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I feuilletonisti italiani




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I feuilletonisti italiani


Anche in Italia il romanzo d'appendice nasce essenzialmente come erede del romanzo storico, che ha per maggiori rappresentanti Cesare Balbo (1789-1835), Santorre di Santarosa e la piemontese Diodata Saluzzo di Roero (1775-1840). Il primo passo verso il feuilleton lo abbiamo nel 1827, anno in cui in riviste quali Il nuovo Ricoglitore, l'Indicatore lombardo e la Rivista europea cominciano ad apparire nuovi romanzi storici, tutti accomunati dal tentativo di accomodare la lingua al tono medio della borghesia. Il Guerrazzi (1804-1873), in particolare, è il più noto rappresentante del romanzo storico risorgimentale, l'unico ad avere un vero peso nella letteratura italiana, nonostante il feroce disaccordo del De Sanctis.

Ma è col tramonto del romanzo storico che comincia a diffondersi in Italia la vera tipologia del feuilleton, sia con la diffusione dei nuovi romanzi d'appendice francesi, sia con la nascita delle cosiddette opere rusticali, contadinesche, che contengono i primi elementi di letteratura popolare ed educativa. Si tratta di una letteratura caratterizzata da sintassi e lessico semplici, che, ripiegata sugli umili, veniva pubblicata su riviste (quali La gallina di Trieste) e periodici. Le opere più tipiche sono di Giulio Carcano (1812-1882) del quale ricordiamo Angiola Maria (1839), Carlo Ravizza (1811-1848) con il suo racconto Un curato di campagna (1841), Francesco Dall'Ongaro (1808-1873) e Caterina Percoto (1812-1827), definita dalla Bianchini come "una contessa contadina friulana che fece le veci in Italia di una Sand un po' troppo rustica".

Volendo ora trattare direttamente i feuilleton italiani, adoperiamo, nella divisione dei vari autori, un criterio cronologico e geografico, ricordando ora che Il Giornale di Sicilia di Palermo, Il Corriere della Sera di Milano, il Mattino illustrato di Napoli, il Messaggero di Roma, la Gazzetta di Torino e l'Illustrazione del Popolo pubblicarono a puntate, tra il 1880 e il 1915 soprattutto, un grandissimo numero di feuilleton italiani e francesi.


1-Il feuilleton a Milano


Nel novembre del 1865 viene pubblicata sulla Rivista minima del Ghislanzoni la prima puntata di Paolina, di Igino Ugo Tarchetti (1839-1869), letterato dal temperamento estroso che collabora a diverse pubblicazioni della scapigliatura, riprendendo e sviluppando motivi d'origine romantica (si dedica a letture straniere: Hoffmann, Poe): il tedio della vita quotidiana, l'attrazione per l'orrido e il gotico, l'incubo della follia e l'ossessione della morte. Con Paolina il Tarchetti rielabora i "misteri" di Sue che tanto l'hanno influenzato, ed applica quella che il Portinari definisce formula del patetico sociale, cioè l'unione, già sperimentata in Francia, del lacrimoso tipico del romanzo d'appendice con l'intenzione di denuncia sociale. Tarchetti è infatti molto sensibile all'idea di romanzo sociale, e proprio sulla Rivista minima pubblica, nello stesso anno di Paolina, un breve saggio dedicato all'inquadramento storico del romanzo europeo, dal titolo Idee minime sul romanzo. Dalle riflessioni riportatevi emerge l'idea che l'autore ha del feuilleton: una struttura ormai consunta e fuori moda, che deve essere rinnovata da nuove strutture ideologiche quali, appunto, la problematica sociale. L'applicazione immediata di questo concetto è particolarmente brillante nella descrizione fisica di Paolina stessa, che, seppur ancora incollata allo schema del Romano, poiché si tratta della fanciulla perseguitata che diventa prostituta redenta in seguito ad una storia d'amore finita con l'abbandono, presenta anche un caratterizzazione fisionomica molto attenta, che lascia trasparire un'idea di innocenza e purezza:

Il suo viso era un ovale inimitabile; l'epidermide, d'una bianchezza e d'una trasparenza abbagliante, lasciava quasi scorgere in alcuni punti la ramificazione azzurra delle vene; una tinta di rose leggiera e incarnata attestava il vigore della gioventù e della salute: un naso greco e affilato, una bocca breve e purissima; le labbra colorite e bene arcate, le ciglia lunghe e pieghevoli, le pupille dell'azzurro più puro del cielo.[3]


La trama è ancora piattamente legata alla tradizione: Paolina, operaia orfana e fidanzata con Luigi, un giovine bello, povero e onesto[4], è perseguitata dal marchese B., un volgare seduttore che non viene neanche descritto fisicamente, come Don Rodrigo nei Promessi Sposi (1840), e che, per possedere la fanciulla, costringe Luigi ad uno scontro con i suoi servi per farlo incarcerare e promette a Paolina di liberarlo se sarà gentile e accondiscendente con lui. Così accade, senonchè la protagonista, una volta abbandonata, scopre, secondo la solita agnizione, di essere stata sedotta del padre, e muore dal dolore.

L'aspetto più interessante è invece, come già detto, l'accusa sociale, secondo la quale "gli umili del romanzo storico si trasformano nei poveri del romanzo sociale" (Romano) . Dunque abbiamo, come nei Misteri di Parigi, il contrasto tra gli eleganti e lussuosi ambienti, questa volta i saloni del teatro della Scala, e i quartieri degradati dove risiede il proletariato. Particolarmente vigorosa è la Milano delle vie notturne, che ci viene presentata mentre sono in atto delle violente lotte a colpi di pugni:

negli intervalli di silenzio si poteva udire un rumore cupo e lontano, simile a quel muto incalzarsi delle onde in un seno di mare dopo una tempesta: eran grida di dolore soffocate, talora seguite da un tonfo, o troncate a mezzo da una caduta, un gemere compresso, un ansare affannoso; si vedeva un rialzarsi, un ricadere, un avventarsi, un agitarsi sullo spianato della via, dove la luna e i fanali riflettendo in un campo bianco quei corpi e quelle braccia, e moltiplicandoli sotto mille forme mostruose, simulavano una battaglia di giganti.[6]


Quello di cui abbiamo parlato è tra i primi romanzi sociali della letteratura scapigliata, che affida alla narrativa d'appendice l'indagine sui problemi reali per un contatto immediato col pubblico. In particolare Cletto Arrighi (1830-1906) descriverà con molta energia la Milano dei bassifondi, non solo in La scapigliatura e il 6 febbraio (1862) e negli Ultimi coriandoli (1857), ma anche nel saggio Il ventre di Milano. Fisiologia della capitale morale (1888). Quest'ultimo ci ricorda Zola, e a questi l'Arrighi si ispira soprattutto nella seconda fase della sua produzione, dalla struttura narrativa di impianto naturalistico ma con ancora il gusto del romanzesco e dell'avventura: tale, insomma, che sia ancora legittima l'etichetta di romanzo d'appendice.


2-Il feuilleton a Napoli


Il grande erede di Sue, in Italia, fu Francesco Mastriani (1819-1891), autore di La cieca di Sorrento (1852) e della Sepolta viva (1889), ma soprattutto dei Misteri di Napoli (1869-70), con il quale elegge la sua città patria del feuilleton italiano. Romanziere di successo nella seconda metà dell'Ottocento, è stato in seguito ignorato fino ai giorni nostri; oggi dice di lui il Luti: "Mastriani è divenuto, per noi lettori d'oggi, un classico scrittore da antologia, il maestro della scena drammatica, il regista abilissimo della inquadratura d'azione. Un Fleming d'altri tempi" . Benedetto Croce fu uno dei suoi pochi estimatori nel periodo buio:

C'era invece allora in Napoli un romanziere d'appendici, che è non solo importante per la conoscenza dei costumi e della psicologia del popolo e della piccola borghesia partenopea, ma rimane il più notabile romanziere del genere che l'Italia abbia dato[8]


Tra i primi romanzi di questo impiegato alle dogane e ripetitore privato di francese e inglese abbiamo Sotto altro cielo (1848) e La cieca di Sorrento (1852), nei quali ritroviamo ancora una volta gli elementi tipici del gothic novel e del feuilleton francese (rapimenti, travestimenti, furti); vediamo un brano tratto dal secondo romanzo:

In quel momento un orribile sogno passava pel capo di Albina. Le pareva che un uomo di orrendo aspetto fosse entrato in quella camera dal balcone della terrazza; che si fosse accostato al letto, in cui ella e la bambina riposavano, che avesse sollevata la fitta coperta.e, nel tempo stesso, un sudor freddo bagnava la fronte e le gote della giovane madre, e un orrendo brivido le faceva tremare le membra, che ella cercava di nascondere agl'infami sguardi di quell'uomo[9]


Fin dagli inizi troviamo però anche alcuni indizi che mostrano un interesse per i bassifondi di Napoli, interesse che si esprimerà al meglio ovviamente nei Misteri. Già nella Cieca, infatti, la città e guardata con attenzione, soprattutto per i particolari, anche se è ancora la visione d'insieme a suscitare emozioni nel cuore della protagonista:

In quel labirinto d'infiniti vicoli, ronchi, stradelle non più larghe d'un distendersi di braccia, dai cento barbari nomi, vestigia funeste di straniere dominazioni, attraversando le quali si ha sempre una certa sospensione d'animo, come quando si visita un carcere o un ospedale; in quell'ammasso di luride e nere case ammucchiate le une sulle altre, e così poco rallegrate dalla luce del sole; in quei quartieri dove l'occhio e il pensiero della opulenza penetrano di rado, e che pur raccolgono nelle umide loro pareti oneste famiglie di operai, in quella rete, insomma di popolati chiassuoli antichi, di cui si compongono i quartieri del Mercato, del Pendino, e del Mandriacchio e che con un solo e generico nome si dicono la Vecchia Napoli, vi è un vicoletto storto, oscuro e fetido che porta il nome di Vico Chiavetti al Pendino.[10]


I Misteri di Napoli compaiono in 93 dispense nel 1870, e sono il primo autentico feuilleton italiano. Protagonista indiscussa è la confusione, l'insieme delle difficoltà che vive la città all'indomani dell'Unità d'Italia, e questa confusione sembra impossessarsi anche della struttura, a sua volta caotica. Nonostante ciò, la struttura, l'intreccio, è proprio il punto di forza del romanzo, poiché con uno straordinario montaggio il Mastriani fa emergere liberamente dalla narrazione rumori, colori e odori della sua città, evitando le lunghe parentesi descrittive tipiche di Balzac. Napoli è infatti studiata a fondo non tanto nelle pure descrizioni delle strade o dei vicoli (come avveniva nella Cieca), ma attraverso la rappresentazione della vita dei suoi abitanti:

Cessato era il fioccar della neve; ma tutti quei vicini villaggi e casolari ne erano ricoperti come da immensa coltre. Qualche punto di fuoco compariva a distanza in mezzo alla candida massa, e le sagome dei culminanti fumaioli, le sole che restassero scoperte, si mostravano qua e là nerissime e fantastiche, dando l'impressione di monaci avvolti nei loro cappucci, che se la divertissero a fumare su una vastissima terrazza di marmo.[11]


Volendo ora cercare gli indizi dell'impegno sociale del Mastriani all'interno del romanzo, oltre alle descrizioni realiste dei vari ambienti, un elemento che è presente in numerose pagine è quello del brigantaggio, piaga sociale tipica dell'Italia meridionale che esplose tra il 1861 ed il 1865:

Il brigante calabrese è coraggioso, ardito, intraprendente, fiero, inesorabile cogli uomini della forza legale, generoso, compassionevole e larghissimo verso i poveri e i bisognosi. La parola "furto" disorienta il brigante calabrese. Egli non ruba, ma toglie ai ricchi il superfluo per dare il necessario ai bisognosi.[12]


Come notiamo la descrizione precedente è assolutamente accessibile al lettore: non occorre documentarsi ulteriormente sul brigantaggio per sapere di cosa si tratti (se non per averne una visione d'insieme più oggettiva). Mastriani infatti si preoccupa sempre di fornire al lettore il materiale necessario per seguire la narrazione senza intoppi, come succede nel brano seguente:

Il giovane dal quale Cecatiello si congedava era un capo venditore di basi.

Che cos'è nel gergo un venditore di basi

Tra tutti i delitti contro la società la ruberia è il più svariato: e i corifei di questa mimica non ballano a coro, ma ciascheduno ha un passo assegnato. Il furto ha le sue classi elementari, ginnasiali, liceali, ha una grande scala d'impiegati, dal capo sezione all'ultimo spazzino Il venditore di basi è press'a poco il ministro delle finanze della vasta industria ladresca. Egli presenta gli schemi ovvero i progetti più plausibili e più o meno sicuri di furti. Non c'è ladro che non faccia capo a lui[13]


Concludendo il discorso sul Mastriani, riportiamo una considerazione del Romano che sottolinea, tra gli aspetti del romanzo analizzati, quelli che più contribuiscono al successo dell'opera. La struttura narrativa del Misteri di Napoli, mediante l'impiego sistematico della mitologia romantica, ottiene gli esiti sociologicamente più interessanti della lettura popolare italiana. Attraverso il soddisfacimento delle esigenze di evasione del lettore, ottenuto con il gioco del romanzo d'appendice coincide sempre con le proiezioni fantastiche del pubblico (Romano) .


3-Il feuilleton a Palermo


Essendo la narrativa d'appendice un ottimo laboratorio per collaudare e sottoporre al pubblico le proprie opere, non sorprende che anche grandi autori (quelli che vanno oltre la paraletteratura, per intenderci) abbiano scritto ai feuilleton: uno di questi è il Verga (1840-1922) della prima fase romantica, nella quale spiccano in particolare due romanzi: I carbonari della montagna (1862) e Sulle lagune (1863).

Il primo è un romanzo storico dove la struttura appendicistica è particolarmente evidente nell'esasperazione dei toni e nel gusto dei contrasti: ad esempio sentimenti di odio e amore in uno stesso personaggio, che si alternano sistematicamente. Ma è di scena soprattutto la passione sfrenata della protagonista Carolina, donna fatale che seduce l'eroe romantico Corrado:

Carolina era animata, tremante di emozione. I suoi magnifici occhi neri brillavano, il suo seno si sollevava palpitante, sotto la mussolina della sua veste, elle si curvava su di me, inginocchiato sul tappeto, per farmi sentire tutto il fascino della sua voce tra i suoi labbri di cinabro, arcuati al bacio dell'amore. Io ebbro, in un sogno ideale di felicità, avrei desiderato la morte per eternizzare quell'istante , in cui, stringendola nelle mie braccia, fra cui sentivo palpitare quella vita, coprendola di baci, m'immedesimavo quasi a quell'esistenza in un'esaltazione fantastica, per levarmi fino al cielo di quella felicità, mentre avrei trasfusa la mia vita su quelle labbra per provare l'istante supremo dell'unione di due spiriti.[15]


Il Verga non ci risparmia neanche toni truculenti e grotteschi, già noti nei feuilleton, soprattutto nella scena di morte per impiccagione di Guiscard, l'antagonista dell'eroe:

il suo terrore prese tutte le gradazioni le più schifose che possano degradare l'umanità; egli si strascinò come un rettile per baciare i piedi ad uno ad uno ai suoi cupi ed inflessibili guardiani, gridò, pianse, si strappò i capelli, in una convulsione di tutte le membra, finalmente, annientato, si rovesciò sui ginocchi, coi lineamenti lividi, ancora tremanti di un parossismo nervoso, con una schiuma sanguigna alla bocca, coi capelli stillanti di sudore, appiccicati sulla fronte e sulle tempie. Un istante quel corpo quasi inerte fu sollevato sulle braccia di due robusti contadini; poi, nel punto che la fune dovea abbracciare quella testa col suo nodo di serpente, si videro un momento tutti i membri sbattere in un parossismo di convulsioni, le pupille dilatarsi con un'orrenda espressione, le mascelle stirarsi spaventosamente per emettere un grido rauco e inarticolato, che gorgogliò fa la schiuma che ingombrava le sue labbra.. E pochi secondi dopo si vide quel corpo, ributtante per l'espressione di quel viso, cogli occhi ancora spalancati e la schiuma alla bocca, gocciante del sangue delle sue ferite, dondolare appeso alla forca. La spianata era restata deserta e muta, come se la maledizione di Dio pesasse su quel cadavere.[16]


Sulle lagune è ambientato a Venezia nel 1861, durante l'occupazione austriaca, ed è incentrato sulla storia d'amore tra Giulia e Stefano, ostacolata dalla perfidia del conte austriaco De Kruenn. I due elementi interessanti da sottolineare sono la dimensione incantata del notturno lunare di Venezia:

La luna cominciava a sorgere e rischiarava i tetti di piombo di S. Marco e del Palazzo Ducale; quando giunsero alla Piazzetta, quella luce dolce e vaporosa lambiva leggermente le acque della laguna da un capo all'altro del Canale di S. Marco e della Giudecca e disegnava contorni, fantasticamente velati nella trasparenza di quella nebbia inargentata, dell'isola di S. Giorgio e della Giudecca.[17]


ed i toni di erotismo pre-dannunziano[18] che aumentano soprattutto nell'incontro amoroso finale tra Stefano e Giulia sopra una gondola:

Le labbra infuocate del giovine cercano quelle della fanciulla che gli sfuggono tremanti, ma che quando vi si posano vi si attaccano umide e stillanti, vi tremano di un'arcana convulsione d'ansia, di delirio, d'immenso desio, come se in fondo a quei baci, che ne formano uno solo, volessero trovare il supremo momento di quell'amore ardente che li empia di fremiti e di sussulti.[19]


Restando ancora nell'area palermitana, il romanzo d'appendice siciliano più popolare è senz'altro I Beati Paoli di Luigi Natoli, pubblicato sul Giornale di Sicilia in 239 puntate dal maggio 1909 al gennaio 1910, con lo pseudonimo di William Galt. Si tratta di un romanzo storico-popolare ambientato nella Palermo del primo Settecento, con al centro della narrazione le vicende della setta segreta dei Beati Paoli, che, proprio come abbiamo già visto parlando del Conte di Montecristo e di Rodolfo nei Misteri di Parigi, svolge la funzione dell'eroe giustiziere e vendicatore, tramite l'essenziale tecnica del travestimento, con la maschera dal cappuccio nero.

Ciò che ci interessa maggiormente è comunque la perfetta ricostruzione della Palermo di 100 anni prima, che presenta, oltreché i vecchi quartieri, le strade, i conventi ecc., anche un misterioso labirinto sotterraneo di grotte e corridoi dove agiscono i Beati Paoli; in particolare, ella sala del tribunale i capi giudicano i colpevoli:

Una scala nel tufo, lubrica per l'umidità, scendeva giù per una quindicina di scalini. Una lanterna posta a piè della scala indicava un corridoio, al quale serviva di guida un tenue bagliore rossiccio, che si riverberava dalla parete di fondo () Le persone percorrevano il corridoio, piegavano a sinistra seguendo il riverbero, giungevano in una specie di sala spaziosa illuminata da lanterne appese alle pareti; prendevano posto su pietre rotolate lungo le pareti e su scanni. In fondo alla stanza v'era una specie di tavolino, del quale non si vedeva che il piano illuminato debolmente. Dietro il tavolino stavano seduti quelli che parevano i capi. Le lanterne diffondevano una luce misteriosa, che ingrandiva le ombre e dava a quei personaggi un aspeto fantasticamente spaventevole. Avevano tutti il volto coperto.[20]


Un esempio della Palermo colpita dalla carestia del 1773:

Le strade di Palermo offrivano di giorno e di notte uno spettacolo di miseria che faceva rabbrividire. Di giorno erano torme di poveri, in gran parte giunti dalla provincia, dai feudi, che domandavano l'elemosina dinanzi la porta delle chiese e per le strade; si affollavano dinanzi ai conventi per ricevere una scodella di minestra o un pezzo di pane, che soltanto i più fortunati, che arrivavano per primi, potevano avere. Di notte erano qua e là grovigli di corpi umani, che riparati nel vano dei portoni, o sulla soglia delle chiese, o sotto le tettoie e i banchi delle botteghe, si addossavano l'uno sull'altro per riscaldarsi. Chi non dormiva raspava fra le immondizie, contendendo ai cani un tozzo o un osso non del tutto spolpato o gli avanzi delle ortaglie. Ovvero si appostava nell'ombra, armato di uno stile, per aggredire l'incauto viandante notturno e derubarlo. La frequenza delle aggressioni impensieriva tutti; l'andare per le strade diventava pericoloso, non appena scendeva la notte.[21]


I Beati Paoli ebbe un grandissimo successo e si diffuse in tutte le classi sociali.


4-Il feuilleton a Torino


Carolina Invernizio (1858-1916) è la più produttiva scrittrice di feuilleton italiani (più di 120 romanzi in 40 anni di attività), ed è anche la prima ad aver indirizzato la paraletteratura prettamente verso l'ambiente familiare. Sposa e madre esemplare, pubblicò i suoi romanzi a puntate sulla Gazzetta di Torino e su L'opinione nazionale di Firenze, ottenendo sempre uno strepitoso successo di pubblico che era spesso attratto dai titoli terrificanti e dalla didascalia pubblicitaria che veniva presentata all'inizio della pubblicazione dei romanzi. Vediamone una:

Il fantasma di Valentino

In questo nuovo lavoro, la nostra gustatissima appendicista dimostra una volta di più che oggi in Italia vi ha chi sa comporre il romanzo in modo da non invidiare menomamente gli scrittori stranieri i più in voga.

Il fantasma di Valentino

come tutti gli altri romanzi della chiara autrice, non solo desterà profondo interesse e viva commozione, ma anche un sentimento potente di sorpresa e di sostenuta curiosità, per la novità dei casi e la singolarità dell'intreccio, che, senza cadere mai nello strano e nell'inverosimile, raggiungono il colmo della più assorbente attrattiva.

Non diciamo di più, convinti che i nostri assidui col loro unanime suffragio constateranno che Il fantasma di Valentino riuscirà uno dei più grandi successi del giorno (Gazzetta di Torino, 1-2 luglio 1889)


Quanto contenuto nel testo precedente, seppur esaltato, è indubbiamente esatto per quel che riguarda i sentimenti che la Invernizio suscitava nei lettori.

Dal suo primo romanzo, Rina o l'Angelo delle Alpi (1877), ai più noti Il bacio di una morta (1903) e La sepolta viva (1900), la Invernizio chiarisce la sua preferenza per la narrazione di storie a forti tinte, passionali e sanguigne. Le sue storie sono spesso tratte dalla cronaca nera o dalla cronaca giudiziaria, storie un po' strane alle quali viene saggiamente accompagnato un ambiente piccolo borghese e familiare, che lega alle pareti domestiche i confini naturali e gli ideali di vita.

Per quel che riguarda le tematiche specifiche proponiamo uno schema del Romano che riassume il tutto in modo chiaro e sintetico:


tensione scioglimento

scambio di persona agnizione

travestimento smascheramento

rapimento ritrovamento

pedinamento rivelazione

punizione

tradimento

perdono

maledizione pentimento

delitto castigo

danneggiamento vendetta

seduzione conquista

suicidio

morte

pazzia

matrimonio vita


L'intento didattico è evidente: la Invernizio, come più tardi farà Liala, vuole mostrare alla massa incolta dei suoi lettori a quali tremende conseguenze possa portare un comportamento scorretto o ribelle. Però, mentre giudica con severità il proletariato, si mostra talvolta indulgente nei confronti degli errori delle classi superiori, che possono permettersi di peccare senza danno. In effetti la distinzione dei ruoli sociali è sottolineata persino in un suo discorso tenuto alla Società Operaia di Napoli nel 1890, che rappresenta quasi un manifesto ideologico della sua borghesia reazionaria alla fine del secolo.

Lo sfondo ricorrente nei suoi romani sono le città di Firenze e Torino, proprio quelle in cui visse in diversi periodi della sua vita. Dalle sue descrizioni emerge un'atmosfera di tragicità, spesso suggerita dalle tenebre della notte, che punta esclusivamente al coinvolgimento emotivo del lettore:

Una nebbia fittissima, una delle prime nebbie autunnali, era sorta dal Po, ed aveva avviluppato a poco a poco la città. Si era sospeso il servizio dei tram: i lampioni facevano l'effetto di tante lucciole; molti negozi si chiudevano; la gente si affrettava a rincasare. Era una di quelle sere in cui si sta bene chiusi in una stanza, magari presso al fuoco o meglio ancora nel tepore del letto.[23]


Erano circa le dieci ci sera: una sera di gennaio freddissima, buia. Soffiava in vento che metteva il gelo nelle ossa. Le strade erano deserte, mai portinai non avevano ancora chiuso i portoni e sonnecchiavano vicino alla stufa aspettando l'ora prescritta per la chiusura.[24]



Con Carolina Invernizio si è soliti indicare la fine della letteratura d'appendice. Dopo la prima guerra mondiale il pubblico è cambiato, e con esso il gusto per la lettura non impegnativa che si evolve verso forma puramente evasive. Nascono il genere poliziesco e lo spionaggio; dagli U.S.A. arriva la fantascienza.







BIBLIOGRAFIA


AA.VV., La paraletteratura, Liguori, Napoli, 1977

G. Bordoni e F. Fossati, Dal feuilleton al fumetto: generi e scrittori della letteratura popolare, Collana libri di base, editori riuniti, Roma, 1985

A. Bianchini, Il romanzo d'appendice, ERI, Torino, 1969

M. Romano, Mitologia romantica e letteratura popolare, Longo, Ravenna, 1977

G. Petronio, Letteratura di massa e di consumo. Guida storica e critica, Laterza, Roma-Bari, 1979

G. Zaccaria, Il romanzo d'appendice. Aspetti della narrativa "popolare" nei secoli XIX e XX, Paravia, Torino, 1977

G. Armellini e A. Colombo, Guida alla letteratura italiana, Zanichelli, Bologna 1995

S. Guglielmino e H. Grosser, Il sistema letterario: guida alla storia letteraria e all'analisi testuale - Ottocento, Principato, Milano, 1989




A. Bianchini, op. cit., p. 160

F. Portinari, Narrativa tra idillio e rivolta, in ID., Un'idea di realismo, Napoli, 1979, pp. 147-277

I. U. Tarchetti, Paolina, in Tutte le opere, Bologna, 1979, vol. I, p.261

I. U. Tarchetti, op. cit., vol. I, p. 263

M. Romano, op. cit., p. 81

I. U. Tarchetti, op. cit., vol. I, p. 306

G. Luti, Attualità in Mastriani, introduzione a F. Mastriani, I misteri di Napoli, Firenze, 1966, p. VI

Innamorati, Mastriani non verista, Paragone, 88, aprile, 1957

F. Mastriani, La cieca di Sorrento, Lucchi, Milano, 1966, p. 56

F. Mastriani, op. cit., p.7

F. Mastriani, op. cit., p.47

F. Mastriani, I misteri di napoli, cit., pp. 412-413

si veda: A. Bianchini, op. cit., p. 169

M. Romano, op. cit., p. 108

G. Verga, I carbonari della montagna, Milano, 1975, p. 211

G. Verga, op. cit., pp. 341-342

G. Verga, Sulle lagune, Milano, 1975, pp. 516-517

C. Annoni, Il giovane Verga, introduzione a G. Verga, I carbonari della montagna - Sulle lagune, Milano, 1975, p.70

G. Verga, Sulle lagune, Milano, 1975, p. 576

L. Natoli, Coriolano della Floresta, Palermo, 1972, p. 657

L. Natoli, op. cit., p. 646

M. Romano, op. cit., p. 118

C. Invernizio, I ladri dell'onore, in ID., Romanzi del peccato della perdizione e del delitto, Milano, 1971, vol. II, p.60

C. Invernizio, La figlia della Portinaia, p.6

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