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I lirici




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I lirici




Nei secoli VII e VI il canto dell'epica risuona ancora con gran forza. Le gesta dei suoi dèi ed eroi, nonché le modalità espressive che la caratterizzano, costituiscono un quadro di riferimento ineludibile per il poeta greco dei primi secoli.

Dalle fonti a nostra disposizione sembra risultare che la forma di lirismo più diffu- sa nella Grecia antica sia quella della melica corale: strettamente legata all'esi- stenza di una società aristocratica, essa è soprattutto di carattere celebrativo e di per sé poco incline all'esposizione di esperienze appartenenti alla sfera psichica. Accanto a questo genere di lirica, molto lontana dal gusto e dalle concezioni mo- derne, se ne pone un altro, dagli accenti più spiccatamente emotivi, in cui pare e- mergere un nuovo atteggiamento del poeta: egli non solo appone il proprio nome alle proprie opere ma parla in prima persona, dice "io", e tende anche a esporre esperienze facenti parte del proprio vissuto. In questo filone si inseriscono Saffo, Alceo e Anacreonte, esponenti della melica monodica, nonché i poeti elegiaci e giambografi, il cui canto non era necessariamente accompagnato dal suono della lira. Benché si tratti di mutamenti apparentemente non rilevanti e isolati, definiti da Mondolfo come "manifestazioni spontanee della propria individualità", prelu- dio e preparazione alla vera e propria introspezione nel contesto della lirica in- dividuale qualcosa di nuovo appare effettivamente sul fronte delle modalità e- spressive volte a cogliere esperienze psichiche e conflittualità interiori.

Purtroppo, in base al materiale estremamente frammentario in nostro possesso, non ci è dato intendere se e come i lirici abbiano contribuito a una nuova conce- zione dell'anima. Ciò nonostante, in alcuni dei loro versi pare emergere, accanto a tutta una terminologia concreta di spiccata derivazione omerica, un tentativo di spiegare l'intimo, la soggettività personale, operando uno spostamento di senso verso forme linguistiche più astratte Quando Archiloco si rivolge al proprio θυμός, come già Odisseo al proprio cuore nel brano dell Odissea analizzato in precedenza dice che esso è "turbato da affanni senza rimedio" (Fr. 128 West). Oppure, quando sostiene di preferire a un generale bello d'aspetto uno "pieno di coraggio" (καρδίης πλέως; fr. 14 West), usa espressioni diverse da quelle utiliz- zate da Omero per dar vita allo stato d'angoscia che grava su Odisseo alla vigilia dell'uccisione di Proci. Il poeta inizia dunque a manifestare la propria sensibilità, facendo delle proprie emozioni personali e della propria affettività del momento il tema principale della comunicazione con il suo pubblico Esprimendosi poi in termini un po' più astratti, il vissuto cui egli dà vita ne guadagna il termini di com- plessità:



Cuore, mio cuore (θυμέ, θυμέ), turbato da affanni senza rimedio, sorgi, difenditi, opponendo agli avversari

il petto; e negli scontri coi nemici poniti, saldo,


di fronte a loro; e non ti vantare davanti a tutti, se vinci;


vinto, non gemere, prostrato nella tua casa. Ma gioisci delle gioie e soffri dei dolori

non troppo: apprendi la regola che gli uomini governa.


(Archiloco, fr. 128 West)



Archiloco riprende la modalità omerica del dialogo col proprio thymós per evoca- re la propria esperienza interiore, ma dedica ad esso un'esortazione lunga e dal to- no incalzante "Affermata, cantata ed esaltata, la soggettività del poeta mette in discussione le norme stabilite e i valori socialmente riconosciuti, imponendosi co- me pietra di paragone di ciò che, per l'individuo, costituisce il bello e il brutto, il bene e il male, la felicità e l'infelicità. [] Dunque, relatività dei valori comune- mente ammessi. E' al soggetto, all'individuo, in ciò che prova personalmente e che costituisce la materia del suo canto, che tocca, in definitiva, il ruolo di criterio dei valori".


In tutto ciò, un ruolo centrale viene svolto dall'esperienza amorosa: tema del tutto marginale nei poemi omerici, a cui si accenna con estremo riserbo, esso trova nei lirici arcaici ampio spazio. L'esperienza erotica viene descritta con lucidità nel momento del suo erompere, presentando il fenomeno così come si verifica: ripren- dendo moduli epici, si paragona il turbamento che essa suscita allo scompiglio provocato da fenomeni meteorologici di forte intensità - come fa Saffo scrivendo: "Eros ha squassato il mio cuore (Ἔρος δ᾽ ἐτίναξέ <μοι>/ φρένας), come raffica che irrompe sulle querce montane" (Fr. 47 Voigt) -, oppure si evocano i sintomi fisici del contraccolpo emotivo:



Mi sembra pari agli dei quell'uomo che siede di fronte a te e vicino ascolta te che dolcemente parli e ridi un riso che suscita desiderio. Questa visione veramente mi ha turbato il cuore nel petto (καρδίαν ἐν στήθεσν): appena ti guardo un breve istante, nulla mi è più possibile dire, ma la lingua mi si spezza e subito un fuoco sottile mi corre sotto la pelle e con gli occhi nulla vedo e rombano le orecchie e su me sudore si spande e un tremito mi afferra tutta e sono più verde dell'erba e poco lontana da morte sembro a me stessa. Ma tutto si può sopportare, poiché (Saffo, fr. 31 Voigt)


In ogni caso, l'amore è un'esperienza che sconvolge, che turba, che "scioglie le membra" (λυσιμελής: Alcmane, fr. 3, 61 Page; Archiloco, fr. 196, 1A West; Saffo, fr. 130, 1 Voigt), che suscita spesso infelicità e sentimenti contraddittori: gioia e dolore, calma e inquietudine, dolcezza e asprezza, oltre ad inserirsi in un più am- pio processo di eterno mutamento delle cose, sono componenti inscindibili di un'inquietudine interiore che prende la forma del rimpianto, della nostalgia, dell'attesa, della speranza, della sofferenza, del ricordo di gioie perdute e di pre- senze scomparse. Di fronte ad Eros, dunque, emerge un aspetto dell'interiorità sul quale il poeta sembra non avere controllo: innanzi al suo "maglio potente" egli si sente disarmato, passivo, prossimo alla morte



Di nuovo con un maglio grande Eros, come un fabbro, mi colpì, e in un torrente gelido mi immerse. (Anacreonte, fr. 25 Gentili) Tale brama d'amore, sotto il cuore avviluppatasi, versò sugli occhi una densa nebbia, e dal petto rapì i molli sensi (ἐκ στηθέων ἁπαλὰς φρένας). (Archiloco, fr. 191 West)



Nel caso specifico di Saffo, gli effetti prodotti dall'amore non sono descrivibili so- lo in termini di turbamento: essi assumono una sfumatura ancor più sofferta, os- sessiva, nevrotica, che fa prendere all'esperienza erotica le sembianze della follia, della mania, della perdita di senno. Ma è Saffo stessa a rendere esplicita tale colo- ritura nel carme ad Afrodite (fr. 1 Voigt): ella rivolge alla dea una vera e propria supplica perché i suoi tormenti d'amore abbiano fine e i sui desideri siano esaudi- ti, e fa questo "con animo folle" (μαινόλαι θύμωι; 18). Probabilmente qui Saffo rappresenta una situazione di rifiuto da parte di una ragazza ed è proprio questo esser respinta dal proprio oggetto d'amore a fare in modo che il dato erotico passi in secondo piano di fronte alle ansie e ai tormenti che soggiogano il soggetto con ossessiva intensità: "all'eros si sovrappone la nevrosi e una situazione di forte dis- sociazione di fronte ai dati del reale"

Già Omero aveva dipinto l'apprensione di Andromaca per Ettore come mania (Il., VI, 389; XXII, 460), ma mentre all'origine di essa c'era un dato esterno, la sorte del proprio sposo in guerra, alla base dell'esasperazione di Saffo non pare esserci nient'altro che il proprio io alle prese con una spirale di ossessività.

Una situazione simile, del resto, emerge anche nell'ambito di un altro celebre


frammento:


Di nuovo mi assilla Eros che scioglie le membra (Ἔροϲ δηὖτέ μ᾽ ὀ λυσιμέλης δόνει), dolceama- ra (γλυκύπικρον) invincibile creatura; ma tu, o Atthis, ti sei stancata di pensare a me e voli verso Andromeda (Saffo, fr. 130 Voigt)




Anche qui viene rappresentata una situazione di rifiuto: Atthis, ragazza che com- pare in altre liriche di Saffo (fr. 49; fr. 96 Voigt) e verso la quale ella sembra nutri- re un particolare interesse, le si dimostra indifferente. Da qui lo scatenarsi dell'e- ros che squassa, assilla (δόνει la poetessa, che viene dipinto come una fiera contro la quale è impossibile vincere (ἀμάχανον) e che si caratterizza per la sua contraddittorietà: coniando un ossimoro che apre la strada ad altre invenzioni ana- loghe, Saffo definisce l'amore "dolce-amaro" (γλυκύπικρον), esprimendo così l'intuizione di un'esperienza psichica destabilizzante in quanto duplice. Come fa notare Di Benedetto, già Omero aveva utilizzato un ossimoro nella rappresenta- zione di Andromaca che, dopo aver parlato con Ettore e aver ripreso in braccio loro figlio, "sorrideva piangendo" Il., VI, 484) Ma, mentre in quel caso esso sorgeva dalla complessità della situazione in cui il personaggio si trovava in rela- zione ad avvenimenti e interlocutori esterni, nel caso della poetessa di Lesbo non interviene alcunché da fuori, ovvero "in lei l'ossimoricità nasce dall'interno della sua psiche e si alimenta della sua nevrosi"

Ma che Saffo stessa percepisse la sua situazione come malattia, viene testimoniato anche dal sopraccitato fr. 31: nel guardare la ragazza della quale è innamorata sta- re innanzi ad un uomo parlandogli e sorridendogli, le sue reazioni sono simili a quelle di qualcuno affetto da un morbo del quale la poetessa elenca con precisione i vari sintomi (vv. 7-16) A conclusione della descrizione di tale sintomatologia, Saffo rende l'idea della percezione che ella ha di se stessa scrivendo: "e poco lon- tana da morte/ sembro a me stessa (φαίνομ᾽ ἔμ᾽ αὔται; 16)". La lirica iniziava con un'espressione simile, "mi sembra" (φαίνεταί μοι), ma lì era utilizzata per

rendere un dato esterno in maniera soggettiva: le sembianze, che la poetessa giudica divine, dell'uomo che siede innanzi alla ragazza. Sul finale, invece, la donna di Lesbo sembra "riflettere su se stessa e sul suo dissociato sentire"

Interessante è anche l'uso che Saffo fa di locuzioni che evidenziano il fatto che spesso si agisca contro la propria volontà: è il caso di Afrodite, che risponde alla supplica della poetessa dicendo che la persona oggetto del suo amore l'amerà "pur contro il suo volere" (κωὐκ ἐθέλοισα; fr. 1, 24 Voigt), o della fanciulla che di- chiara la sofferenza provocatagli dal doversi allontanare dalla donna di Lesbo di- cendo: "davvero contro il mio volere ti lascio" (fr. 94, 5 Voigt).

Tornando alla concezione dell'eros come malia che pervade l'uomo in maniera si- mile a una follia o a una malattia, essa è riscontrabile anche in altri esponenti della lirica arcaica:



[] Per me Eros


in nessuna stagione si posa: ma come il tracio Borea, avvampante di folgore,

balza dal fianco di Cipride con brucianti


follie (μανίαισιν) e tenebroso, intrepido, custodisce con forza, saldamente,

il mio cuore (ἁμετέρας φρένας). (Ibico, fr. 5/286, 6-13 Page)



Infelice, nel desiderio io giaccio,


senza vita, per volere degli dei da dolori tremendi trafitto nelle ossa.

(Archiloco, fr. 193 West)



Questo sentimento d'amore, però, non viene ancora sentito come qualcosa che sgorga interamente dall'intimo del poeta giacché sono pur sempre Eros ed Afrodi- te a infonderlo nel suo animo. Gli dèi, quindi, sono vivi, presenti e attivi nel mon- do della lirica come in quello dei poemi omerici e il sentimento individuale pare rivelarsi solo quando è precluso da una difficoltà, prendendo, come tale, la forma di una reazione a un impedimento, di uno scarto fra realtà e desiderio Proprio del poeta è solo il dolore dell'amore infelice che, inserendosi nel più vasto mo- vimento di alternanza delle sorti del mondo, porta ad un senso di impotenza (ἀμηχανία), di rassegnazione, alla sopportazione Lo stesso motivo torna anche quando è la vita stessa a riservare difficoltà e alla dolce giovinezza fa seguito la temuta vecchiaia:



Come le foglie che fa germogliare la stagione di primavera ricca di fiori, appena cominciano a crescere ai raggi del sole, noi, simili ad esse, per un tempo brevissimo godiamo i fiori della giovinezza, né il bene né il male conoscendo dagli dei Oscure già le Kere, l'una avendo termine della penosa vecchiaia, l'altra della morte. Breve via ha il frutto della giovinezza, come la luce del sole che irradia sulla terra.

E quando questa stagione è trascorsa, subito allora è meglio la morte che vivere. Molti mali giungono nell'animo: a volte, il patrimonio si consuma, e seguono i dolorosi effetti della povertà; sente un altro la mancanza dei figli, e con questo rimpianto scende nell'Ade sottoterra; un altro ha una malattia che spezza l'animo. Non v'è un uomo al quale Zeus non dia molti mali. (Mimnermo, fr. 8 Gentili-Prato)


E che la morte venga auspicata a liberazione dagli affanni dell'età avanzata, come nel precedente caso di Mimnermo, o che susciti sgomento, come nel caso di Ana- creonte ("Per questo io piango/ spesso, temendo il Tartaro"; fr. 36, 7-8 Gentili) es- sa è ancora una volta evento ineluttabile giacché "per chi è andato giù/ è destino non risalire"


L'unica immortalità possibile, allora, è quella data dal canto poetico le vicende umane, di per sé, sono caduche e rischiano di essere travolte dal passare del tem- po. Così, come Omero invocava la Musa, depositaria della conoscenza e testimo- ne degli eventi passati, per poter dar vita al proprio canto, anche i lirici si rivolgo- no alla divinità per strappare momenti di vissuto dal tumulto dell'eterno divenire e fissarli in versi. Nel ricevere in dono un canto trasmessogli dalle Muse onnipre- senti e onniscienti, il poeta "ascolta": l'uomo, infatti, nulla sa e sta a udire solo la fama. La parola poetica, quindi, fa essere, realizza (κραίνει), fissa personaggi e vicende sottraendole dall'Oblio che altrimenti le dissolverebbe. Per questo Memo- ria è al tempo stesso facoltà dei poeti Mnéme) e madre delle Muse Mnemosyne), ispiratrice degli stessi. Questo induce Galimberti a ritenere che il canto poetico sia la prima espressione di un legame fra anima, trascendenza e immutabilità



Memoria (Μνήμη) sottrae l'eroe all'Oblio (Λήθη) e lo consegna a Verità che trionfa sulle tenebre notturne. (Bacchilide, XII, 203-204)



Per volere divino il poeta si configura così come un veggente capace di vedere con organi altri da quello della vista: posseduto da Memoria fino a raggiungere una condizione di entusiasmo - da ἐνθουσιασός, termine formato da ἐν e θεός e che letteralmente si potrebbe tradurre con "Dio in sé" o "indiamento", "invasamento divino" -, egli è in grado di vedere l'invisibile, di indagare quel buio che è sino- nimo di tutto ciò che di sconosciuto c'è dentro e fuori l'animo umano, ma che è anche il luogo di un possibile incontro con gli dèi ed i loro profeti.

Cecità e profezia, indissolubilmente legate fin dal mito di Tiresia, lo sono altret- tanto nell'idea greca di una mente che può trovare la conoscenza nel e dal buio. I veggenti, oltre ad esser spesso rappresentati come ciechi, operano in recessi oscuri (μυχοί) che rappresentano luoghi di importanza fondamentale nel corso di tutto il pensiero greco antico: come la grotta delle Ninfe di Itaca Od., XIII, 109 sgg.), o il recesso da cui Eschilo fa sorgere il sogno profetico di Clitemestra Choeph., 32-35), o la caverna del mito platonico Resp., 515a), o l'antro da cui nasce l'ani- ma secondo l'opinione neoplatonica.

Al nesso fra cecità fisica e profezia, d'altronde, mi pare possa essere accostato an- che quello evinto da Guidorizzi fra accecamento mentale e follia due forme di devianza spesso sentite come affini nella cultura greca antica per il fatto di avere a che fare con visioni alternative a quelle derivanti dagli organi corporei e dalla re- altà sensibile. La follia, infatti, può rappresentare non solo "il baratro buio della ragione, ma anche l'incontro con sfere nascoste della mente e con una dimensione dalla quale un essere umano resta escluso finché la mente non lo abbandona" ovvero, può esser sinonimo di un mezzo mediante il quale forzare e valicare i con- sueti limiti conoscitivi dell'uomo. Pertanto, se per i filosofi e i medici del V sec. a.C. la pazzia assumerà sempre più le sembianze di una stato patologico da curare ed evitare, il suo significato alle origini della civiltà greca risulta molto più com- plesso e ambiguo, a tal punto da far assumere ad alcune delle sue manifestazioni la dignità di un linguaggio alternativo mediante il quale l'essere umano si può e- sprimere.

Inoltre, ha rilevato Padel, come poeti e veggenti operano in luoghi oscuri e nasco- sti, così dentro l'uomo le viscere (σπλάγχνα) occupano bui recessi interiori e di esse viene detto, sia in ambito letterario che nei primi scritti medici, che si tingono di nero nel tumulto provocato dalla passione o dalla malattia Al pari degli ora- coli e dei profeti, anche le interiora possono essere consultate, come fanno alcuni personaggi omerici rivolgendosi al proprio cuore o thymós, in quanto enigmatiche ma anche perché fonte di possibile conoscenza. L'oscurità, quindi, rappresenta sia la condizione che il colore delle viscere e questo aspetto, unito alla molteplicità e alla concretezza con cui fin dai poemi epici viene rappresentato il corpo, costitui- sce il nucleo degli attributi con cui la mentalità greca antica fa riferimento al pen- siero, alla sensazione e alla conoscenza umana, ovvero tutto quel complesso di esperienze che attualmente riteniamo appartenere alla sfera psichica.

Per come l'abbiamo descritta, quindi, la creazione poetica contiene qualcosa che non è stato scelto bensì concesso dagli dèi e la controparte del dono di una vista superiore (ἐποπτεία) è la cecità per le cose terrene: per esempio, è una Musa a to- gliere a Demodoco la vista corporea per concedergli il dono del canto Od., VIII,

63-64), e la stessa cosa vale per Calcante, Tiresia e per lo stesso Omero, tradizio- nalmente raffigurato come non vedente.

Reso entusiasta dalla Musa ispiratrice, il poeta-veggente "indaga il buio" e col suo canto si sottrae al ritmo della vita quotidiana, trascende la scansione del tempo li- neare, verso un ideale di sapienza costituito dalla conoscenza delle "cose presenti, future e passate". Questo stesso ideale, che viene attribuito da Omero all'indovino Calcante (Il., I, 70), lo ritroviamo nei lirici, in Esiodo, che nella Teogonia lo asse- gna alle Muse (38) e lo rivendica a sé (32), e nei versi di Euripide:



Quando invero il dio entra possente nel corpo fa dire il futuro a coloro che infuriano. (Bac., 299-300)




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