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Il cerchio bianco




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"E. Pirajno di Mandralisca"

Sez. LICEO CLASSICO

CEFALU'



IL CERCHIO BIANCO



IL CERCHIO BIANCO


"Qual è colui che sognando vede,
che dopo 'l sogno la passione impressa
rimane, e l'altro a la mente non riede,

cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visione, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa".


Dante, "Paradiso, canto XXXIII, vv.58-63"




"Come l'uomo che sognando vede e dopo il sogno la passione impressa rimane e altro alla mente non ritorna, così son io: quasi tutta cessa la mia visione e ancora mi si distingue nel cuore la dolce sensazione che da quella nacque".


In queste due terzine, Dante descrive la sua personale intuizione dell'idea di Dio che appare vaporosamente velata dietro la chiara sensazione di piacere che questa provoca nel suo cuore. L'attività del cuore di Dante è stata, forse, una delle più documentate della storia dell'uomo. Infatti, del suo cuore si sa assai bene quanto intensamente battesse per l'angelica Beatrice, quanto fortemente piangesse per l'esilio e allo stesso tempo, confidasse nella grazia divina. Sembra quasi che ogni parola, ogni concetto, ogni frase pronunciata da Dante -e da qualunque altro uomo- fosse passata prima dal cuore e solo in seguito, approdata nel cervello. Tale descrizione dell'elaborazione linguistica dell'attività biologica di Dante appare assai poetica ma purtroppo poco scientifica e molto letterariamente topica. È logico, infatti, che la sede del pensiero, dei sentimenti e di qualunque altra cosa legata all'attività biologica di un uomo passa prima per il cervello e poi al resto dell'organismo. Ma allora, come spiegare l'intuitiva conoscenza di Dio? Come interpretare poesie fortemente traboccanti di infinito? Come motivare l'umana tendenza all'alienazione da sé, finalizzata al raggiungimento della conoscenza di grandi segreti come la morte, la fede che in comune hanno il velato infinito?

"Come" e "Perché", non la pura essenza; l'uomo non può nulla di fronte la conoscenza piena di Dio. Almeno, non può nulla finché si esclude la conoscenza di fede. Argomento della prima parte di tale elaborato è il "come e "perché" un uomo concepisca "l'altro da sé" cioè Dio; della sua essenza si può dire tanto ma si ridurrebbe tutto al ragionevole dubbio.

Benché, dunque, l'uomo può esprimere tanto e nulla sull'essenza di Dio, esso ha comunque la facoltà di scoprire e comprendere pienamente il "come" e il "perché" un individuo concepisca non solo Dio, ma anche il mistero della morte, della vita, della fede e tanti altri quesiti che hanno riempito, riempiono e riempiranno i libri di filosofia; questa facoltà di vivere da animale e pensare da essere razionale fa dell'uomo un animale metafisico.



Nessun essere, eccetto l'uomo, si stupisce della propria esistenza; per tutti gli animali essa è una cosa che si intuisce per se stessa, nessuno vi fa caso Quanto più in basso si trova un uomo nella scala intellettuale, tanto meno misteriosa gli appare la stessa esistenza: gli sembra piuttosto che il tutto, cosí com'è e che sia cosí, si comprenda da sé."


Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, II, 17



Inoltre, ritengo che ci sia una piccola fase nella vita di un uomo in cui costui viva da semplice animale: cioè la fase infantile (0-3 anni). Con questa affermazione non si vuole svalutare tale fase della vita ma si vuole evidenziare come la metamorfosi in "animale metafisico" sia collegata all'allontanamento del bambino dal nido familiare. Infatti, solitamente, l'adolescenza è la fase che segna per un individuo l'ingresso nella società e la nascita di domande sull'"Assoluto".

Si entra dunque in una fase "meditatrice" della vita in cui, anche per pochi minuti, ci si estrania da sé. Ma cosa avviene in quei minuti nel cervello, e soprattutto, perché? Perché Leopardi, seduto su una panchina, fissando una siepe, si avvicina all'infinito che in un attimo lo fulmina e lo ispira? Perché Buddha raggiunge la Conoscenza dopo ore ed ore di meditazione? Perché, soprattutto nelle chiese e nei luoghi di pellegrinaggio, ci si avvicina a Dio, fino quasi a toccarlo? Insomma, come e perché si concepisce l'Assoluto Dio o l'Assoluta Conoscenza? È troppo semplicistico spiegare tali processi di conoscenza con la sola parola "sentimento".

Nel Terzo millennio, alla luce di grandi passi avanti fatti dalla scienza, si è scoperto che la conoscenza dell'Assoluto è un processo fatto da numerosissime fasi, traducibili in impulsi nervosi di natura elettrica e analizzabili con radiazioni nucleari ricondotte a numeri elaborati dal computer sotto forma di pixel.

È meno poetico, più freddo, ma sicuramente più corretto e probabilmente meno efficace. (Sono infatti certo che la scientifica, verificata e necessaria teoria sulla conoscenza di Dio, avvicinerà meno il lettore a Dio, rispetto alle due terzine di Dante sopra citate. Ma l'uomo è un essere razionale e sentimentale ed è bello sapere che in qualcosa, queste due nature umane, si incontrano).

Benché siano stati tanti gli scienziati a spiegare in termini scientifici l'intuitiva conoscenza dell'Assoluto -tra i quali il neurologo James Austin in un poderoso libro, Lo Zen e il cervello, pubblicato nel 1998 nientemeno che dalla prestigiosa MIT press (Massachussetts Institute of Technology)- due neurologi sono stati quelli più chiari e recenti: Andrew Newberg e Eugene d'Aquili nel 'Why God won't go away' (Perché Dio non andrà via).

I due scienziati, sottoponendo ad una tomografia computerizzata¹ dei monaci buddisti immersi in una meditazione tibetana e delle suore in preghiera, hanno evidenziato un'attività inusuale di una regione del cervello chiamata "lobo parietale supero-posteriore".

Tale zona è predisposta a orientare nello spazio l'individuo, creando in questo, l'idea della profondità, del sopra, del sotto e di ciò che sta a lato. Inoltre, essendo continuamente stimolato sensorialmente, pone una distinzione tra l'individuo e il resto che lo circonda. Logicamente il "lobo parietale supero-posteriore", in condizioni normali è continuamente coinvolto da una moltitudine di impulsi che permettono all'individuo di svolgere correttamente attività primarie come la deambulazione.

Ma quando, durante la meditazione, tali stimoli sensoriali vengono meno, l'attività di quest'area viene inibita, conducendo l'individuo non solo alla perdita del senso dello spazio ma anche e soprattutto della piena coscienza del proprio io che approda dunque alla sensazione di "essere uno con il cosmo".

Benché i due scienziati studino due esempi di meditazione fondate su principi buddisti o cristiani, si deve comunque pensare che tale "anomalia" del lobo parietale supero-posteriore si verifica ogni volta che un uomo vaghi con la mente pensando e interrogandosi sulla vita e sui misteri che la popolano, spinto dalla sua innata curiosità.

Quindi, paradossalmente è il mezzo (la meditazione) che produce l'oggetto (Dio) che a sua volta nasce da un malfunzionamento delle funzioni cerebrali. Con questo non si vuole dimostrare la non-esistenza di Dio (si è già detto più volte che questa prima parte dell'elaborato si vuole concentrare sul "come" e il "perché" si conosca l'Assoluto, non sulla sua essenza) infatti nulla vieta che alcune cose di cui un uomo ha idea nel cervello possano esistere, così come esiste la pagina sulla quale sto scrivendo e di cui ho un'idea nel mio cervello.

.Tecnica radiologica realizzata da un sottilissimo fascio di raggi X che permette una rappresentazione dettagliata delle singole sezioni analizzate.

"Mi preme mettere subito in chiaro un punto: sono laica e non credente []. Tuttavia, posso dire che, sì, è ipotizzabile che una parte del cervello possa reagire in un certo modo agli stimoli della preghiera. Non sono contraria all'idea in sé: perché no?."

il Nobel Rita Levi Montalcini


L'uomo, dunque, è predisposto per sua stessa natura alla creazione dell'idea di un Assoluto. Di quest'ultimo non si ha una definizione ben precisa né una conoscenza piena né la certezza della sua reale esistenza. Si può solo accertare che la natura di questo Assoluto porta l'uomo all'estraniamento da sé, all'avvicinamento a una realtà apparentemente superiore che demolisce le certezze dell'individuo e in alcuni casi lo porta al pessimismo più estremo.

Ritengo, comunque, che l'uomo abbia una facoltà fondamentale per la sua esistenza: la Libertà. In effetti, l'uomo, essendo necessariamente predisposto all'estraniamento da sé, non è pienamente libero di gestire la propria natura di animale metafisico ma, nel dominio del proprio io, legato all'Assoluto e alla vita reale, deve e può ritrovare la propria libertà.


"Ita fac, mi Lucili: vindica te tibi"

"Fa così, mio Lucilio: rivendica te, a te stesso"

Seneca - Epistulae Morales Ad Lucilium - Liber I - 1


Seneca, nelle Epistole a Lucilio, invita il suo discepolo a "riscattare sé a se stesso". A vivere, dunque, nel pieno dominio di sé, escludendo dalla vita saggia quelle occupazioni che allontanano l'uomo dalla "sapientia". Le passioni, i vizi, le ricchezze e la paura della morte rendono l'uomo uno schiavo. Seneca, invece, muore da impavido richiamando alla fermezza i suoi discepoli, ricordando loro i precetti della "sapientia" che diventarono per Seneca la chiava della sua Libertà.

Comunque, qualcuno potrebbe obiettare ricordando che Seneca morì per ordine di Nerone. Ma la sua superiorità rispetto al potere tirannico risiede nella morte del filosofo che abbandona il regno dei vivi, superando l'umana e ampiamente meditata paura della morte e ritrovando, anzi, in questa il dominio di sé.


"Ille interritus poscit testamenti tabulas[.]simul lacrimas eorum modo sermone, modo intentior in modum coercentis ad firmitudinem revocat, rogitans ubi praecepta sapientiae, ubi tot per annos meditata ratio adversum imminentia?"


"Quello, impavido, chiede le tavole del testamento[.]Frena intanto le loro lacrime, ora con le parole ora, con maggiore energia, in tono autorevole, richiamandoli alla fermezza e chiedendo dove mai fossero gli insegnamenti della filosofia, dove la consapevolezza della ragione, affinata in tanti anni, contro i mali incombenti?"

Tacito - Annales - Liber Xv - 62



Di Seneca va dunque apprezzata la sua saggezza e la sua fermezza che, come si è già detto, lo condussero al pieno dominio di se stesso. Insomma, morì libero!

A mio parere, comunque, la vita del saggio Seneca è una via utopistica verso la libertà che però è stata realmente percorsa da Seneca ma che difficilmente potrebbe essere attraversata da un qualche altro uomo. Secondo me, "l'errore" di Seneca sta nell'aver adattato la vita ad un ideale, trascurando le passioni e i vizi che purtroppo fanno parte della vita di un uomo.



"Le passioni sono difetti o virtù solamente se portate all'estremo"

Johann Wolfgang von Goethe


Se dunque, da un lato, Seneca appare un uomo poco moderato nell'estremismo della sua ferma Ragione, dall'altro, Oscar Wilde, potrebbe apparire il suo perfetto contrario e, per molti giovani d'oggi, un perfetto modello di vita.

Wilde, infatti, viene definito un "dandy": un damerino anti-conformista completamente abbandonato alla bellezza dei piaceri, libero dunque da ogni legge morale. La sua vita, comunque, venne colpita da un grave processo per omosessualità in un'Inghilterra Vittoriana e puritana. Da questo processo, Wilde ne uscì sconfitto con due anni di carcere che gli portarono via i suoi amici, i suoi affetti più cari e tutte le sue ricchezze.

Uscendo dal carcere, rifiutato da gran parte della 'buona società', si diede all'alcol, si convertì addirittura al Cristianesimo, ma, benché possa sembrare che avesse definitivamente abbandonato la vecchia vita da esteta, prima di morire chiese che gli venisse servita una coppa di champagne e le sue ultime parole furono:


'O se ne va quella carta da parati, o me ne vado io '

Oscar Wilde



Wilde risponde ai dubbi e all'oblio della morte con una dolce coppa di champagne, sdrammatizzando la morte stessa con sottile ironia, lasciando agli altri una profonda riflessione.

Sia Seneca che Wilde, nel loro profondo estremismo, ritrovano apparentemente, al momento della morte, una piena coscienza di sé. Infatti muoiono da impavidi.

Entrambi, però, commettono l'errore di piegarsi a qualcosa di superiore (la Ragione per Seneca, il Bello Supremo per Wilde), diventando loro stessi, schiavi dei loro stessi ideali. Questi, infatti, li portano a vivere un'esistenza, apparentemente libera, ma realmente vissuta o nella totale mancanza di Ragione o nell'assoluta negazione delle passioni.



Oscar Wilde (1854-1900) was born in Dublin. He attended Trinity College Dublin, and Magdalen College, Oxford where he became the leader of the aesthetic cult, based on the tenet "Art for art's sake". He applied this principle living as a dandy, that is, leading un unconventional life and surroundings him self with beautiful objects.

Wilde's own life is evidence of his being an aesthete. He asserted that a life might be fabricated like a work of art in which religion or morality had no part. The artist's duty was to give free play to sensations and temptations.

But in 1895 he was tried for homosexual acts and sentenced to two years of hard labour. This meant social and financial ruin. When he came out of prison, he lived in Paris until his death in 1900.

He converted to Christian religion but he didn't abandon the aesthetic life. In fact some instants before he died he asked to drink champagne and his last words were:


'My wallpaper and I are fighting a duel to the death. One or the other of us has to go.'

Oscar Wilde


The English writer dies as a bold, just like Seneca. Wilde responds to the doubts and the oblivion of the death with a sweet glass of champagne.



A questo punto dell'elaborato sarebbe stato ragionevole e apprezzabile, una volta criticate (ma non disprezzate) le figure di Wilde e Seneca, fornire al lettore un nuovo modello esistenziale, paradigma perfetto di libertà, moderazione, intelligenza e umanità.

Così, ho pensato e analizzato figure storiche che sarebbero potute diventare un grande modello di vita ma, dopo una profonda riflessione ho reputato contraddittorio analizzare, nella prima parte dell'elaborato: la fase meditativa di ogni uomo che conduce all'estraniamento di sé, finalizzato a sua volta alla possibile dominazione del proprio io e poi, in un secondo momento, demolire la personale meditazione di ogni uomo (di ogni ceto sociale e di ogni livello culturale), adeguandolo a un possibile modello esistenziale già esistito nella storia.

Non era forse "l'errore" di Seneca e di Wilde aver adattato loro stessi a un astratto principio morale, trascurando e schiavizzando la propria condizione di uomo, vivendo di sola ragione nell'uno, di solo piacere nell'altro, trascurando dunque un aspetto della loro umanità?

Così, alla luce di questa riflessione, penso, dunque, che la dominazione di sé, ogni uomo la raggiunga, ognuno a suo modo, attraverso un'intima meditazione.

Io posso fornire la mia, ma ogni uomo può fornire la propria, oppure, se lo desidera, tenersela per sé. La mia personale riflessione sull'esistenza la forniscono tre greci: i primi due, ritenuti "minori" nel loro genere minore che è l'epigramma, l'altro un po' più famoso.



Uomo, infinito fu il tempo di prima, finché venisti

alla luce, e anche quello futuro, nell'Ade, sarà infinito.

Quale parte di vita ti rimane, se non quanto

un punto, o qualche cosa di più meschino di un punto?

Breve e angusta la tua vita; e per di più non è lieta,

ma ben più amara dell'odiosa morte.

Messi insieme da un tale ammasso d'ossa,

gli uomini aspirano al cielo altissimo e alle nubi;

uomo, guarda come tutto è vano, poiché all'estremo del filo,

stoffa non ancora tessuta, c'è già un verme;

il tuo scheletro messo a nudo è molto più ripugnante

dell'involucro membranoso e secco di un ragno.

Ma tu, uomo, cercando in te stesso con quanta forza puoi,

di giorno in giorno fòndati su una vita semplice;

vivi, finché vai avanti, ricordandoti sempre

di questo, di quale paglia sei fatto.

Leonida, Anthologia Palatina, VII, 472




Sei così avara della tua verginità; e perché mai? Fanciulla,

non troverai chi ti ama, dopo essere scesa nell'Ade.

Le gioie di Cipride si godono fra i vivi; sull'Acheronte,

verginella mia, ossa e cenere giaceremo.

Asclepiade, Anthologia Palatina, V, 85



"La virtù non è un bene gratuito, ma una faticosa conquista, in quanto l'esser-uomini è il frutto di un'arte che è la più difficile e la più importante di tutte le cose."

Socrate



Leonida, il primo autore, fornisce tre punti fermi della propria riflessione sull'esistenza:

  1. l'infinita durata del prima del nascere e del dopo il morire;
  2. l'immensa piccolezza dell'esistenza di un singolo individuo;
  3. la vita semplice che, secondo me, rende ricca l'esistenza fugace di un uomo.

A mio parere, comunque, questi tre elementi appaiono necessari ma inefficaci se non arricchiti dall'esperienza degli altri due autori: Asclepiade e Socrate.

Il secondo autore, infatti, evidenzia un altro carattere dell'atteggiamento che bisognerebbe tenere di fronte l'inevitabile morte: la coscienza di sé e il sorriso. Ovviamente non condivido con lui il materialistico uso della donna come strumento di piacere ma l'assoluta semplicità dell'invito all'uomo a vivere bene nella propria condizione di animale metafisico il quale, con coscienza, comunque, comprenda che "ossa e cenere giaceremo".

Ma, se la vita fosse fatta solo da sorrisi, semplicità e coscienza allora, secondo me, alzarsi la mattina sarebbe solo finalizzato all'adempimento dei propri bisogni naturali.

Infatti, ritengo che la fermezza nel perseguire un sogno, un ideale (non nell'adattare sé a quell'ideale ma a riconoscere sé in quell'ideale), sia il centro dell'esistere e del dominio di sé.

Così fece Socrate.

Nel suo processo in cui fu ingiustamente accusato di corruzione di giovani e ateismo, Socrate uscì morto ma vincitore. Visse infatti la propria vita nel continuo perseguimento del bene in cui lui fortemente credeva. E di fronte la morte, di fronte l'inevitabile fine (momentaneamente posticipabile con la negazione dei propri principi morali), Socrate preferisce la Libertà. Muore superando la paura della morte, la paura dei nemici, ritrovando in sé, il Bene che da sempre tirava fuori dai suoi ragazzi, ponendo la sua immagine nella storia come un vero dominatore di se stesso.



"E' giunto ormai il tempo di andare, o giudici, io per morire, voi per continuare a vivere. Chi di noi vada verso una sorte migliore, è oscuro a tutti, tranne che al Dio".

Socrate


Dunque, a mio parere, la vita è un cerchio bianco.

Cerchio e non circonferenza perche è pieno di punti fondamentali e necessari uno per l'altro ma, uno è il punto più importante verso cui ognuno di questi tende: il centro della dominazione di sé. La vita, infatti, non è una ruota che gira e si ripete sempre uguale, ma è un lento processo di avvicinamento al "centro di gravità permanente²". Solo dominando se stesso, l'uomo può intuire e capire che la vita non è dominata dal triste nero della morte, del dolore e della sofferenza. Ma è bianca, pur soggetta a sporcarsi maggiormente, ma sempre disposta a tornare, arricchita dall'esperienza dell'esistere, alla sua vecchia condizione di inconsapevole felicità.

Tumminello Giuseppe IIIC


. Espressione virgolettata perché tratta dalla canzone di Franco Battiato: "Centro di gravità permanente".







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