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La fisionomia del tasso poeta: la lirica d'amore e di dolore e il delinearsi dell'"eroe infelice"




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LA FISIONOMIA DEL TASSO POETA: LA LIRICA D'AMORE E DI DOLORE E IL DELINEARSI DELL'"EROE INFELICE"



Il Tasso, benché più conosciuto per il suo poema epico "La Gerusalemme Liberata", fu un lirico dalla produzione ricchissima, si contano infatti oltre duemila componimenti distribuiti durante tutto l'arco della sua attività poetica. Solo dopo il 1850, durante la sua permanenza (che in realtà era più una prigionia) nell'ospedale di Sant'Anna, egli cominciò a raccoglierli raggruppandoli in diverse sezioni secondo il contenuto: le rime d'amore (Amori), le liriche encomiastiche (Laudi ed Encomi), i componimenti religiosi (Cose sacre).

Le Rime del Tasso sono sicuramente il più importante canzoniere cinquecentesco; nonostante gli inevitabili richiami alla tradizione petrarchesca e bembesca, Tasso segna una nuova linea di demarcazione nella storia della letteratura italiana: grazie al linguaggio retoricamente elegante, alla presenza di metafore, personificazioni ed allegorie ricercate, al pathos emotivo ed autobiografico che il poeta sa infondere nei suoi componimenti, il Tasso diventerà per i lirici a lui successivi un punto di riferimento non meno importante di quello che era stato il Petrarca fino ad allora.

Volendo delineare un profilo più preciso possibile della psicologia del Tasso poeta abbiamo analizzato due liriche tratte dalle Rime: un madrigale "Qual rugiada o qual pianto" da Amori, e una canzone "Al Metauro" (rimasta incompiuta, manca infatti il congedo) da Encomi. Abbiamo inoltre effettuato un raffronto con poesie di lirici che furono ispirati dal Tasso: uno è un poeta settecentesco, Foscolo, l'altro un poeta romantico, Leopardi.


Tasso e gli altri lirici da noi esaminati utilizzano il passato e soprattutto il mondo classico come strumenti stilistici all'interno dei loro componimenti.

Ne "Al Metauro" di Tasso, ad esempio, sono evidenti i continui riferimenti al Petrarca, di cui riporta interi versi ("con sospir mi rimembra") v.34, da "Chiare, fresche, e dolci acque", che oltretutto viene ricordata anche in altri componimenti del poeta come "Qual rugiada o qual pianto" e al mondo classico in generale. I riferimenti classici sono abbastanza numerosi ne "Al Metauro": innanzitutto troviamo Penelope (la "sirena" del v.27), la cui tomba, secondo il mito, si trova a Sorrento, e che è ricordata dal poeta come simbolo della sua città natale. Tasso accenna anche ad Ascanio e Camilla (v.40) e li paragona a se stesso: come lui, infatti, i due personaggi hanno dovuto seguire, da piccoli, il padre in lunghe peregrinazioni, fuggendo da Troia e seguendo Enea, nel caso di Ascanio, seguendo Metabo, nel caso di Camilla. La classicità però non è il solo l'elemento caratterizzante di questa canzone: sono infatti presenti modi di esprimersi, tensione poetica, forza ed asprezza di sperimentazioni stilistiche che il Petrarca non conosceva e che sono proprie del Tasso.

Il tema della classicità viene ripreso anche dal Foscolo (che spesso trae spunto dallo stesso Tasso per i suoi componimenti), soprattutto nel sonetto "In morte del fratello Giovanni" dove il poeta riprende più volte parole, espressioni ed immagini sia di poeti latini come Tibullo (v.2,3 "Illius ad tumulum /./supplex /./ sedebo" [II, 6, v.33]), Catullo (v. 1,2 "Multas per gentes et multa per aequora vectus" [CI, v.1]; v. 6 "et multam nequiquam alloquerer cinerem" [CI, v.4]), Virgilio (v. 3,4 "veluti cum flos succisus aratro languescit moriens" [Eneide, XI, vv. 435-436]; v.7 "invalidasque tibi tendens /./ palmas" [Georgiche, IV, v.498]; v. 9,10 "conversaque numina sentio" [Eneide, V, v. 466]), che di un poeta italiano come Petrarca (v.5 "Indi trahendo poi l'antiquo fianco" [Rime, XVI, v.5]; v.12 "questo m'avanza di cotanta speme" [Rime, CCXVIII, v. 32]). Pur essendo pieno di reminescenze classiche, il sonetto risulta comunque originale grazie alla sensibilità del poeta che fa si che queste "citazioni" perdano il loro peso letterario permettendogli di esprimere con eleganza e moderazione emotiva il tormento che lo travaglia. Questi classicismi risultano essere quindi uno strumento linguistico di cui il poeta si serve per esprimere, in modo composto, la propria disperazione e la propria angoscia e per depurare il componimento da ogni eccesso di autobiografismo.

Il motivo della classicità con i suoi valori si ritrova anche in "A Zacinto": innanzitutto la sua isola è nel mare in cui nacque Venere, la dea della bellezza. Inoltre in questa lirica il poeta si identifica sia con Omero, perché come questo è stato cantore dell'esilio di Ulisse, così egli è cantore del proprio esilio, sia con Ulisse stesso, poiché come lui, Foscolo si sente perseguitato dal destino, anche se, al contrario di lui, non potrà tornare a baciare la sua terra.



ALCUNI CENNI BIOGRAFICI, IL TEMA DELL'ESILIO


Torquato Tasso nasce a Sorrento nel 1544. Ancora in tenera età, dopo essere stato strappato alle cure della madre, deve seguire il padre Bernardo in esilio prima a Roma, poi a Bergamo e ad Urbino. Il distacco dalla sua amata Sorrento provoca in lui grande tristezza e il motivo dell'esilio riecheggerà in molte sue opere.
Nel 1565 il Tasso entra alla corte degli Este; i primi anni sono felici, e tale ritrovata tranquillità consente al poeta di terminare la 'Gerusalemme liberata' (1575). Ma Tasso perde ben presto la serenità e comincia a dare segni di esaurimento: la sua principale preoccupazione sono le critiche alla Gerusalemme e il timore che l'opera non venga giudicata ortodossa dalla Chiesa. Rivede lo scritto più volte e lo sottopone due volte spontaneamente al giudizio dell'Inquisizione, che pronuncia due sentenze di assoluzione. Soffrendo di manie di persecuzione e sentendosi spiato inizia un lungo peregrinare in molteplici città Italiane tra le quali Roma, Ferrara, Mantova, Padova, Venezia, Pesaro e Torino, ma nel 1579 è di nuovo a Ferrara; deluso dall'accoglienza degli Este, attacca verbalmente il duca che lo rinchiude in prigione.

Durante i sette anni di prigionia scrive poesie e gran parte dei 'Dialoghi', e difende il suo poema dalle critiche con alcuni scritti apologetici tra cui l' 'Apologia della Gerusalemme' (1585). Nel 1586 l'intervento del Gonzaga porta alla sua scarcerazione e al trasferimento a Mantova, ma ben presto ricomincia a viaggiare.

Nella sua travagliata vita Tasso cerca spesso di trovare delle conferme dei suoi lavori, e cerca quella pace che non sembra arrivare mai.

In "Al Metauro" Torquato fonde in una sola canzone momenti a carattere encomiastico con momenti di profonda ed intensa poesia.

Nei primi versi della prima stanza egli espone il suo desiderio di entrare sotto la protezione dell'Alta Quercia, ossia dei Della Rovere, signori di Urbino, in particolare del duca Francesco Maria; egli chiede aiuto al "grande albero" affinché con i suoi rami lo raccolga e lo protegga dalla cieca dea, la sfortuna che lo perseguita e che lo costringe a continui spostamenti; si può fare perciò un raffronto con la lettera a Francesco Vettori, nella quale Niccolò Machiavelli dichiara con tenacia il proprio desiderio di entrare nelle grazie di Lorenzo dei Medici. Il carattere in questa prima parte è tipicamente encomiastico. Nella seconda stanza ai versi dal 39 al 42, viene riproposto insistentemente il tema dell'esilio: il Tasso racconta la sua condizione di ramingo e povero fin da quando egli da fanciullo ("con mal sicure piante") seguì il padre errante. Da questo passo si può effettuare un confronto con il sonetto di Ugo Foscolo "Né mai più toccherò le sacre sponde", precisamente nei versi 8-9, nei quali Foscolo, esiliato politico richiama alla mente le avventure del grande Ulisse, nel suo viaggio. Tuttavia bisogna fare attenzione poiché Tasso non era ramingo per cause politiche, ma per motivazioni personali, mentre Foscolo era costretto all'esilio, perché Zacinto, sua terra natale, era passata sotto il controllo dell'Austria. Per entrambi i poeti, l'esilio ha una connotazione profondamente negativa poiché li allontana dalla loro terra natale (Sorrento per il Tasso, Zacinto per Foscolo) che essi credono essere l'unico luogo in cui poter trovare la pace (anche se dopo la morte). Interessante è il paragone che Foscolo fa tra se stesso e Ulisse: in questa idea troviamo infatti un altro dei temi fondamentali dell'opera non solo foscoliana, ma anche tassiana: l'ineluttabilità e la crudeltà del destino.



LA FAMIGLIA, LA TERRA NATALE


Strettamente legati al tema dell'esilio sono il tema della terra natale e il tema della famiglia. Nella seconda stanza soprattutto, il poeta parla dei suoi genitori ed esprime tutto il suo dolore per la perdita della madre quando era ancora piccolo (aveva dieci anni), che è morta senza poter rivedere suo figlio e il marito, a causa   del loro peregrinare senza sosta. Al v. 40 il poeta si paragona ad Ascanio e Camilla, in quanto come Ascanio seguì nella fuga il padre Enea, così Tasso seguì il padre nei suoi continui spostamenti. Il padre del tasso, Bernardo Tasso, era segretario del principe di Salerno Ferrante di San Severino: quando il principe fu esiliato per essersi opposto al viceré di Napoli (il quale chiedeva l'introduzione del tribunale dell'Inquisizione), Bernardo lo seguì portandosi dietro il figlio. La madre, intanto, si era ritirata assieme alla figlia Cornelia in convento, dove morì.

Questo tema si può riscontrare anche nel sonetto "In morte del fratello Giovanni", in cui il Foscolo descrive il suo dolore per la morte in giovane età di Giovanni, suo fratello, suicidatosi per un debito di gioco. Anche nella lirica del Foscolo c'è un riferimento alla madre, che, al contrario di quella del Tasso, è viva e sarà costretta dal destino a piangere sulla tomba dei suoi figli.

La lontananza dalla famiglia e quindi dalla terra natale si può riscontrare oltre che ne "Al Metauro" anche nel sonetto del Foscolo "A Zacinto", dove il poeta descrive la sua paura di morire lontano dalla terra in cui è nato.

In tutte e due le liriche, i poeti ricordano la loro terra: ne "Al Metauro", Tasso richiama il paese in cui è nato, Sorrento, e in cui vorrebbe morire. Interessante è l'accostamento dei termini "sepolcro" e "cuna", che sono in forte contrasto in quanto il primo rappresenta la morte e il secondo la nascita.

Il sonetto di Foscolo è invece interamente dedicato all'esaltazione della bellezza e del valore simbolico del luogo di nascita del poeta, l'isola di Zacinto (oggi Zante) e può essere definito un canto d'amore e di rimpianto per la propria terra lontana (l'isola è definita "materna" per sottolineare lo stretto legame che intercorre tra lei e il poeta). Il mito della patria è un tema che Foscolo tratta quasi con intonazione religiosa (vedi v.1 "sacre sponde").

Inoltre, Zacinto per il poeta non è solo un luogo materiale da cui è lontano ma soprattutto un luogo spirituale al quale è legato e verso il quale resta nostalgicamente proteso; la sola evocazione della sua isola fa rivivere in lui tutti i valori e gli ideali più cari alla sua fantasia: il mito e la figura di Venere, simbolo della bellezza dell'armonia e dell'amore; la figura di Omero, simbolo della poesia che eleva ed eterna i sentimenti; la figura di Ulisse simbolo dell'ineluttabilità del fato.



IL FATO AVVERSO


Il Tasso, davanti alle sofferenze della vita quali la sua condizione raminga o la morte dei cari, cerca la causa della sua sventura: il colpevole, per il poeta cinquecentesco, è il destino, un destino che anche nella tradizione greca e latina (esempio ne è l'"Odissea" di Omero) diventa un nemico invincibile che perseguita e non lascia scampo a nessun uomo. Come verrà espresso in questi componimenti, l'unico modo che l'uomo ha per liberarsi da questo macigno che grava su di sé è la morte.

La lirica "Al Metauro", iniziata nell'agosto del 1578 dal Tasso (in quel periodo il poeta era ospite di un amico in una villa vicino al Metauro), vuole essere una richiesta di protezione da parte del duca di Urbino. Protezione da un nemico che non gli da tregua e lo perseguita ogni giorno della sua vita: il destino rappresentato dalla Fortuna ("cieca dea") che gli infligge innumerevoli mali e che quindi sembra tutt'altro che cieca e dalla quale il Tasso non riesce a nascondersi da nessuna parte (".sì ch'io celato sia da quella cruda dea, ch'è cieca e pur mi vede, ben ch'io da lei m'appiatti in monte o in valle").

L'autore chiama la Fortuna "ingiusta" e questo aggettivo riassume benissimo non solo il suo pensiero, ma anche quello degli altri poeti analizzati. Egli infatti, come scrive nei passi 48-51, si domanda perché proprio lui, già pieno di dolori che di per se stessi rendono la sua vita insopportabile, ne debba subire altri senza alcun motivo ("Or che non sono io tanto ricco de' propri guai che basti solo per materia di duolo?").

Anche Foscolo, con le due liriche "Né più mai toccherò le sacre sponde" tratto da "A Zacinto" e "In morte del fratello Giovanni", ripropone i medesimi temi del Tasso.

Foscolo nella prima si paragona all'esule Ulisse che, costretto dal destino ("l'acque fatali"), deve vagare lontano dalla sua terra natale e dalle sue persone care. Tuttavia Foscolo precisa che al contrario dell'eroe greco, egli non ritornerà mai più nella sua terra ed infatti all'ultimo verso intona queste parole: ".a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura" con cui egli esprime tutto il dolore per la sua futura sepoltura che non sarà confortata da lacrime di persone care. Il destino dunque non solo rende la sua vita infernale, ma gli nega anche il diritto di essere sepolto nella sua terra natale.

Nella seconda, l'autore rimarca il fatto che anche il fratello ha dovuto sopportare innumerevoli vicissitudini causate da un fato avverso ("avversi numi"), ma che ora può ritrovare la pace grazie alla morte e anche lui aspetta la sua ora con impazienza ("Sento gli avversi numi, e le secrete cure che al viver furon tempesta, e prego anch'io nel tuo porto quiete").

Le stesse considerazioni vanno fatte per Giacomo Leopardi quando, nei passi della lirica "Ad Angelo Mai" dedicati al Tasso, esprime tutta la sua comprensione per una persona che, come lui, ha dovuto soffrire e piangere a causa della volontà del cielo. Si può riscontrare ciò in alcuni versi dell'estratto da "Ad Angelo Mai": ".O Torquato, o Torquato, a noi l'eccelsa tua mente allora, il pianto a te, non altro preparava il cielo".

Il filo del destino congiunge dunque questi tre autori che, solamente con la morte, hanno potuto finalmente emanciparsi dalle sue indistruttibili catene.



LA MORTE FISICA E SPIRITUALE, LA TOMBA


Ne "Al Metauro" troviamo un riassunto del tormento psicologico del Tasso e una sorta di confessione autobiografica contenente alcuni fra gli accenti più dolorosi della lirica tassiana, come la meditazione sulla fugacità del tempo e sul sentimento della morte. Proprio la personale e profonda espressione di un rapporto travagliato e dolente con il mondo che fa di Tasso un lirico sensibile e intenso, lo farà anche diventare un punto di riferimento per i lirici del Settecento, ma anche dell'Ottocento. Foscolo, infatti, svilupperà dei temi simili a quelli del Tasso e il Leopardi lo considererà addirittura come un fratello spirituale, sentendosi accomunato con lui dall'ingiustizia del Fato.

Ne "Al Metauro" Tasso ricorda la morte della madre e del padre, come fa anche Foscolo (ma riferendosi al fratello) nella lirica "In morte del fratello Giovanni". In questa poesia il poeta neoclassico sembra addirittura riprendere alcuni versi del Tasso ("Padre, o buon padre che dal ciel rimiri, egro e morto ti piansi, e ben tu il sai, e gemendo scaldai la tomba e il letto" "me vedrai seduto su la tua pietra, o fratel mio, gemendo il fior de' tuoi gentili anni caduto"). Il dolore, che caratterizza lo stato d'animo di entrambi i poeti davanti alla dipartita di una persona cara, non è presente nell'atteggiamento dei due lirici riguardo alla loro morte. Essa, infatti, è vista come la fine dei mali terreni causati dal destino avverso e sia Tasso che Foscolo sperano di trovarvi una pace rasserenatrice. Tasso avrebbe voluto morire subito dopo il primo duro colpo della Fortuna ("così avuto v'avessi o tomba o fossa a la prima percossa!"). Foscolo cerca quiete nella morte ("e prego anch'io nel tuo porto quïete") e la paragona alla notte: come la notte libera dagli affanni del giorno, la morte solleva gli uomini dalle preoccupazioni terrene (vedi "Alla notte"). Secondo il Leopardi, per Tasso la morte fu "mercé, non danno" (vedi "Ad Angelo Mai"), perché chi è cosciente dei mali che affliggono l'uomo ed è stato destinato dal Fato al "pianto" non può che desiderare di morire. Nello stesso filone di pensiero si inserisce il tema della tomba, vista come il luogo degli affetti familiari e ultimo approdo. I tre poeti, infatti, possono ricongiungersi con i loro cari solo pregando sulle loro tombe; per Leopardi il defunto da piangere è rappresentato dallo stesso Tasso ("Torna torna fra noi, sorgi dal muto e sconsolato avello"). Foscolo pone inoltre l'accento sul desiderio di poter godere del riposo eterno nella sua terra natale, dalla quale era stato esiliato (come il Tasso anche il Foscolo soffriva della sua condizione raminga).

Un altro tipo di morte è quella spirituale rilevata dal Leopardi nel suo "Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare". In questo dialogo il genio ha un ruolo maieutico (la maieutica era il metodo di insegnamento socratico consistente nell'aiutare il discepolo, interrogandolo sapientemente, a mettere in luce la verità latente nel suo spirito) e scandisce la conversazione con domande esplicite che portano alle riflessioni del Tasso. Il Leopardi fa trattare al poeta cinquecentesco dei temi romantici come ad esempio la perfetta compatibilità fra narcotici in senso lato - oppio, alcool e morte- o lo fa discutere a proposito della noia. L'azione benefica dell'alcool è un'idea cara ai romantici, Bacco è il dio che dissolve il dolore, Baudelaire intitola una sezione del suo "Les fleurs du Mal" al vino e qui Tasso incontra il suo Genio "in qualche liquore generoso". Il tema della noia rappresenta il fulcro del dialogo: la noia è una sorta di morte spirituale, è l'assenza di sensazioni e l'uomo è destinato ad esserne in balia. Secondo il Leopardi, gli unici rimedi alla noia sono l'oppio, l'alcool oppure il dolore "e questo è il più potente di tutti: perché l'uomo mentre patisce, non si annoia per niuna maniera". Nel Romanticismo la noia viene ad assumere dei connotati molto negativi, addirittura spaventosi, Baudelaire la descriverà, nella prefazione a "Les Fleurs du Mal", come la più feroce delle belve e capace di inghiottire il mondo in un solo sbadiglio.

Il dolore di cui soffre il poeta, tuttavia, è anche un dolore di tipo più classico, cioè quello amoroso, derivato, per esempio dalla lontananza della persona amata.



L'AMORE, LA COMPARTECIPAZIONE DELLA NATURA AL DOLORE AMOROSO DEL POETA


Il Tasso, come d'altra parte i suoi contemporanei, trova nell'amore, e ancor più nel dolore amoroso, una ricca fonte d'ispirazione per le sue liriche. Come abbiamo già visto, il grande poeta cinquecentesco risente notevolmente dell'influenza di Petrarca e non solo dal punto di vista stilistico. Analizzando parallelamente "Chiare, fresche, dolci acque" del Petrarca e "Qual rugiada o qual pianto" del Tasso si possono, infatti, riscontrare numerose analogie dal punto di vista tematico e concettuale: il punto comune più significativo è senz'altro la partecipazione della natura ai sentimenti del poeta.                                                                      

La canzone "Chiare, fresche, e dolci acque" di F. Petrarca è composta da due parti: nella prima il Petrarca stende un elegiaco testamento chiamando a testimoni tutte le creature inanimate del benedetto luogo dove in un benedetto giorno egli vide Laura riposarsi dopo il bagno sulla riva della Sorga, in un bel paesaggio primaverile. Poi con drammatico trapasso la visione di Laura seduta sotto una pioggia di petali volteggianti giù da una pianta fiorita risorge concreta, presente, eterna. La seconda parte rievoca la scena di paradiso terrestre, di sospeso incantamento, di sereno e trasognato trionfo d'Amore. Il Petrarca canta Laura sentendone la purezza e la perfezione, pure intorno a lei c'è un trasalimento di tutte le cose. Contempla i luoghi dove ella gli apparve benigna, ricorda le rare ore di riposante fantasticheria, si proietta in un immaginario lontano avvenire, in cui egli potrà narrare a Laura le sue sofferenze. Commosso da una vista che gli sveglia tante memorie, l'amante, calda già l'immaginazione, entra in colloquio con la natura, chiama ad uno ad uno tutti quegli oggetti, a cui si lega una ricordanza di Laura, li decora dei più gentili ed affettuosi epiteti, e comunicando con loro le sue pene, le sente già raddolcire. Ha innanzi come un mazzetto di fiori , pieni di grazia e di delicatezza, quando in mezzo al suo godimento si sente inumidire il ciglio. E i fiori sono come la veste della natura, e piovono sopra Laura nelle più vaghe attitudini; e sembra che abbiano giudizio, cadendo in guisa da imitare gli ornamenti dell'arte, la veste ricamata a fiori, le trecce rilevate da una superba rosa. Il paesaggio naturale viene quindi spiritualizzato, interiorizzato sotto forma di ricordo. L'apparizione della donna è legata all'immagine della pioggia di fiori che scende su di lei accarezzandola ed infondendo quell'idea di amore. Amore che dopo la morte dell'amata si trasforma in un sentimento tormentato; il suo carattere non è la gioia, o il trasporto tempestoso, o la dissipazione dell'anima, ma una tristezza travagliata e incapace di liberazione. Il suo sentimento d'amore è nel fluttuare senza mutamento di una dolente tristezza, in cui si annida l'eterna insidia dell'anima petrarchesca: l'irresolubile contrasto di due mondi in antitesi.

Nel madrigale "Qual rugiada o qual pianto" di Torquato Tasso, il linguaggio amoroso è elegante ed essenziale. L'atmosfera immobile e silenziosa sembra dissolvere le presenze umane, accentuando la solitudine del poeta ed esaltandone la voce, che palesa il desiderio di vedere placate le dissonanze della realtà. Nelle descrizioni naturali, Tasso sa dipingere con maestria un paesaggio che, forse per la prima volta nella storia della nostra tradizione lirica, diviene metafora vivente, proiezione sensibile, proprio perché partecipe dello stato d'animo profondo del poeta. Le lacrime della rugiada notturna, i sospiri del vento preannunciano la partenza della donna amata. L'ingegnosità delle metafore è elevata in immagini di delicatissima poesia che anima la Natura di dolce malinconia (specialmente nel verso 4). Le stelle piangono rugiada, le gocce di rugiada sono stelle: ma queste metafore reciproche sono suggerite come immagine di sogno, aeree e sfuggenti, fattore che determina una certa sospensione e dilatazione temporale. Quindi in questo madrigale, dove si rimarca la partecipazione della natura al dolore umano grazie all'uso di metafore e "personificazioni astrali", l'amore si configura come un tormentoso sentimento del poeta che si sente smarrito e solo. Simili tematiche si possono riscontrare in "Ecco ch'un'altra volta, o valle inferna", lirica cinquecentesca di Isabella di Morra. Qui il tormento, lo sconforto, il dolore sono presentati al lettore non solo in maniera diretta (v.4: "udrete il pianto e la mia doglia eterna."; v.9"..ch'io mi lagno.." ), ma anche tramite gli elementi paesaggistici: v.1 valle inferna; v.2 fiume alpestre (quindi un torrente); v.2 ruinati sassi;v.5 caverna;v.10 orride ruine; v.11 selve incolte/solitarie grotte. Il tema dell'amore affrontato da G. Leopardi nel "Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare" sembra essere completamente diverso dal tipo di amore descritto nelle opere precedenti perché mentre il sentimento amoroso petrarchesco e tassiano è fonte di dolore e turbamento, qui è invece il suo esatto contrario, sentimento carico, oltretutto, di ottimismo. Questo dialogo si apre con un lungo elogio della figura femminile della donna amata e sognata da Torquato. Ella al solo pensiero gli infonde una tal gioia, una tale pace interiore che certe immagini e ricordi si ravvivano nell'animo di Torquato. E questa donna possiede una forza straordinaria in grado di portare ogni turbamento, che va via via annullandosi, lontano dalla mente. E si discute se sia meglio vedere la donna amata o solamente pensare a lei, tenendo conto della possibilità di esistenza del timore di scoprire che ella è molto diversa da come la si era immaginata, ossia per nulla paragonabile ad una dea, oggetto dei sogni notturni e non, benigna e risplendente di una luce abbagliante. La donna come simbolo di perfezione, portatrice di gioia, felicità, spensieratezza, dolcezza, tenerezza, e bei sogni tranquilli e l'accentuato pathos amoroso sono gli elementi caratterizzanti del dialogo.



Tasso, dopo l'analisi di alcuni suoi componimenti, ci appare come un lirico estremamente complesso, in bilico fra dei temi e uno stile classici e medievali (come per esempio la compartecipazione della natura al dolore amoroso del poeta), e dei temi molto più moderni ed innovativi (tant'è vero che verranno largamente sviluppati nelle epoche successive) espressi con uno stile meno controllato dal punto di vista emotivo e più ricco di pathos (anche nel suoi poemi epici si può riscontrare questa caratteristica: Tasso infatti non ricerca più la medietas, come faceva l'Ariosto, ma partecipa con sentimenti "violenti" alle azioni dei suoi personaggi). Proprio per questa varietà e ricchezza di stile e di contenuti, non ci stupisce l'influenza incredibile che l'opera tassiana ha avuto nei secoli successivi: il Foscolo riprende e sviluppa ampiamente molti dei temi che furono caratteristici del poeta cinquecentesco, e Leopardi sente di avere un'affinità spirituale con lui di fronte alla crudeltà del destino.








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