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L'angoscia delle macchine di ruggero vasari




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L'ANGOSCIA DELLE MACCHINE DI RUGGERO VASARI


In linea con la futuristica utopia di una nuova civiltà pronta a ripudiare ogni legame con il passato, ma insofferente ai dettami marinettiani552 e sostanziato da alcune matrici tematiche intimamente "siciliane", si orienta il profilo artistico del messinese Ruggero Vasari. Nella Berlino dei primi anni Venti, ove Friedrich Kiesler mette in scena l'avvenirismo robotico di R.U.R. (Rossum's Universal Robots) di Karel Capek, (includendo, tra i primi, un montaggio cinematografico in scena553), Vasari lavora come corrispondente dell'«Impero» per le manifestazioni artistiche, si impegna come animatore culturale e può così imbastire una fitta rete di contatti con una parte notevole dell'avanguardia europea. Kazimir Malevic, Walter Gropius, Tristan Tzara, Hans Richter, Laszlo Moholy-Nagy, Pablo Picasso, sono alcuni degli artisti che

transitarono per Berlino in quegli anni e con i quali Vasari poté entrare in contatto. Tra le iniziative culturali promosse e messe in pratica da Vasari in Germania vi è l'apertura di una Casa d'Arte e la fondazione del mensile «Der Futurismus», periodico che voleva darsi come bollettino di Informazione del Movimento Futurista. Valutando lo stile giornalistico di Vasari, Stefania Marchetti afferma giustamente che i suoi articoli mostrano «un'innata vocazione drammaturgica: le interviste sono riportate in forma dialogica, con parole corpose e colorate che restituiscono al linguaggio la dimensione dell'oralità, e le descrizione dei luoghi sembrano essere didascalie per la messa

in scena»554.

Dalla capitale tedesca ha inizio la storia della messa in scena della "sintesi tragica in tre tempi" L'angoscia delle macchine, concepita, stando alle dichiarazioni dell'autore, intorno al 1921, e pubblicata nel 1925555. Come nel caso di Fillia, la glorificazione della macchina e dell'azione virile e dinamica è posta in opposizione «al riemergere continuo dell'identità atavica dell'individuo, incatenato al portato fatale della propria personalità»556. Fatalità che è nello Zeitgeist, e che dimostra ancora una volta come le tinte dell'Arcadia industriale adoperate dalla prima genia futurista si siano a questa data stemperate, moderate da distopie (o contro-utopie) scettiche.

Il dramma si svolge «nel regno delle macchine», in un contesto privo di una precisa determinazione temporale e geografica: la società è composta di uomini trasformati in robot, e governata da tre despoti, Bacal, Singar e Tonchir. Una macchina-cervello, «sintesi del pensiero dei tre despoti»557, impartisce gli ordini ai «condannati alle macchine», che li captano attraverso un'antenna sulla fronte. Tonchir è al lavoro su un nuovo apparecchio per aumentare la

produttività dei suoi sudditi, rendendoli meno sensibili alla fatica. Unico a non avere ancora superato definitivamente l'identità umana, dal punto di vista sentimentale e sessuale, è tuttavia tormentato dai dubbi. L'arrivo di Lipa, regina delle donne (esiliate su un altro continente in quanto simbolo di umanità e quindi di debolezza), contribuisce a complicare la situazione, che precipita verso la catastrofe finale.

Nel terzo e ultimo atto fanno la loro comparsa in scena i "condannati alle macchine", che si agitano «come esseri inanimati, sospesi nello spazio, che ubbidiscono a fili invisibili»558 eseguendo una pantomima meccanica. Tonchir perde il controllo della macchina-cervello e muore. Con lui decede irremissibilmente il mondo di automi creato dagli scienziati. La macchina

impazzisce e nella sua follia autodistruttrice travolge l'intero genere umano.


La struttura drammaturgica della tragedia possiede quindi una "regolarità", cronologica e geografica, procedendo in un circoscritto frangente temporale dall'esterno verso l'interno della città delle macchine559. Ha un suo significato ironico ed emblematico l'apertura del dramma, con il breve scambio di battute tra le due sentinelle, che sembra ricalcare la scena iniziale di Amleto, e testimonia comunque il disinvolto impiego di registri antinomici, tipicità

della scrittura vasariana.

Se è vero che il dialogo, a differenza del testo di Fillia sopra esaminato, è indiscutibilmente il livello dominante, agendo da motore dello sviluppo narrativo, tramite esplicito di un teatro della riflessione (come del resto si può dire per buona parte della drammaturgia marinettiana degli anni Venti), è vero altresì che l'addensarsi di un impianto visivo (e visionario), che trae forza da uno scientismo creativo e da un gusto che diremmo oggi fantascientifico, tende

a esaltare il «valore estetico dell'organizzazione tecnologica»560.

Nel dramma coesiste una triplice forma di scrittura: il linguaggio letterario-filosofico dei dialoghi, enfatica mescidanza di accenti dannunziani e accensioni futur-espressioniste561; l'azione gestuale, riversata nelle sintetiche ma decisive didascalie, insieme alle espressioni fisionomiche e fisiologiche dei personaggi; infine, come detto, la prefigurazione di un'ambientazione "fantascientifica", che produce una sorta di anticipazione mitologizzante della tecnologia industriale, dei suoi prodotti e dei suoi panorami.

L'operazione di Vasari, «potenziando tutti gli indici di spettacolarità

della perfomance»562, è dunque pienamente inserita nel quadro di riteatralizzazione del teatro che abbiamo visto, e che transita inevitabilmente attraverso un sostanziale consolidamento dello spessore e della struttura del testo drammatico. Peraltro, le dichiarazioni vasariane mostrano una consapevolezza non superficiale delle dinamiche produttive: da un lato, affermando tautologicamente che «Teatro è teatro»563 e dichiarando di costruire un «teatro per gli occhi»564, l'autore siciliano afferma la primarietà del dato visivo («l'arte del teatro consiste nel far vedere più che nel far intendere»565); dall'altro, è convinto della necessità di far convergere nella scrittura drammaturgica potenzialità non ancora tentate che ingiungono all'autore di pensare «all'attore e alle sue manifestazioni psichiche e fisiche, allo spazio scenico dove esso lavora col proprio volume, al ritmo, al costume e a tanti altri molteplici elementi scenici che formano l'atmosfera teatrale»566.

È una posizione teorica di cui non esitiamo a riconoscere la modernità, in misura ancor maggiore perché affiancata da una sensibile coscienza dello "scollamento" tra pagina e scena di cui abbiamo discusso in precedenza; divaricazione che porta il progetto vasariano all'accettazione di qualsivoglia mezzo sia adatto a realizzare un effetto ipotizzato dall'autore: nelle pagine di Vasari il rispetto delle funzioni e dei ruoli inquadrati nelle fasi dell'esecuzione scenica è espresso con termini e argomentazioni sorprendentemente allineati con le postazioni ideologiche che marcano questa fase del Novecento e le successive acquisizioni della teoria semiologica. Si legga ancora un passaggio dal citato intervento:



[.] quando il lavoro è stato scritto sul serio per il teatro, interviene allora il maestro di scena (régisseur) che pensa a dargli la forma scenica. L'opera da incompleta diventa completa perché il maestro di scena ha le sue norme per interpretarla secondo una visione sua personale ed originale. Il maestro di scena non è quindi un subordinato all'autore, ma un collaboratore di prim'ordine. Teatralmente parlando, in uno spettacolo (qui qualcuno griderà allo scandalo!)

due sono gli autori e di pari merito: il poeta e il maestro di scena567.

La nota dell'autore che accompagna la stesura del dramma sintetizza quanto appena detto:



Non ho voluto dilungarmi nello sviluppo del commento scenico perché sono sempre stato convinto che ad un maestro di scena, degno di questo nome, bisogna solamente dare l'idea principale della rappresentazione. Egli saprà creare tutti i particolari secondo le esigenze dello spettacolo e secondo le possibilità che offre il palcoscenico568;



ma contiene anche alcune prescrizioni che possono e debbono leggersi a tutti gli effetti come didascalie utili a completare le indicazioni sceniche del testo originale. Ne riporto un altro lungo estratto per non diluirne l'essenzialità con una parafrasi:



Questo spettacolo non ammette alcuna interpretazione, come comunemente dicesi, STILIZZATA e tanto meno naturalistica. La voce degli attori deve essere deformata in modo da dare l'impressione che siano degli uomini a parlare, ma SUPERMARIONETTE. [.]

Quindi la recitazione dev'essere METALLICA (chiara, precisa, tagliente, rigorosa). Nessuna enfasi, nessuna declamazione, nessun pathos. La mimica dev'essere marionettizzata, meccanica e specialmente per i "Condannati alle macchine" che sono semplici automi. [.]

Alla fantasia dello scenarchitetto la creazione delle scene e dei costumi. Intendo però che ogni attore porti una maschera più o meno mobile con varia sovrapposizione di elementi plastici. [.]

Ad ogni modo i "Condannati alle macchine" si muoveranno stilizzando e sintetizzando i movimenti delle macchine (Esempi: volano di un motore, andirivieni di stantuffi, battere dei magli ecc.)569



In definitiva Vasari recupera intendimenti teorico-pratici da Craig (la supermarionetta come mezzo per determinare non già una "stilizzazione", ma una disumanizzazione del personaggio, successiva al dissolvimento di ogni

qualifica naturalistica570), da Bragaglia (l'uso della maschera mobile, in grado di sottrarre espressività alla mimica facciale costruendo una fisionomia depsicologizzata), e da Prampolini (il riconoscimento del ruolo decisivo dello scenarchitetto, affidatario delle scene e dei costumi, nonché del coordinamento complessivo).

La pièce è ancora inedita quando Fred Antoine Angermayer, drammaturgo autore di Raumsturz, ne prepara una traduzione in tedesco per una messinscena da allestire durante la prima stagione del Dramatisches Theater di Berlino diretto da Wilhelm Dieterle571. Per la configurazione scenica del dramma Vasari aveva sicuramente pensato come prima scelta a Enrico Prampolini, visto che sulla copertina di La mascherata degli impotenti, silloge

di Sintesi stampata nell'agosto del 1923 (per le Edizioni «Noi»), possiamo leggere: «Di prossima pubblicazione: L'angoscia delle macchine - Sintesi teatrale futurista in 4 tempi. Scene di Enrico Prampolini»572.

È verosimile che sia stato messo in cantiere un allestimento per il teatro degli Indipendenti di Bragaglia con le scene di Ivo Pannaggi573; tuttavia, per la programmata messinscena berlinese del 1924, Vasari sceglie come designer

Vera Idelson, una giovane pittrice russa, allieva di Tairov, con la quale si era legato a Berlino e aveva già collaborato in occasione della messinscena di un paio di sintesi teatrali a Capri574.

Gli studi per i costumi e i progetti scenici della Idelson vengono pubblicati nel gennaio del 1925 sulla rivista «Der Sturm», ottenendo riscontri più che positivi da parte della critica e degli artisti che costituiscono il bacino di lettori della rivista, giacente nell'alveo dell'espressionismo berlinese575. Accompagnano i disegni della Idelson alcuni frammenti del testo, tradotti in tedesco da Lilly Nevinny, pseudonimo sotto il quale si celano Iwan Goll e da Else Hadwiger576.

I costumi ideati da Vera Idelson, costruzioni tridimensionali fatte di cartone, cuoio e stoffa, inscatolano gli attori manifestando vistosamente l'opprimente simbiosi con la macchina. Modelli di riferimento sono indubbiamente i costumi di Picasso per il balletto Parade577, i Balli Plastici di Depero e l'architettura costruttivista per il Triadische Ballet di Schlemmer578. La rigidezza dell'abito è direttamente proporzionale al grado di meccanizzazione del personaggio, tanto che Tonchir e Lipa conservano la loro apparenza umana attraverso abiti sottili e mobili.

Lo scenario combina invece volumi astratti e schermi di forma irregolare con parti meccaniche concrete ed elementi prelevati da fabbriche e laboratori. Nel primo atto l'osservatorio dell'Uomo della cabina ha la forma di

un enorme pinnacolo obliquo che torreggia al centro della scena, dominandola e riecheggiando il Monumento alla Terza Internazionale progettato da Tatlin nel 1920 (fig. 2a). Un insieme di cavi e di terrazze collegate da rampe di scale unisce l'edificio allo spazio circostante. L'intasamento dello spazio e l'uso del grigio metallico come colore dominante associano lo scenario a un panorama industriale, insieme con il rosso acceso che riportava alla fusione del metallo nella fornace579.

Il laboratorio di Tonchir, ove è ambientato il secondo atto, è suggerito, come in didascalia, da un banco di lavoro ingombro collocato sulla sinistra. L'intensa attività del regno delle macchine, comunicata dai «vivi bagliori rossi»580 che accendono le finestre, è risolta dalla Idelson con la ripartizione dello spazio, che sulla destra, oltre una serie di paraventi, appare immerso nella penombra.

La scena del terzo atto, dominata, secondo la didascalia, dalla Macchina-cervello, è interpretata dalla Idelson come un'architettura elettromeccanica, i cui elementi plastici cinerei e le cui superfici inclinate anticipano il rovinoso epilogo in maniera molto più tangibile rispetto al rigoroso sintetismo grafico dei bozzetti realizzati per il dramma da Pannaggi581.

Fallito il progetto Angermayer per il Dramatisches Theater, il testo è trasmesso nell'estate del 1925 alla radio tedesca, evento da cui scaturisce un nuovo contratto, questa volta firmato con la Volksbühne, per una produzione diretta da Karl Vogt, che ne era il "maestro di scena"582. Prima ancora di ricevere una rappresentazione integrale sulle scene, il testo può contare su numerose traduzioni nelle maggiori lingue europee583.

Vogt pensa di riutilizzare il setting della Idelson approntandone però una versione bidimensionale, schematizzando i costumi e abbandonando la scena costruita prevista dall'artista. Sfortunatamente anche questa ipotesi sfuma a causa della prematura chiusura della Volksbühne. Si trattava peraltro

di una semplificazione che rinunciava a molti degli elementi figurativi su cui si incardina la relazione conflittuale tra uomo e macchina. In proposito ha ragione Giovanni Lista, a cui si deve l'analisi più completa della messinscena, nell'evidenziare una sostanziale discrepanza tra l'orientamento ideologico del dramma e la soluzione estetica adottata per la produzione berlinese584.

Quando il testo vasariano trovò, finalmente, l'opportunità di darsi come performance, questa contraddizione fu in parte risolta. Dinanzi a una platea che riunisce alcuni dei maggiori rappresentanti dell'avanguardia internazionale, L'Angoscia delle macchine debutta il 27 aprile 1927 per opera di Edouard Autant, fondatore e direttore dell'Art et Action Group, già interessato ad altri

progetti futuristi antecedenti585.

A dirigere la rappresentazione è Marie Louise Van Veen, regista del gruppo avanguardista L'Assaut, la quale rimaneggia il testo enfatizzando il ritmo del dialogo secondo uno schema dinamico molto particolare, giocato sulla scomposizione sillabica e sulla ripetizione586; e assegna a ciascun personaggio un registro vocale differente, desumendolo dalla rumorografia industriale (pistoni, alberi, motori, dinamo ecc.).

«Nella messinscena del Laboratoire Art et Action di L'angoscia delle macchine gli attori spezzettano il testo delle loro battute secondo il ritmo particolare di certe macchine»587. L'indicazione, non presente nel testo

vasariano, sembra desunta dal Manifesto della Declamazione dinamica e sinottica in cui Marinetti chiedeva di «metallizzare, liquefare, vegetalizzare, pietrificare» la voce, accordandola a strumenti onomatopeici e a una gesticolazione «geometrica» e «disegnante»588.

Vasari, opponendosi all'opinione di Marinetti che voleva Pannaggi come scenografo, insiste per coinvolgere Vera Idelson, pur apprezzando i bozzetti del pittore marchigiano589. Le soluzioni costumistiche della Idelson sono ridotte alla bidimensionalità di profili geometrici astratti e rigidi, concepiti come schermi dotati di elementi mobili. Ridotti cioè a silhouette, gli abiti (realizzati con cartone, legno, alluminio e stoffa) possono spostarsi solo in parallelo al fondale, muovendosi per mezzo di cerniere590. Anche in questo caso, le sole eccezioni sono date dagli abiti di Tonchir e Lipa. Peraltro, «la meccanizzazione dell'uomo è ancora accentuata dai costumi di Vera Idelson, dalle forme e dai colori metallici, che trasformano i "Condannati alle macchine" in veri e propri robot»591.

Come riassume Lista «gli attori azionavano posteriormente gli schermi muovendone con ritmi diversi, ma solo sul piano frontale, gli elementi ruotanti. Il cinetismo plastico dello spettacolo rendeva la scena intera simile ad una gigantesca macchina degli ingranaggi in movimento»592.

La forza scenica del dramma, massimizzata da una messinscena oggettuale ma allucinata, conclude Plassard, è «l'integrazione completa nel personaggio nell'ambiente, la sua quasi disparizione, tanto che non sembra più essere che una delle ruote del vasto ingranaggio scenico, un pezzo non più importante di qualsiasi altro in una macchina allargata alle dimensioni del

mondo»593. Come si legge in «L'Impero» del 9 agosto 1927:



Il maestro di scena Van Veen e lo scenarchitetto Idelson si rivelarono infatti superiori alla loro fama. Van Veen presentò il dramma in una cornice e

atmosfera completamente astratte. La voce degli attori era deformata in modo da dare l'impressione che non erano uomini a parlare, ma supermarionette. [] Recitazione metallica precisa tagliente. Nessuna enfasi, nessuna declamazione, nessun pathos. Anche la mimica marionettizzata fu di grande effetto. Creò le scene e i costumi lo scenarchitetto russo V. Idelson. La scena si presentò come una combinazione di elementi plastici differenti, per dare la massima varietà di luce, e piani bidimensionali dipinti. Colori dominanti: nero e argento. Gli attori erano nascosti dietro costumi rigidi bidimensionali, parte integrante del dinamismo costruttivo dell'insieme, che muovevano solo alcune parti senza riferimento a nessuna delle parti del corpo. [] Senza alcun dubbio questo allestimento scenico è uno dei più interessanti e complessi che siano apparsi in questi ultimi tempi. Il pubblico, nella maggioranza internazionale, che affollava il teatro fino all'inverosimile, applaudì entusiasticamente ogni atto e alla fine chiamò ripetutamente alla ribalta autore ed interpreti. Il successo dello spettacolo

fu netto e clamoroso594.



L'articolo anonimo, visibilmente ispirato dallo stesso Vasari, può forse dirsi l'interpretazione "ufficiale" data dall'autore alla sua creazione. In un'altra recensione apparsa il 19 agosto 1927 in «La Gazzetta di Messina», firmata da Giuseppe Mazzesi, si ha un resoconto più dettagliato:



Il velario si apre. Ecco il regno freddo e spaventoso della macchina, del mondo meccanizzato, tagliente, preciso, di un freddo disumano, donde è esclusa ogni umanità. Lo scenarchitetto Idelson ha costruito la scena con forme semi-astratte, geometriche concentriche, il cui tono dominante è il grigio-argento Ecco gli attori che incominciano a parlare. I loro corpi sono chiusi in costumi rigidi di latta, cartone e tela dipinta, che fanno parte del dinamismo costruttivo dell'insieme. Essi parlano con voce deformata. La recitazione è metallica: ogni enfasi, ogni pathos, ogni declamazione sono esclusi [] Siamo al secondo tempo: il breve soliloquio di Tonchir, il creatore di questo meraviglioso mondo fantastico, che vive fino allo spasimo il contrasto angoscioso della sua anima meccanizzata eppure umanissima. Il dialogo astrale delle sue anime ci avvolge in un'atmosfera metafisica. Qui Vasari si rivela più poeta che drammaturgo. L'azione è tutta concentrata nei movimenti ritmici delle tre ombre, le implacabili accusatrici dell'eroe, che infrante le leggi naturali ed umane, voleva assurgere a

Dio. E Tonchir, privo della possibilità di potere riconquistare la sua statura umana, cade in preda al Destino. Chiude l'atto una musica-sintesi travolgente delle macchine moltiplicate595.



Nel susseguirsi delle traduzioni e delle proposte estetiche che abbiamo qui riassunto, il testo vasariano denota da un lato la compresenza di livelli drammaturgici uniti a formare un complesso universo ideologico; d'altra parte, le deviazioni e riconfigurazioni del progetto scenografico, implicitamente poste come punto di riferimento per le successive messinscene, portano con sé trasformazioni del testo e viceversa596.

Come abbiamo visto Vasari concede la massima libertà interpretativa agli esecutori scenici. Su un aspetto tuttavia si mostra più intransigente, vale a dire l'impiego della musica futurista - quella di Silvio Mix e quella prodotta dagli intonarumori di Russolo - ritenuta determinante per lo schema ritmico e l'atmosfera scenica.

Alterando il progetto originario, la partitura di Silvio Mix pensata per il testo fu sostituita nella messinscena del 1927 da una polifonia di effetti rumoristici ideata da Eduard Autant (che dirigeva anche il piano luci) e Carol Berard. Un'orchestra di intonarumori, macchine e strumenti metallici fu suonata direttamente dai coniugi Autant-Lara nascosti dietro il palcoscenico. L'estrema stilizzazione dell'apparato scenico disegnato da Vera Idelson fu forse determinante nella scelta di Autant, secondo un principio di "mimesi

fonica": l'organico tradizionale previsto dal compositore triestino597 lasciò il posto a uno spartito che, tra intonarumori e voci recitanti, richiedeva nove esecutori.

Stranamente, nel ricordare la "prima" parigina, Vasari non fa parola della sostituzione della partitura di Mix con la partitura rumorista di Edouard Autant, gelosamente custodita da Giovanni Lista598. Tuttavia, nel manoscritto pubblicato da Verdone è contenuta una nota introduttiva in cui Vasari ribadisce il ruolo dei "commenti sinfonici" di Mix - composti a cavallo tra il 1925 e il

1926 - all'interno del lavoro teatrale: «Lo spettacolo, per risultare più suggestivo e artisticamente completo, dev'essere accompagnato ai Commenti sinfonici di Silvio Mix (op. 76) che sono di facile esecuzione e non richiedono che una piccola orchestra»599.

Se le sonorità monocordi dei generatori acustici di Russolo sono già contenute nelle indicazioni sceniche (così la Macchina comunica i primi segni della sua follia: «Fili che s'arroventano e si fondono. Gorgolii. Stridori. Scricchiolii. Crepitii. Rantoli»600), è opportuno soffermarsi sul lavoro di Mix perché fornisce più di una indicazione sul progetto originario di Vasari. L'intermittente commento musicale scritto dal compositore triestino si legge

infatti come fosse una didascalia che inietta nel testo drammatico tracce mnestiche, episodi aforistici ed energiche modulazioni poliritmiche. Specialmente il sesto commento, che Bianchi considera una pagina «di straordinario interesse»601, appare formato da insoliti, imponenti e seminali tracciati sonori, in linea con la corrente sperimentale del Novecento.

Siamo all'ultima pagina del dramma. Morto Tonchir, la catastrofe è vicina: «II Pantomima. Compaiono i Condannati e mimano. La Macchina- cervello freme, stride. Barbagli che s'intensificano. I Condannati si agitano convulsamente, gesticolano, mugolano», annuncia la didascalia, dando avvio al Commento n. 6. Qui «note sincopate insistite nelle diverse famiglie di strumenti suggeriscono la monotona meccanicità dei condannati alle macchine»602. Mix inserisce «due sirene meccaniche», che «debbono essere collocate in due punti differenti del palcoscenico»603 (dando luogo a un'elementare sovrapposizione politonale) e soprattutto introduce, con programmato calcolo, molecole di linguaggio "microtonale" (per metà dei violini e delle viole «deve essere alterata l'accordatura di mezzo tono sotto agli altri archi»)604. L'effetto di dissonanza, o xenarmonia, surroga, nelle intenzioni di Mix e di Vasari, la complessità di una recitazione deviata,

prossima al collasso. Quando le macchine, infine, intoneranno «un canto angoscioso, lugubre, straziante»605, le sirene concluderanno in un «fortissimo»

il settimo e ultimo commento (fig. 2b).






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