un rapporto di reale subordinazione.

La stessa integrità territoriale della Turchia veniva compromessa con la cessione alla Grecia della zona di Smirne. Contro queste decisioni insorse più tardi un movimento nazionalista, guidato da Mustafà Kemal, che, eliminato il sultanato (novembre 1922), ammodernò le strutture della Turchia e ottenne la revisione del trattato di Sèvres, sostituito nel luglio 1923 dal trat­tato di Losanna.

Quest'ultimo restituiva alla Turchia il controllo degli Stretti ed eliminava da Smirne la testa di ponte greca, mentre confermava all'Italia il possesso del Dodecaneso.


Durante l'elaborazione dei trattati di pace, venne an­che approvato lo statuto della Società delle Nazioni (aprile 1919), che vietava il ricorso alla guerra, imponeva la soluzio­ne delle controversie internazionali mediante arbitrato, prevedeva gravi sanzioni economiche contro gli stati che avessero turbato la pace.

Le dichiarazioni dello statuto, in realtà già contraddette dallo spirito punitivo del trattato di Versailles, non si tradussero pe­rò in concreta volontà politica.

Gli Stati Uniti, che pure avevano promosso la costituzione della Società delle Nazioni per iniziativa del loro presidente, si convertirono all'isolazionismo e non vi aderi­rono. L'Inghilterra e la Francia usarono lo strumento societario sol­tanto al servizio dei loro interessi, sicché il prestigio della nuova istituzione fu ben presto sminuito e offuscato, e i rapporti inter­nazionali rimasero affidati alla «logica» della pura forza.




Conseguenze della guerra


Le conseguenze della guerra, che era costata quasi dieci milioni di morti, furono proporzionate alle sue smisurate dimensioni e dipesero, prima ancora che dai trattati di pace e dalle deliberazioni dei vincitori, dalle trasfor­mazioni determinate dal corso stesso degli avvenimenti.

Erosi dalla guerra, crollano l'Impero germanico, l'Impero austro-ungarico, l'Impero zarista, l'Impero turco. In Russia è in corso una rivolu­zione destinata a mutare le sorti del mondo, alla quale, anche nel­l'immediato, si ispirano le frazioni rivoluzionarie socialiste dell'Oc­cidente.

La vecchia Europa, dei vincitori non meno che dei vinti, cede il primato mondiale agli Stati Uniti, mentre anche la Russia e il Giappone si avviano ad imporsi come potenze di primo piano, e mentre in Cina e in India il processo di maturazione di una coscienza nazionale avanza e si intensifica.

Le ripercussioni della guerra si manifestano in tutti gli ambiti della vita pubblica e privata. Fra il 1918 e il 1919 ai caduti sui campi di battaglia si aggiungono altri sei mi­lioni di morti, falciati dalla «spagnola»: un'epidemia influenzale alla cui diffusione il razionamento dei generi di prima necessità, le privazioni, il peggioramento delle condizioni igieniche hanno of­ferto il terreno più adatto.

Per sostenere il «fronte interno» i governi sono ri­corsi alla più sfrenata propaganda, attribuendo ai nemici le peggiori nefandezze: e la dimostrata sinistra onnipoten­za dei mass media sarà d'ora in poi largamente utilizzata per il «lavaggio dei cervelli», quasicché - secondo un assunto an­cor oggi largamente condiviso - una menzogna ripetuta un nume­ro sufficiente di volte si trasformi in verità.

Per tener alto il morale delle truppe si è spesso pro­messo ai soldati che, finita la guerra, si sarebbe pro­ceduto ad un'energica azione di riforma in favore delle classi popo­lari (in Italia, per esempio, dopo Caporetto si è parlato di «parteci­pazione degli operai agli utili delle società per azioni» e di distribu­zione di terre ai contadini). E queste promesse - difficili da mante­nere nella situazione postbellica e comunque fatte per pura dema­gogia - hanno creato aspettative atte ad inasprire i conflitti so­ciali. Tanto più che il trauma della guerra ha destato a coscienza politica, magari ancora elementare, anche masse popolari che, per le loro condizioni economiche depresse, erano rimaste fino allora ai margini della vita pubblica.


La chiamata alle armi di intere classi ha costretto ad impiegare personale femminile anche in funzioni tradizionalmente riservate agli uomini, sicché le donne, pur nella peggiore delle circostanze, vanno acquisendo più chiara consape­volezza del proprio valore e compiono un passo avanti sulla via della propria emancipazione (in Inghilterra, per esempio, conqui­stano il diritto di voto nel gennaio del 1918).

La guerra ha indirizzato il progresso tecnico alla produzione di mezzi distruttivi (lanciafiamme, gas tossici, carri armati), ma ha contribuito al perfezionamento di strumenti utili: così, per esempio, l'aeronautica, impiegata in misura crescente nelle operazioni militari, potrà poi assumere notevole importanza anche nelle attività pacifiche, e le ricerche condotte dagli scienziati tedeschi per sopperire alla carenza di ma­terie prime (determinata dal blocco navale britannico) risulteranno utili anche per la chimica dei tempi di pace.

In tutti i paesi gli interventi delle autorità statali nella vita civile, politica ed economica si sono fatti più pressanti.

Durante la guerra la stampa è stata assoggettata a censura preventiva, e spesso la lotta contro il disfat­tismo è diventata pretesto per soffocare ogni libertà di critica. Per­sino in Inghilterra l'aumento dello sforzo bellico ha portato «a un deciso risveglio dell'attività governativa, cosicché verso la fine del 1917 pochi erano i settori della vita pubblica, e perfino privata, non ancora interessati da provvedimenti legislativi. Le ferrovie, l'indu­stria del carbone e i cantieri navali, per esempio, passarono sotto il controllo diretto dello stato, più di 200 fabbriche vennero naziona­lizzate e 9/10 delle merci di importazione furono acquistate diretta­mente dallo stato.

In complesso, dunque, la prima guerra mondiale, anche a pre­scindere dai trattati di pace, costituì una svolta storica e fu la con­futazione pratica del liberismo economico e del liberalismo politi­co, almeno nelle forme concrete nelle quali liberismo e liberalismo si erano realizzati fino al




Riepilogo cronologico



Anno

Data/periodo

Avvenimento


28 giugno

Uccisione dell'arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo, in Bosnia

28 luglio

Dichiarazione di guerra dell'Austria alla Serbia

31 luglio

Dichiarazione di guerra della Germania alla Russia

2 agosto

Dichiarazione di guerra della Germania alla Francia

3 agosto

Dichiarazione ufficiale di neutralità dell'Italia

4 agosto

Dichiarazione di guerra dell'Inghilterra alla Germania

23 agosto

Intervento del Giappone a fianco degli Alleati

5-12 settembre

Battaglia della Marna (fronte occidentale)

31 ottobre

Intervento turco a fianco degli Imperi Centrali





26 aprile

Patto segreto di Londra

7 maggio

Affondamento del 'Lusitania'

24 maggio

Dichiarazione di guerra dell'Italia all'Austria

10 ottobre

Intervento della Bulgaria a fianco degli Imperi Centrali

novembre

Invasione della Serbia





19 febbraio

Inizio dell'offensiva tedesca contro Verdun (fronte occidentale)

14 maggio

Inizio della «spedizione punitiva» (fronte italiano, nuovo fronte aperto oltre quello orientale ed occidentale)

31 maggio

Battaglia navale dello Jütland

giugno

Offensiva russa del Brusilov (fronte orientale)

Crisi del ministero Salandra, sostituito dai ministero Boselli

luglio-settembre

Battaglia della Somme (fronte occidentale)

27 agosto

Dichiarazione di guerra della Romania all'Austria

28 agosto

Dichiarazione di guerra dell'Italia alla Germania

dicembre

Invasione della Romania





31 gennaio

La Germania avverte i neutrali che la guerra sottomarina verrà condotta senza limitazioni

marzo

Crollo del regime zaristico

5 aprile

Dichiarazione di guerra degli Stati Uniti alla Germania

aprile-maggio

Offensiva alleata sul fronte occidentale

1 agosto

Nota di Benedetto XV ai capi dei paesi belligeranti

24-27 ottobre

Battaglia di Caporetto

Crisi del ministero Boselli, sostituito dal ministero Orlando

7 novembre

II partito bolscevico al potere in Russia





gennaio

I «quattordici punti» del presidente Wilson

3 marzo

Pace di Brest-Litovsk imposta alla Russia

marzo-giugno

Offensiva tedesca sul fronte occidentale

5 aprile

Pace di Bucarest imposta alla Romania

luglio

Inizio della controffensiva alleata sul fronte occidentale

29 settembre

Resa della Bulgaria

22 ott.-3 nov.

Battaglia di Vittorio Veneto

30 ottobre

Resa della Turchia

4 novembre

Armistizio di Villa Giusti

11 novembre

Resa della Germania





aprile

Si costituisce la Società delle Nazioni

28 giugno

Trattato di Versailles con la Germania

10 settembre

Trattato di Saint-Germain con l'Austria

27 novembre

Trattato di Neuilly con la Bulgaria





4 giugno

Trattato dei Trianon con l'Ungheria

10 agosto

Trattato di Sèvres con la Turchia (sostituito nel luglio 1923 dal trattato di Losanna)






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