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La sagra del signore della nave di luigi pirandello




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LA SAGRA DEL SIGNORE DELLA NAVE DI LUIGI PIRANDELLO



Il caso di La sagra del Signore della Nave, l'atto unico di Pirandello che doveva darsi come spettacolo inaugurale del Teatro del Convegno329, dimostra quanto fosse determinante la configurazione degli spazi scenici. Con

le sue 120 comparse e l'imprescindibile sconfinamento della scena in platea - le due zone collegate per mezzo di un pontile - la Sagra pirandelliana risultò irrappresentabile per la saletta milanese di Enzo Ferrieri: «Impedimenti sorti per ragioni di pubblica sicurezza - a causa dei ponti che si sono dovuti costruire per il passaggio della processione e per l'agglomerato delle comparse in un teatro di dimensioni limitate - ne hanno vietata la rappresentazione»330.

Non dissimile dal teatro milanese per dimensioni e conformazione, l'Odescalchi, grazie alla sua attrezzatura (e alle protezioni di cui godeva), poté consentire una realizzazione confacente ai desiderata del suo autore, espressi nelle corposissime didascalie. Estese fino a occupare quasi la metà del testo complessivo, queste individuano tempi di durata, modificazioni della situazione luminosa, vibranti transizioni sonore, spostamenti di masse e ritratti essenziali, sapidissimi, dalla potente e grottesca incisività (più di venti personaggi ricevono almeno una caratterizzazione fisionomica o

costumistica)331.

Di fatto, la Sagra (che ebbe il suo debutto il 2 aprile 1925332) rende evidente il processo con il quale Pirandello trascorre, nel corso degli anni Venti, da una scrittura drammatica ancora non del tutto sollevata dalle convenzioni naturalistiche a una scrittura scenica che converge decisamente

sull'operatività teatrale333. Fin dalla prima didascalia infatti, e in assoluta autonomia rispetto alla novella334, è prevista la rottura della staticità paradigmatica dell'estensione palco-platea. Ciò avviene - come giustamente segnala Alonge335 - per la prima volta in Pirandello, e in ogni caso prima dell'edizione del 1925 dei Sei personaggi336:



Per la rappresentazione di questa Sagra sarà necessario predisporre un congiungimento del palcoscenico con la sala del teatro. Appena gli spettatori di buono stomaco avranno preso posto, un ponticello di passaggio alto circa due palmi e mezzo si drizzerà, all'alzarsi del sipario, lungo il corridojo tra le due ali delle poltrone, mediante un congegno meccanico che potrà così drizzarlo come tenerlo appiattito al suolo. E la varia gente che si recherà alla festa, signori e popolani, beghine e miracolati del Signore della Nave, venditori d'ogni mercanzia, sonatori ambulanti, contadini, ecc., entreranno dalla porta d'ingresso nella sala, alle spalle degli spettatori; traverseranno su quel ponticello il corridojo e saliranno sul palcoscenico, che rappresenterà una parte dello spiazzo davanti la chiesetta di campagna337.



Proprio la sua spiccata qualità figurativa cagionò alla trascrizione drammaturgica della Sagra non poche critiche: Tilgher, in particolare, la giudicò «debole alla lettura, e non certo tale da reggere il paragone con la fortissima e atroce novella donde è tratta»338; un difetto di intensità che noterà anche Camilleri, per il quale «la trascrizione scenica pare [.] perdersi in una

specie di affollato grigiore, come se la coralità soffocasse ogni possibile respiro e spazio drammatico»339. Ma lo stesso Camilleri ne indovina il motivo ricordando come il testo fosse per Pirandello un copione «ad usum regiae, della sua regia», destinato a uno spazio, quello del Teatro d'Arte, da lui pensato e predisposto. Quanto alle didascalie, che per Alvaro "congestionavano" il testo340, D'Amico sembrava comprendere acutamente che il dramma «di certo è stato concepito e steso soprattutto in vista dell'integrazione scenica»341. Qualità che spiega anche l'insolita accuratezza con la quale le cronache riferirono degli elementi della messinscena. Tra queste, proprio quella di Corrado Alvaro, acutamente commentata da Alfredo Barbina, è tra le più puntuali342: se è vero, come nota Barbina, che la messinscena della Sagra

«permetteva, anzi postulava un'analisi attenta e precisa delle varie componenti dello spettacolo»343, è vero altresì che tale prerogativa nasce dalla natura composita e dinamica della progettazione drammaturgica.

Quando Alvaro si sofferma sull'articolato disegno delle luci, affidato a una serie di riflettori a resistenza e a cinque toni - «come un bagno di colore nel quale è tuffato il palcoscenico» - garanzia di effetti di distanza e di vicinanza sorprendenti344, ritroviamo la medesima precisione con la quale Pirandello ferma, nelle didascalie, il graduale trascorrere dei riflessi luminosi sugli oggetti di scena, il modificarsi del "clima scenico" e del cielo autunnale:

«Sulle tovaglie e su questa rustica suppellettile da tavola si rifletterà la luce dorata del pomeriggio autunnale ancor caldo; a mano a mano la luce si farà rossa, d'un rosso di fiamma viva, e infine violetta e fumosa»345.

Siamo qui nella taverna dove il corpulento signor Lavaccara discute con

"il giovane pedagogo", maestro del figlio, in merito alla presunta intelligenza degli animali. Il contesto è quello della festività in onore del Signore della Nave, ossia il Cristo che protegge i marinai salvandoli dalla «mala morte»346. Ma la ricorrenza sacra si combina a un altro avvenimento rituale, dotato di una sacralità di tipo diverso, ma altrettanto intensa: la macellazione del maiale, consuetudine carica di tratti primitivi e folclorici. Proprio dalla cerimonia della "scanna", a cui il signor Lavaccara ha destinato il proprio animale, salvo poi pentirsene, trae origine la conversazione con il giovane insegnante, convinto della superiorità dell'uomo sulla bestia dovuta al dono divino della ragione.

Nel frattempo, mentre la più varia umanità popolare - composta di venditori, marinai, paesani ubriachi, prostitute, imbonitori - si abbandona ad un'orgia collettiva di sfrenata vitalità, che sembrerebbe confermare la tesi di un intelletto non più raffinato di quello delle bestie, la processione compie il suo percorso, riconducendo infine l'intero paese al pentimento, alla prostrazione e ad un sentimento di angosciosa colpevolezza, in una tragicomica fusione di

registri347. L'uso teatrale di una festa popolare poteva su contare su un buon

numero di recenti precedenti348 ma l'arrivo in sala, con precise indicazioni a Marchi circa l'effetto di contiguità fisica da raggiungere estendendo un ponte a mo' di «sentieruolo scorciatoio», è una novità della Sagra, con la quale si determina non solo il coinvolgimento spaziale del pubblico, ma la sua immanenza: con l'azione che tracima dalla zona del palcoscenico, debordando nella platea, allo spettatore è impedito di sentirsi emotivamente estraneo349.

L'aspetto contrastivo con il quale il dramma lascia che si avvicendino la cerimonia cristiana e quella laica e "pagana" genera un gioco degli opposti che si distende dialetticamente, a cominciare dal sovrapporsi dei due luoghi simbolici, la taverna e la chiesa. Il contrasto è rimarcato e raddoppiato da una massiccia provocazione sensoriale. Quando ad esempio la taverna sarà invasa

da un indescrivibile frastuono, intreccio di grida e bestiali scempiaggini, una didascalia sottolinea che dalla chiesa, appena percepibile, verrà «un lento coro nasale accompagnato dall'organo»350. L'organo e il coro, come un suadente richiamo o un avvertimento, condurranno infine la folla alla contrizione; ma, prima, la degradazione umana sarà segnalata da un simbolico antagonismo cromatico che ci fa tornare a parlare di luce psicologica. Durante la rissa che esplode nella taverna, un tumulto che ha più di un punto di innesco, Pirandello prescrive che «la luce, a questo punto, sarà di fiamma sulla scena»351. Quasi contemporaneamente, col primo rintocco della campana della chiesa, la luce all'esterno, sempre secondo le indicazioni del drammaturgo, «come per un improvviso tracollo del sole, da rossa si farà violetta»352. L'ispirazione biblica è evidente: in quella che può dirsi l'ora del giudizio, al rosso che simboleggia le riposte pulsioni dell'Io si opporrà il viola, il colore dell'Avvento e della Quaresima, ma soprattutto simbolo di penitenza (la teoria dei colori di Goethe voleva il viola ispiratore di scenari apocalittici e atmosfere umbratili).

A questo punto la reviviscenza di una coscienza prima sopraffatta dalla bestialità dell'istinto riaccende nell'uomo il timore ispirato dalla Morte e dai suoi simboli: il «grande macabro crocefisso insanguinato», sorretto da un

«altissimo prete spettrale» a sua volta accompagnato da «due chierici anch'essi spettrali» che si tengono ai lati del canonico.

Nel rallentamento che segue la climax appena descritta, Pirandello inserisce l'ultima indicazione, indugiando sulle reazioni della folla; atterrita dalle proprie stesse abiezioni, s'incammina in processione (dovendo attraversare il palco e poi, per il ponticello, la sala), vacillando e mugolando dietro l'effige del Redentore: «Molti andranno barcollanti e non cesseranno di picchiarsi il petto e di piangere e di gemere a mano a mano più forte, altri, non riuscendo a levarsi in piedi, resteranno accosciati sul palcoscenico come

bestie ferite, barbugliando»353.

Gli accadimenti si dividono simultaneamente la scena, valendosi della complementarietà/opposizione dei segni. Lo stesso processo si manifesta nella natura dei personaggi, adombrata nei dettagli fisionomici: paradigmatico in tal senso l'umoristico diverbio tra il raziocinante Pedagogo, «magro, pallido e biondo, vestito di nero: spirante»354, che non mangia «carne mai» e che sostiene la superiore intelligenza dell'uomo sugli animali, e il rotondo Signor

Lavaccara (si noti, inevitabilmente, il dettaglio onomastico che incorpora nel cognome il nome di un altro animale), il quale si permette, invece, il lusso di mangiare con ingordigia355.

Oltre al capofamiglia, «provvisto d'una enorme rosea prosperità di carne che gli tremola addosso»356, la famiglia Lavaccara è composta da altre tre persone (erano in tutto sei nella novella): il figlio di Saverio Lavaccara non può che essere «un majalotto vestito alla marinara» al quale «la golosità [] accende gli occhi»; la figlia, invece, «in abito di divota della madonna Addolorata [], alta magra gialla [.] con gli occhi torbidi e grandi»357, esternerà i suoi sentenziosi contrappunti alla voracità del padre e del fratello

«con ambigua voce da maschio»358. Un "ritratto di famiglia" a proposito del

quale Aldo Vallone evidenzia l'attenzione «del narratore-ritrattista» rivolta «in modo congiunto, ai particolari e all'insieme, con un impegno ben più complesso di quello che si suole rivolgere alle semplici didascalie»359. Prosegue Vallone: «Accade che il bozzetto-ritratto fisico, nell'ambito della stessa didascalia, si congiunge e si integra con l'ambiente e con il ritratto morale. Allora la pagina si distende, i colori si precisano in ogni particolare, i motivi circolano come in un vero e proprio squarcio da novella: il ritratto di per

sé vale una situazione, crea una vicenda, esprime appieno un gusto della narrazione»360.

Ma più che il gusto della narrazione siamo portati a evidenziare ancora una volta il discorso visivo che caratterizza l'intera pièce, l'eccezionale sviluppo coreografico, i violenti effetti coloristici e sonori. Attributi che si rivelano anche nei costumi, sempre dotati di una connotazione cromatica e materica e anch'essi rivelatori di una condizione sociale e psichica. Alla resa

documentaria, che porta il nero del lutto e l'azzurro (nella tradizione del presepe siciliano) ad essere i colori dominanti, si aggiunge così un prezioso valore simbolico. Sicché la «giacca nuova di stoffa turchina» e i «calzoni di tela bianca» indossati da Lavaccara sono segno probabilmente di una inopportuna pretesa di eleganza, come la sudicia mise dell'Avvocato e del Notaio e la «pomposa goffaggine» delle mogli sono indizio di una dissimulata degradazione morale.

La missione di concretare in evidenza le didascalie pirandelliane fu affidata a Cipriano Efisio Oppo, per quel che riguarda la parte del décor, e a Virgilio Marchi per l'architettura scenica e scenotecnica.

Dell'impianto scenografico di Oppo - descritto da D'Amico come «uno dei più vasti quadri che ci sia stato dato di contemplare fino ad oggi»361 - faceva parte un sipario che rappresentava, come un ex-voto, Cristo che salva una barchetta dalla tempesta362. Come fondale il pittore romano aveva invece disegnato «il bozzetto d'un bello e acceso scenario, una piazza di paese siciliano con nel fondo l'ardore d'una grande chiesa rossa», ma per ragioni di spazio fu costretto a sostituirlo all'ultimo momento con «un altro scenario stilizzato con qualche viva notazione ironica (pupazzi alle finestre), squadernandoci davanti agli occhi le mura bianche della piazza riarse sotto il sole, i colori delle baracchette da fiera, nascondendo e supponendo la chiesa, e affidandosi al gioco delle luci per variare il tutto coi contrasti tra cielo e cose nell'ora del tramonto»363.

Unita ai costumi e al severo crocefisso ligneo (realizzato dallo scultore romano Alfredo Biagini) la decorazione poteva apparire leggera, forse poco intonata al registro popolaresco, schietto e scabroso del dramma; nondimeno dimostra da un altro punto di vista come Pirandello fosse non solo al passo con i ritrovati registici364, ma anche al corrente dei sentieri artistici intrapresi dall'avanguardia europea. Sicché le figurine affacciate alla finestra della tela di

Oppo portano qualcosa del realismo russo di un Sudeikin; ritratti come quello del «vecchio lungo lungo, dalla faccia inteschiata, spettrale e sorridente [.] con un'antica finanziera inverdita e corta di maniche»365 o quello della

«donnaccia, di sconcia grassezza e violentemente imbellettata»366 sembrano

richiamare certi personaggi delle tele di Egon Schiele o di George Grosz.

Infine, l'epilogo del dramma, con la massa umana che invade freneticamente la scena agitandosi scompostamente, prima di immobilizzarsi «in miserabili atteggiamenti sguajati, cangiando le urla in un bestiale affanno di pianto, in una mugolante ànsima di contrizione»367, non può non ricordare la celeberrima Entrata di Cristo a Bruxelles di James Ensor, in cui il passaggio trionfale del figlio di Dio è accolto da un rutilante spettacolo di maschere abnormi368.

Senz'altro tale densità visiva, che satura ogni angolo dello spazio, portò Luigi Squarzina a definire «strindberghiane/espressionistiche»369 le didascalie della Sagra, poiché mirate a contorcere i valori somatotipici con un effetto di "sconciatura" grottesca, riconducendovi le prove della latente abiezione umana370.

Osservando la fotografia che immortala la scena finale, con la folla che si prostra al passaggio del crocefisso, e che rende chiaro l'assiepamento dei personaggi, pur nella limitata profondità del palcoscenico371, ci è chiara la consegna dell'ultima indicazione scenica, con la quale Pirandello «travolge le essenze naturali delle necessità dialogiche, ne annulla gli effetti ipostatici»372 (fig. 1a):



D'un tratto, cupo enorme solenne, s'udrà dall'alto un rintocco di campana, e subito, come per un improvviso tracollo del sole, la luce, da rossa, si farà violetta. Tutti, come atterriti, taceranno, in miserabili atteggiamenti sguajati, cangiando le urla in un bestiale affanno di pianto, in una mugolante ànsima di contrizione. Altri tremendi rintocchi s'udranno intanto, a cui dalla chiesa risponderà il rombo dell'organo e il coro dei divoti: e dal portale della chiesa

apparirà, spettrale, un altissimo prete in cappa e stola, che reggerà alto con tutt'e due le braccia il Signore della Nave: grande macabro Crocefisso insanguinato. Due chierici, anch'essi spettrali, gli staranno ai lati; altri due, inginocchiati davanti, agiteranno i turiboli; tutta la folla, sempre ansimando, gemendo, mugolando, cadrà in ginocchio e si darà pugni rintronanti sul petto.

Il prete lentamente scenderà la cordonata, seguito dai divoti oranti e da altri chierici che recheranno alti su neri bastoncelli dei lampioncini accesi, e aprirà la processione, attraversando il palcoscenico e poi sul ponticello la sala. Dietro al Crocefisso molti andranno barcollanti e non cesseranno di picchiarsi il petto e di piangere e di gemere a mano a mano più forte; altri, non riuscendo a levarsi in piedi, resteranno accosciati sul palcoscenico come bestie ferite, barbugliando: «Mea culpa! Mea culpa! Cristo, perdonaci! Cristo, pietà!». Allora il giovane pedagogo, rimasto col signor Lavaccara sul palcoscenico, tutti e due come basiti, si leverà gradatamente e additando al compagno la tragica processione, dirà:

IL GIOVANE PEDAGOGO: No, no, vede? piangono, piangono! Si sono ubriacati, si sono imbestiati; ma eccoli qua ora che piangono dietro al loro Cristo insanguinato! E vuole una tragedia più tragedia di questa?

La processione scomparirà dalla sala; cesseranno i rintocchi e cadrà la

Tela373


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