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Hannah arendt: "le origini del totalitarismo"




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HANNAH ARENDT:  "Le ORIGINI del TOTALITARISMO"


La temeraria scelta di denunciare la verità è stata intrapresa anche da Hannah Arendt, che si era prefissa l'obiettivo di studiare gli ingranaggi del sistema totalitaristico.

Hannah Arendt (1906-1975), nata da una famiglia ebrea ad Hannover, dopo gli studi universitari (tra i suoi maestri vi furono Heidegger, con il quale ebbe anche una relazione sentimentale, Husserl e Jaspers) è costretta ad abbandonare la Germania per motivi politici; si rifugia quindi in Francia (1933) e poi si trasferisce definitivamente negli Stati Uniti (1941). Qui insegna in diverse università e continua la sua attività di ricerca sino alla morte, che la coglie mentre si accinge a scrivere la terza e ultima parte de "La vita della mente", l'ultimo suo capolavoro, pubblicato postumo nel 1978.

La sua ricerca inizia con la tesi di dottorato in filosofia sul concetto di amore in Sant'Agostino, pubblicata nel 1929. L'opera che la rende famosa in tutto il mondo è però il monumentale saggio del 1951, scritto in collaborazione con il marito Heinrich Blücher, intitolato "Le origini del totalitarismo", al quale segue, nel 1958, "La condizione umana". Di particolare rilevanza è inoltre "La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme" (1963), redatto in occasione del processo contro il criminale nazista Adolf Eichmann, che aveva mandato a morte centinaia di migliaia di ebrei. La Arendt, che prende parte al processo tenutosi a Gerusalemme come inviata speciale del "New Yorker", si convince che le ragioni profonde dei crimini nazisti risiedano non tanto nella cattiveria o nella mostruosità di alcuni carnefici, ma nell'assenza di pensiero in uomini del tutto normali ("banali") nella vita familiare, che, però, se inseriti in una macchina infernale quale l'organizzazione nazista, diventano capaci delle più disumane atrocità. Queste riflessioni, elaborate da una donna ebrea, emancipata, laica e libera da ogni preconcetto, attirano le critiche dello stesso mondo ebraico, che vi leggono una sottovalutazione del fenomeno nazista e delle sue efferatezze.


"Le origini del totalitarismo", apparso all'indomani della Seconda guerra mondiale e in piena guerra fredda, è una delle più importanti opere storico-politiche del Novecento. In essa l'autrice si propone di analizzare le cause e il funzionamento dei regimi totalitari, considerati come una conseguenza tragica della società di massa, all'interno della quale gli uomini sono resi "atomi", sradicati da ogni relazione interumana e privati dello stesso spazio pubblico in cui hanno senso l'azione e il discorso. Nella "Prefazione" all'edizione riveduta del 1966, Hannah Arendt annota che l'immediato dopoguerra è stato "il primo momento adatto per meditare sugli avvenimenti contemporanei con lo sguardo retrospettivo dello storico e lo zelo del politologo, la prima occasione per cercar di narrare e comprender quanto era avvenuto [.] ancora con angoscia e dolore e, quindi, con una tendenza alla deplorazione, ma non più con un senso di muta indignazione e orrore impotente [.]. Era, comunque, il primo momento in cui si poteva articolare ed elaborare gli interrogativi con cui la mia generazione era stata  costretta a vivere per la parte migliore della sua vita adulta: che cosa succedeva? Perché succedeva? Come era potuto succedere?".

Il contributo offerto dalla Arendt in quest'opera è particolarmente rilevante sotto due aspetti:

quello storico-politico, in quanto analizza i tratti di fondo della storia europea moderna e contemporanea e, in particolare, il periodo che va dagli ultimi vent'anni dell'Ottocento fino alla Seconda guerra mondiale;

quello filosofico-politico, in quanto elabora uno schema generale del regime totalitario, con esclusivo riferimento al nazismo e allo stalinismo, visti come due fenomeni riconducibili alla medesima idea di totalitarismo, essendo del tutto marginale l'interesse per altre forme di dittatura come, per esempio, il fascismo.

La struttura dell'opera è complessa e molto articolata: il libro si divide in tre parti.

La prima è dedicata allo studio del fenomeno dell'antisemitismo, ritenuto una delle premesse del totalitarismo, con un'attenzione particolare alla condizione ebraica nella storia moderna.

La seconda affronta in modo ampio e documentato il tema dell'imperialismo, così come si è venuto configurando nel periodo che va dalla fine dell'Ottocento allo scoppio della Prima guerra mondiale, con il nuovo protagonismo della borghesia (o, almeno, della parte più dinamica di essa), che, per la prima volta aspira al "dominio politico", oltre che a quello economico. L'antisemitismo, coniugato con la crisi dell'imperialismo successiva alla Prima guerra mondiale, è, secondo Hannah Arendt, la causa dalla quale è scaturito il totalitarismo nella Germania nazista e nell'unione sovietica stalinista, a cui deve aggiungersi il fenomeno inedito dell'avvento della società di massa e "senza classi", in cui gli individui sono alla mercè di ristretti gruppi di potere (le èlites) orientati in senso dispotico.

Infine, la terza parte del libro si sofferma ad analizzare proprio i caratteri del totalitarismo nella società di massa, che instaura il suo potere attraverso il binomio ideologia-terrore.


L'ultima parte è più rilevante sotto il profilo filosofico-politico, in quanto la Arendt, senza mezzi termini, afferma che l'essenza del totalitarismo consiste appunto nell'intreccio perverso di "terrore e ideologia". Il terrore è esercitato sia attraverso la polizia segreta, che, con il suo continuo spionaggio, si insinua nella società e nella persona umana fin nella sua intimità,  sia attraverso i campi di concentramento, che hanno la funzione di annientare gli oppositori politici, ormai trasformati in "nemici".

"L'inferno nel senso più letterale della parola era costituito da quei tipi di campi perfezionati dai nazisti, in cui l'intera vita era sistematicamente organizzata per infliggere il massimo tormento possibile".

Di grande rilievo è la trattazione con cui si conclude il saggio della Arendt: quella sull'ideologia totalitaria, che secondo l'autrice ha la pretesa di fornire una spiegazione totale della storia e di conoscerne a priori tutti i segreti, senza bisogno di confrontarsi con i fatti concreti. Inoltre, e cosa ben più grave, l'ideologia totalitaria mira direttamente alla "trasformazione della natura umana" e a capovolgere le stesse norme della logica: "Il tentativo totalitario di rendere superflui gli uomini riflette l'esperienza delle masse moderne, costrette a constatare la loro superfluità su una terra sovrappopolata. La società dei morenti, in cui la punizione viene inflitta senza alcuna relazione con un reato, lo sfruttamento praticato senza un profitto e il lavoro compiuto senza un prodotto, è un luogo dove quotidianamente si crea l'insensatezza. Eppure, nel contesto dell'ideologia totalitaria, nulla potrebbe essere più sensato e logico: se gli internati sono dei parassiti, è logico che vengano uccisi col gas; se sono dei degenerati, non si deve permettere che contaminino la popolazione; se hanno un' "anima da schiavi"(Himmler), non è il caso di sprecare il proprio tempo per cercare di rieducarli. Visti attraverso le lenti dell'ideologia, i campi hanno quasi il difetto di aver troppo senso, di attuare la dottrina con troppa coerenza. Mentre distrugge tutte le connessioni di senso con cui normalmente si calcola e si agisce, il regime impone una specie di supersenso, che in realtà le ideologie avevano in mente quando pretendevano di aver scoperto la chiave della storia o la soluzione degli enigmi dell'universo."

Il testo continua poi con la definizione dell'ideologia:

"Le ideologie sono opinioni innocue, acritiche e arbitrarie solo finchè nessuno vi crede sul serio. Una volta presa alla lettera la loro pretesa di validità totale, esse diventano il nucleo di sistemi logici in cui, come nei sistemi dei paranoici, ogni cosa deriva comprensibilmente e necessariamente, perché una prima premessa viene accettata in modo assiomatico."


Da quanto detto si desume che il totalitarismo, per la Arendt, è la menzogna organizzata dal potere politico, poiché abusa della libertà di non dire la verità. Perciò ella si fa veicolo di quest'ultima e la denuncia attraverso lo studio di quel sistema ideologico che soffoca la verità e perciò costringe ognuno a vivere sotto una cupola di menzogna - oblio.


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