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Il giorno della civetta - sciascia




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IL GIORNO DELLA CIVETTA

SCIASCIA

Il giorno della civetta nasce come un racconto, nel 1960, quando lo Stato negava l'esistenza della mafia. Fino ad allora che documentazione esisteva?

I rapporti di Franchetti e Sonnino, gli scritti di Colaianni, le memorie del prefetto Mori, nulla che sostanzialmente potesse raggiungere un vasto pubblico, per questo Sciascia scrive Il giorno della civetta.

Chi aveva parlato di mafia, prima di Sciascia, aveva posto l'accento sul SENTIRE MAFIOSO, cioè su una visione della vita particolare, su regole di comportamento anomale, su un modo di realizzare la giustizia e di amministrarla al di fuori degli organi dello Stato.

Eppure, come afferma Sciascia, la Mafia è un'altra cosa, un sistema che in Sicilia muove ormai molti interessi economici e di potere di una classe, che possiamo definire borghese. Essa non nasce nel vuoto dello Stato, cioè quando lo Stato è debole o manca, ma dentro lo stato, come una borghesia parassitaria, che sfrutta soltanto.

Ed è proprio questo che vuole mettere in luce Sciascia, creando un intreccio tipico, anche della nostra società, dove mafia e poter procedono di pari passo, dove i manovratori sono coperti da autorità indiscusse.


INTRECCIO

Due colpi di lupara freddano, in un'alba grigia Salvatore Colasberna,un costruttore che ha rifiutato la protezione della mafia. L'indagine è affidata al capitano Bellodi, ex-partigiano parmense, che tenta di incrinare la coltre di omertà del piccolo paese siciliano. Un confidente, Calogero Di Bella, detto Parinieddu, fa più di un nome sui possibili colpevoli e Bellodi punta sul nome giusto: Saro Pizzuco. Un dialogo in un caffè romano e l'intervento di un'"eccellenza" mostrano che l'indagine di Bellodi è seguita con fastidio nei palazzi del potere, ammanigliato con la mafia. Scompare intanto un potatore, Paolo Nicolosi, colpevole solo di essersi imbattuto casualmente nell'assassino. La consorte ricorda che il marito, dopo i colpi di lupara, aveva visto passare di corsa un tale Zicchinetta, soprannome di un ex-detenuto, Diego Marchia. Due boss della mafia decidono di sopprimere il traditore Di Bella, che però prima di essere ucciso, rivela in una lettera al capitano il nome del "padrino":Don Maurizio Arena. Bellodi fa arrestare sia di due sicari, Marchica e Pizzuco, sia il mandante ARENA.

Nel corso dell'interrogatorio, mediante lo stratagemma di un falso verbale,Marchica e Pizzuco sono indotti ad accusarsi a vicenda; viene intanto ritrovata, in una contrada, l'arma del primo delitto e successivamente in fondo ad un crepaccio, si rinviene anche il cadavere di Nicolosi. Manovrata dall'alto, la stampa locale sostiene che l'indagine ha trascurato, per il delitto Nicolosi, la pista giusta, quella del delitto passionale. Altri giornali, invece ventilano gravi compromissioni ministeriali, provocando, a Roma, una sequela di allarmate telefonate notturne fra alti burocrati.

Si arriva così alla scena madre del romanzo: l'interrogatorio di Don Maurizio Arena. Il capo mafia respinge ogni responsabilità, ma sostiene con fierezza la sua visione mafiosa del mondo, riconoscendo tuttavia un degno avversario in Bellodi, che a sua volta preferisce il padrino a ministri e deputati, compromessi con la mafia. Un dibattito parlamentare su "fatti di Sicilia" conferma i sospetti del capitano:un sottosegretario dichiara che la mafia non esiste se non nella fantasia dei socialcomunisti. La conclusione è scontata: recatosi a Parma per un breve congedo, Bellodi apprende sui giornali che la sua indagine è stata demolita con alibi inoppugnabili e che è prevalsa la tesi del delitto passionale. Ma Bellodi non si arrende e decide di tornare al più presto in Sicilia a "rompersi la testa".




Bellodi ed Arena sono i due antagonisti del romanzo. Bellodi è un capitano dei carabinieri, del nord, immerso in una realtà a lui completamente sconosciuta, che tenta di svolgere il suo ruolo, svolgendo un'indagine accurata e puntuale, non immaginando che questo adempimento al dovere si scontrerà con le trame oscura del mondo mafioso.

Bellodi è un eroe positivo, secondo i canoni del Neorealismo, è un uomo colto che conosce la letteratura siciliana ed ha rispetto per questa cultura; ciò comunque non gli impedisce di essere uno straniero in mezzo al popolo siciliano.

Le prime barriere sono quelle linguistiche, modi di dire, soprannomi, INGIURIE, come le chiama la vedova Nicolosi, ovvero definizioni di una persona in base ai suoi difetti fisici o morali, ma non solo questo, Bellodi ha davanti a sé il mostro orribile dell'OMERTA'.

Tutti coloro che vengono interrogati, ricordano con difficoltà, occultano la verità, perché qualcuno più forte di loro vuole che sia così, ovvero uomini politici, in stretta connessione con la mafia.

Bellodi contro di loro non può nulla, anche se l'indagine si conclude con una certa soddisfazione. Nei confronti dei QUAQUARAQUA' DI STATO, che parlano a vanvera e insabbiano sistematicamente la prova, Bellodi è un semplice impiegato, tenuto a piegarsi ai suoi superiori, che dovrebbero rappresentare la legge.

Ciò è evidente quando, malgrado Bellodi abbia trovato l'arma del delitto e il corpo di Nicolosi, gli stessi giornali, manovrati dall'alto, lo accusano di aver trascurato la pista più plausibile, quella del delitto passionale. Roma ancora trova un escamotage nella cultura e nelle tradizioni siciliane stesse, sfruttando l'idea che tutti avevano della Sicilia, terra di passione e di vendetta, facendo leva su questo, il potere politico riesce a tenersi nascosto.

Di fronte a Bellodi si erge però il capo mafioso, Arena, il padrino,tradito da Di Bella. Sciascia delinea questo personaggio come una figura epica, scaturita dalla stessa storia della Sicilia. E' un personaggio di grande rilievo, perché denota un'etica superiore, pur nella sua feroce primitività , a quella dei suoi protettori politici.

L'autore gli conferisce una vigorosa statura umana, pur non condividendo la sua filosofia mafiosa, "né rimorso, né paura, mai" ecco come ha vissuto fino ad ora coerente, quasi in modo machiavellico, alla cieca e tragica volontà, che è il male di cui si è circondato.

D'altra parte afferma Sciascia, intervenendo come un autore onnisciente a sottolineare alcune particolari affermazioni di Arena, durante l'interrogatorio con Bellodi "E quale altra nozione poteva avere del mondo, se intorno a lui la voce del diritto era sempre soffocata dalla forza e il vento degli avvenimenti aveva soltanto cangiato il colore delle parole, su una realtà immobile e putrida".

Don Mariano Arena si è dovuto conquistare il rispetto con la forza,conosce poche cose, non è colto, ma sa su che cosa si basano i rapporti umani e soprattutto le leggi del vivere civile.

Questa sua grande forza morale, che viene tratteggiata con particolare attenzione da Sciascia, incute rispetto a Bellodi, che quando si sente definire dal capo mafia UN UOMO, non ha alcuna perplessità a dire:" Anche lei è un uomo." Forse Bellodi condivide, se pur con grande disagio, la definizione delle categorie umane, data da Don Mariano: GLI UOMINI, I MEZZI UOMINI. GLI OMINICCHI,I CORNUTI E I QUAQUARAQUA'. L'umanità si dovrebbe fermare ai mezzi uomini, invece scende fino agli ominicchi, che sono come i bambini, che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse moine dei grandi; i cornuti, che vanno diventando un esercito e i quaquaraqua', onomatopea per indicare gente che dovrebbe vivere come le anatre nelle pozzanghere, perché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre.

Bellodi è invece un uomo e d Arena, malgrado inchiodato da lui, non si sente né offeso né umiliato. Forse con i quaquaraqua' Don Mariano si riferisce a tutta la classe politica, che si appoggia sulla mafia, che conta sul silenzio di questa per tramare dietro le quinte, salvando sempre e comunque la faccia. Ciò non può non apparire evidente, quando il sottosegretario alla Camera con una dichiarazione, nega l'esistenza del fenomeno mafioso, attribuendo l'insinuazione e l'accusa di avere rapporti con la mafia alla fantasia dei socialdemocratici, quando invece il ministro Mancuso aveva avuto "l'ingenuità di farsi fotografare con Don Mariano".

Ecco dunque che appare chiaro come lo stato non ha proprio alcun diritto di proclamarsi innocente di fronte alla mafia.

Chi è questo sottosegretario alla Camera?

Sciascia ricorre all'espediente narrativo dell'anonimo, per non incorrere in un'accusa di vilipendio, denunciando così la mancanza di libertà, che ha caratterizzato la stesura di questo libro, quella stessa mancanza di libertà, che ha caratterizzato tutta l'operazione giudiziaria di Bellodi.

Non appena torna a Parma, infatti, per un congedo, la sua indagine viene demolita da prove inconfutabili, che mettono sempre più in evidenza il movente del delitto passionale, mai preso in considerazione da Bellodi. Bellodi, leggendo queste notizie, a casa sua, nella sua terra, lontano da quel mondo, che però ormai gli è entrato nelle viscere, non può provare altro che "un'impotente rabbia".

Eppure sente ormai di amare la Sicilia a tal punto da volerci tornare, fosse solo per rompersi al testa. Determinanti sono gli ultimi pensieri che attraversano la mente di Bellodi, prima che per il lettore cali il sipario su questo personaggio.

E come non attribuirli a Sciascia, il vero siciliano. Camminando in una Parma, immersa nel silenzio della neve, pensa Bellodi: In Sicilia le nevicate sono rare, forse il carattere delle civiltà è dato dalla neve o dal sole, secondo che neve o sole prevalgano.

Quel Bellodi che prima faceva leva sulle sue conoscenze letterarie per comprendere e permeare il carattere dei siciliani, i loro modi di pensare, ora lo intuisce in tutta la sua peculiarità di essere isolani, di essere siciliani, come fosse uno di loro.





TECNICHE NARRATIVE E LINGUAGGIO

Il giorno della civetta si presenta come un libro giallo e Sciascia ricorre a tale genere perché la tecnica narrativa poliziesca impedisce al lettore di lasciare a metà il libro.

Eppure alla fine del romanzo lo schema del giallo viene ribaltato, dal momento che il colpevole si salva, grazie all'omertà del potere.

Non proprio un giallo quindi, ma un romanzo pamphlet, che con il suo titolo shakesperiano allude non solo a quella spietata lotta per il potere e a quella corruzione, che rendono la Sicilia della mafia, molto simile all'Inghilterra dell'Enrico IV, ma anche al contrasto tra la luce della ragione, IL GIORNO, e l'ombra della morte e del delitto,LA CIVETTA, presenza incombente, anche attraverso la descrizione di alcuni paesaggi, come quello del CHIARCHIARO,un insieme di buche, grotte e d anfratti. La stessa struttura del paese con case murate in gesso, con strade ripide e gradinate, simboleggia l'impossibilità di poter penetrare e permeare quel muro secolare del silenzio, quella paura di essere coinvolti dalla legalità nella lotta contro la mafia.

Il siciliano d'altra parte deve convivere con la mafia e deve evitare di vedere ciò che la mafia fa.

Basti pensare proprio all'inizio del romanzo quando IL PANELLARO, venditore di panelle,focacce fritte con farina di ceci,pur avendo assistito al delitto, interrogato se sa chi ha sparato, chiede PERCHE' HANNO SPARATO?.

Tutti Negano quella realtà di violenza, quella legge mafiosa che è severa ed inderogabile, per evitare di diventarne vittima.

Proprio questo atteggiamento d'altra parte ha aiutato la mafia ad imporsi senza alcun ostacolo.

Dal punto di vista linguistico tre sono gli elementi principali, i soprannomi, il gergo dei mafiosi, i proverbi.

I soprannomi, ovvero le ingiurie, sono determinanti per comprendere quella cultura siciliana, tanto familiare a Sciascia, che ci innesta in un mondo nuovo e lontano, un mondo che già avevamo conosciuto con Verga.

La Sicilia allora appare in tutta la sua singolarità, anche e soprattutto linguistica.

La prima barriera per Bellodi, ma anche una difesa per gli stessi siciliani, sempre capaci di contraddistinguersi.

Ogni soprannome delinea quindi fulmineamente una personalità: Zicchinetta, delinquente che gioca d'azzardo, non solo con le carte ma anche con la giustizia.

Parinieddu, piccolo prete, per indicare una persona dall'untuosa ipocrisia e dal facile eloquio.

La gente del posto a volte non conosce neppure i nomi reali, ma solo i soprannomi.

I proverbi non sono una novità, già Verga li aveva resi simbolo di una cultura, di una saggezza popolare, di una cristallizzazione sociale. Con Sciascia essi mantengono tale valore, danno voce ad un modo di pensare che isola la Sicilia dal resto di Italia.

"Bianca campagna, nera semenza, l'uomo che la fa, sempre la pensa", proverbio messo in bocca ai fratelli Colasberna, ma che indica l'antica paura irrazionale e quasi superstiziosa del popolano nei confronti della scrittura, la nera semenza è quindi metafora dell'inchiostro che fissa ed immortala ciò che pensa un uomo e che poi gli si ritorcerà contro.

E' la diffidenza verso la cultura e la civilizzazione che il continente cerca di imporre alla Sicilia, ma niente riuscirà ad eliminare l'idea che il siciliano ha del continentale, uomo efficiente ed attivo, ma completamente estraneo al modo di pensare dei siciliani ai rapporti sociali, che fra loro esistono.

E LU CUCCU CI DISSE A LI CUCCUNOTTI A LU CHIARCHIARU NMI VIDIEMMU TUTTI.

Il cuculo disse ai propri figli, al Chiarchiaro ci incontreremo tutti. Con questo proverbio si allude al tragico appuntamento con la morte a cui nessuno può sottrarsi, accettazione quindi di una sorte dovuta a tutti, insita già nel concetto stesso di vita.

GERGO MAFIOSO: Altro elemento di fondamentale importanza, con Sciascia apprendiamo il vivo e colorito linguaggio mafioso, una terminologia precisa, che delinea una vera e propria organizzazione con regole e gerarchie perentorie.

Il confidente , la cosca(corona di foglie del carciofo), la persona di rispetto, l'astutatu(ucciso come si spegne una candela).

Per la prima volta con IL giorno della civetta emerge e si delinea una realtà, quella mafiosa, in tutta la sua consistenza e in tutta la sua essenza.

Il gergo mafioso è un linguaggio che caratterizza una società nella società, dove le regole sono ferree ma non scritte.

Tutto il libro è sicuramente impiantato sul dialogo, sul discorso Diretto, che mette a confronto due mondi, la Sicilia e il Continente, la Sicilia e Bellodi, ma non mancano veri e propri interventi in prima persona dell'autore, che si configura come un testimone della vicenda. Un narratore interno, capace anche di focalizzare il punto di vista dei personaggi, come un narratore onnisciente. Nei pensieri di Bellodi c'è Sciascia, che non può fare a meno di intervenire e di giudicare, anche se indirettamente, il suo mondo, forse prova a guardarlo attraverso gli occhi di Bellodi, per comprenderlo meglio.


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