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Epicuro - lettera sulla felicita' (a meneceo)




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EPICURO

LETTERA SULLA FELICITA'
(A MENECEO)






Lettera sulla Felicita' (a Meneceo)
di Epicuro


Meneceo,


(122) Mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell'animo nostro.

Chi sostiene che non è ancora giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza di essa, o che ormai è troppo tardi, è come se andasse dicendo che non è ancora il momento di essere felice, o che ormai è passata l'età. Ecco che da giovani come da vecchi è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità. Per sentirci sempre giovani quando saremo avanti con gli anni in virtù del grato ricordo della felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti in essa, per prepararci a non temere l'avvenire.

Cerchiamo di conoscere allora le cose che fanno la felicità, perché quando essa c'è tutto abbiamo, altrimenti tutto facciamo per possederla.

(123) Pratica e medita le cose che ti ho sempre raccomandato: sono fondamentali per una vita felice.

Prima di tutto considera l'essenza del divino materia eterna e felice, come rettamente suggerisce la nozione di divinità che ci è innata. Non attribuire alla divinità niente che sia diverso dal sempre vivente o contrario a tutto ciò che è felice, vedi sempre in essa lo stato eterno congiunto alla felicità.

Gli dei esistono, è evidente a tutti, ma non sono come crede la gente comune, la quale è portata a tradire sempre la nozione innata che ne ha.

Perciò non è irreligioso chi rifiuta la religione popolare, ma colui che i giudizi del popolo attribuisce alla divinità.

(124) Tali giudizi, che non ascoltano le nozioni ancestrali, innate, sono opinioni false. A seconda di come si pensa che gli dei siano, possono venire da loro le più grandi sofferenze come i beni più splendidi. Ma noi sappiamo che essi sono perfettamente felici, riconoscono i loro simili, e chi non è tale lo considerano estraneo.

Poi abituati a pensare che la morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il soffrire sono entrambi nel sentire, e la morte altro non è che la sua assenza. L'esatta coscienza che la morte non significa nulla per noi rende godibile la mortalità della vita, senza l'inganno del tempo infinito che è indotto dal desiderio dell'immortalità.

(125) Non esiste nulla di terribile nella vita per chi davvero sappia che nulla c'è da temere nel non vivere più. Perciò è sciocco chi sostiene di aver paura della morte, non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in quanto l'affligge la sua continua attesa. Ciò che una volta presente non ci turba, stoltamente atteso ci fa impazzire.

La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c'è, quando c'è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c'è, i morti non sono più. Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai mali che vive.

(126) Il vero saggio, come non gli dispiace vivere, così non teme di non vivere più. La vita per lui non è un male, né è un male il non vivere. Ma come dei cibi sceglie i migliori, non la quantità, così non il tempo più lungo si gode, ma il più dolce.

Chi ammonisce poi il giovane a vivere bene e il vecchio a ben morire è stolto non solo per la dolcezza che c'è sempre nella vita, anche da vecchi, ma perché una sola è la meditazione di una vita bella e di una bella morte.

Ancora peggio chi va dicendo: bello non essere mai nato, ma, nato, al più presto varcare la soglia della morte.

(127) Se è così convinto perché non se ne va da questo mondo? Nessuno glielo vieta se è veramente il suo desiderio. Invece se lo dice così per dire fa meglio a cambiare argomento.

Ricordiamoci poi che il futuro non è del tutto nostro, ma neanche del tutto non nostro. Solo così possiamo non aspettarci che assolutamente s'avveri, né allo stesso modo disperare del contrario.

Così pure teniamo presente che per quanto riguarda i desideri, solo alcuni sono naturali, altri sono inutili, e fra i naturali solo alcuni quelli proprio necessari, altri naturali soltanto. Ma fra i necessari certi sono fondamentali per la felicità, altri per il benessere fisico, altri per la stessa vita.

(128) Una ferma conoscenza dei desideri fa ricondurre ogni scelta o rifiuto al benessere del corpo e alla perfetta serenità dell'animo, perché questo è il compito della vita felice, a questo noi indirizziamo ogni nostra azione, al fine di allontanarci dalla sofferenza e dall'ansia.

Una volta raggiunto questo stato ogni bufera interna cessa, perché il nostro organismo vitale non è più bisognoso di alcuna cosa, altro non deve cercare per il bene dell'animo e del corpo. Infatti proviamo bisogno del piacere quando soffriamo per la mancanza di esso. Quando invece non soffriamo non ne abbiamo bisogno.

(129) Per questo noi riteniamo il piacere principio e fine della vita felice, perché lo abbiamo riconosciuto bene primo e a noi congenito. Ad esso ci ispiriamo per ogni atto di scelta o di rifiuto, e scegliamo ogni bene in base al sentimento del piacere e del dolore.

E' bene primario e naturale per noi, per questo non scegliamo ogni piacere. Talvolta conviene tralasciarne alcuni da cui può venirci più male che bene, e giudicare alcune sofferenze preferibili ai piaceri stessi se un piacere più grande possiamo provare dopo averle sopportate a lungo.

Ogni piacere dunque è bene per sua intima natura, ma noi non li scegliamo tutti. Allo stesso modo ogni dolore è male, ma non tutti sono sempre da fuggire.

(130) Bisogna giudicare gli uni e gli altri in base alla considerazione degli utili e dei danni. Certe volte sperimentiamo che il bene si rivela per noi un male, invece il male un bene.

Consideriamo inoltre una gran cosa l'indipendenza dai bisogni non perché sempre ci si debba accontentare del poco, ma per godere anche di questo poco se ci capita di non avere molto, convinti come siamo che l'abbondanza si gode con più dolcezza se meno da essa dipendiamo. In fondo ciò che veramente serve non è difficile a trovarsi, l'inutile è difficile.

(131) I sapori semplici danno lo stesso piacere dei più raffinati, l'acqua e un pezzo di pane fanno il piacere più pieno a chi ne manca.

Saper vivere di poco non solo porta salute e ci fa privi d'apprensione verso i bisogni della vita ma anche, quando ad intervalli ci capita di menare un'esistenza ricca, ci fa apprezzare meglio questa condizione e indifferenti verso gli scherzi della sorte.

Quando dunque diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il semplice piacere dei goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e l'animo a essere sereno.

(132) Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l'animo causa di immensa sofferenza.

Di tutto questo, principio e bene supremo è l'intelligenza delle cose, perciò tale genere di intelligenza è anche più apprezzabile della stessa filosofia, è madre di tutte le altre virtù. Essa ci aiuta a comprendere che non si dà vita felice senza che sia intelligente, bella e giusta, né vita intelligente, bella e giusta priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili.

(133) Chi suscita più ammirazione di colui che ha un'opinione corretta e reverente riguardo agli dei, nessun timore della morte, chiara coscienza del senso della natura, che tutti i beni che realmente servono sono facilmente procacciabili, che i mali se affliggono duramente affliggono per poco, altrimenti se lo fanno a lungo vuol dire che si possono sopportare ?

Questo genere d'uomo sa anche che è vana opinione credere il fato padrone di tutto, come fanno alcuni, perché le cose accadono o per necessità, o per arbitrio della fortuna, o per arbitrio nostro. La necessità è irresponsabile, la fortuna instabile, invece il nostro arbitrio è libero, per questo può meritarsi biasimo o lode.

(134) Piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell'atroce, inflessibile necessità.

La fortuna per il saggio non è una divinità come per la massa - la divinità non fa nulla a caso - e neppure qualcosa priva di consistenza. Non crede che essa dia agli uomini alcun bene o male determinante per la vita felice, ma sa che può offrire l'avvio a grandi beni o mali.

(135) Però è meglio essere senza fortuna ma saggi che fortunati e stolti, e nella pratica è preferibile che un bel progetto non vada in porto piuttosto che abbia successo un progetto dissennato.

Medita giorno e notte tutte queste cose e altre congeneri, con te stesso e con chi ti è simile, e mai sarai preda dell'ansia. Vivrai invece come un dio fra gli uomini.

Non sembra più nemmeno mortale l'uomo che vive fra beni immortali.





Vita di Epicuro
scritta da Diogene Laerzio

VITA:


Epicuro, figlio di Neocle e di Cherestrata ateniese del demo Gargetto, appartenne alla stirpe dei Filaidi, come ci tramanda Metrodoro nella sua opera La nobiltà di nascita. Fra gli altri anche Eraclide nella sua epitome dell'opera di Sozione scrive che egli fu allevato a Samo, dopo la colonizzazìone ateniese, e che all'età di diciotto anni andò ad Atene, quando Senocrate teneva scuola nell'Accademia e Aristotele in Calcide. Dopo la morte di Alessandro il Macedone e la cacciata dei colonizzatori ateniesi da Samo ad opera di Perdicca, Epicuro riparò a Colofone presso suo padre, dove visse per qualche tempo e si fece anche dei discepoli. Ma poi ritornò in Atene sotto l'arconte Anassicrate.

Per un certo tempo filosofò insieme con gli altri maestri, poi cominciò a insegnare per suo conto fondando la scuola che da lui prese nome. Egli stesso racconta che si accostò per la prima volta alla filosofia all'età di quattordici anni. Apollodoro l'epicureo, nel primo libro della Vita di Epicuro afferma che si dedicò alla filosofia deluso dai maestri di scuola che non furono in grado di spiegargli il Caos in Esiodo. Ermippo però afferma che egli stesso fu maestro di scuola e che in seguito alla lettura dell'opera di Democrito s'indirizzò decisamente alla filosofia. Per questo anche Timone così disse di lui:

Il più scarso dei fisici, e il più svergognato, venuto da Samo, maestro di scuola, il più zoticone dei viventi.

Anche i tre fratelli Neocle, Cheredemo, Aristobulo, incoraggiati da Epicuro, si dedicarono con lui alla filosofia, secondo la testimonianza di Filodemo l'epicuree nel decimo libro della Rassegna dei filosofi, così anche il suo schiavo Mys, come sostiene Mironiano nei Capitoli storici simili.

Diotimo stoico gli fu ostile al punto di calunniarlo odiosamente con la pubblicazione di cinquanta lettere vergognose sotto il nome di Epicuro. Identico fine calunnioso ebbe colui che pubblicò col suo nome una raccolta di lettere comunemente attribuite a Crisippo. Ebbe come calunniatori anche lo stoico Posidonio e la sua scuola, Nicolao, Sozione nel dodicesimo libro delle Confutazioni dioclee (in ventiquattro libri) e Dionigi di Alicarnasso.

A sentire tutti questi Epicuro andava in giro con la madre per le case dei poveri a recitare formule espiatorie e insieme al padre faceva il maestro di scuola per pochi soldi. Poi prostituiva un fratello, conviveva con l'etera Leonzio, e spacciava per proprio il pensiero atomistico di Democrito e la teoria del piacere di Aristippo. Non era neppure cittadino legittimo, sostiene Timocrate e anche Erodoto nel libro Sull'efebia di Epicuro; adulò senza vergogna Mitre, ministro delle finanze di Lisimaco, che nelle sue lettere chiamava 'salvatore' e 'signore', e non risparmiò lodi e adulazioni neppure a Idomeneo, Erodoto e Timocrate, che avevano svelato le sue dottrine più riservate. E nelle lettere a Leonzio scriveva:

Per Apollo salvatore! Quale immensa gioia ho goduto leggendo la tua lettera, cara piccola Leonzio.

E a Temista, la moglie di Leonteo:

Sono capace, se voi non venite da me, a spingermi sulla mia sedia a tre ruote là dove voi e Temista mi dite di venire.

E a Pitocle, che era un bel ragazzo:

Mi accomoderò e aspetterò che tu, desiderato, entri simile a un dio.

Secondo quanto riferisce Teodoro nel quarto libro della sua opera Contro Epicuro, in un'altra lettera a Temista egli si immagina di fare l'amore con lei. I suoi calunniatori aggiungono che fu in corrispondenza con molte altre etere e soprattutto con Leonzio, amata anche da Metrodoro, e sostengono che un passo della sua opera Del fine dica:

Non saprei immaginare il bene senza i piaceri del gusto o le gioie dell'amore o i piaceri che vengono dall'udito o dalla vista.

In un'altra lettera a Pitocle:

Alza le vele, amico, e fuggi ogni genere di cultura.

Epitteto lo accusa di turpiloquio e lo ingiuria molto aspramente. Timocrate, fratello di Metrodoro e discepolo di Epicuro, dopo aver lasciato la scuola, in un'opera dal titolo Cose allegre, scrive che Epicuro era così dedito ai piaceri del cibo che vomitava due volte al giorno e narra che egli stesso riuscì a stento a sfuggire a quella notturna filosofia e a quella setta di iniziati.

Il delirio di questi detrattori è evidente. Epicuro ha sufficienti testimoni della sua immensa bontà verso tutti: la patria che lo onorò con statue di bronzo, tanti amici il cui numero è pari a popolazioni di città intere, tutti coloro che ebbero con lui intima frequentazione, avvinti dall'incanto della sua dottrina, a eccezione di Metrodoro di Stratonicea che passò alla scuola di Carneade forse perché non reggeva l'insuperabile bontà del maestro, la prova della ininterrotta tradizione della sua scuola che, contrariamente a tutte le altre, ancora dura e il vasto numero dei discepoli che si trasmettono lo scolarcato, la gratitudine verso i suoi genitori, la generosità verso i fratelli, la bontà verso i servi, evidente dal suo testamento e dal fatto che essi partecipavano al suo insegnamento filosofico, il più noto dei quali fu Mys, di cui abbiamo accennato, e più in generale la sua benevolenza verso chiunque.

E' difficile rappresentare a parole l'intensità della sua devozione verso gli dei e del suo amor di patria. Addirittura per eccesso di modestia non prese parte alla vita politica. Nonostante i gravi accadimenti politici che allora si abbatterono sulla Grecia, egli non l'abbandonò mai, a parte due o tre viaggi nella Ionia per visitare gli amici. E gli amici accorrevano a lui da ogni parte e convivevano con lui nel Giardino, come riferisce anche Apollodoro (Diocle nel terzo libro del suo Sommario dice che Epicuro aveva comprato il Giardino per ottanta mine), conducendo una vita molto semplice e frugale. Si contentavano - dice - di una tazza di vino da poco, ma di solito non bevevano che acqua. Apollodoro aggiunge che Epicuro rifiutava la comunanza dei beni, quindi anche quanto diceva Pitagora, secondo il quale ogni bene degli amici deve essere in comune. Epicuro sosteneva che ciò comportava sfiducia e senza fiducia non c'è amicizia.

Egli stesso scrive nelle lettere che gli bastava solo un po' d'acqua e un semplice pane, e aggiunge:

Mandami una ciotolina di formaggio conservato in modo che possa scialarmela quando mi viene voglia.

Ecco l'uomo secondo il quale il piacere è il fine della vita! Ateneo lo esalta in un suo epigramma:

Uomini, vi dannate per cose inutili, avidi di guadagno scatenate risse e guerre. Ma la natura non vuole molta ricchezza, mentre voi l'estendete all'infinito. Questo udì dalle Muse il sapiente figlio di Neocle o dai tripodi sacri di Apollo.

Tutto questo poi lo vedremo meglio quando esporremo la sua dottrina e i suoi detti.

Secondo la testimonianza di Diocle, tra i filosofi arcaici preferiva Anassagora, anche se su qualche punto lo confutava, e Archelao, il maestro di Socrate. Diocle ci informa inoltre che esercitava i discepoli a imparare a memoria i suoi scritti. Apollodoro nelle Cronache scrive che Epicuro fu allievo di Nausifane e di Prassifane, però Epicuro lo nega. Nella sua lettera a Euriloco sostiene di essere stato il maestro di se stesso. Epicuro ed Ermarco negano l'esistenza del filosofo Leucippo, mentre l'epicureo Apollodoro e altri affermano che Leucippo fu effettivamente il maestro di Democrito. Secondo Demetrio di Magnesia Epicuro fu discepolo anche di Senocrate.

Nacque, secondo le Cronache di Apollodoro, nel terzo anno della CIX Olimpiade, arconte Sosigene, il giorno settimo del mese di Gamelione, sette anni dopo la morte di Platone. A trentadue anni fondò la sua scuola prima a Mitilene e a Lampsaco, che durò cinque anni e poi la spostò ad Atene dove Epicuro morì nel secondo anno della CXXVII Olimpiade, sotto l'arcontato di Pitarato, all'età di settantadue anni. Gli successe nello scolarcato Ermarco figlio di Agemorto, di Mitilene. Morì di calcoli renali dopo quattordici giorni di malattia, come scrive Ermarco nelle lettere. Ermippo riferisce che Epicuro in punto di morte, entrato in una tinozza di bronzo piena di acqua calda, chiese del vino puro e lo bevve d'un fiato. Dopo aver raccomandato agli amici di non dimenticare il suo pensiero, spirò. Noi abbiamo scritto per lui questo epigramma:

'Salve e siate felici e memori del mio pensiero,' furono le ultime parole di Epicuro agli amici. Entrato nel calore della tinozza, con uno stesso sorso bevve vino puro e il freddo della morte.

Tale fu la sua vita e tale la sua fine. Ecco il suo testamento:

Lascio tutti i miei beni ad Aminomaco, figlio di Filocrate del demo Bate e a Timocrate, figlio di Demetrio, del demo Potamo, secondo la donazione fatta a ciascuno di loro e trascritta nel Metroo, a condizione che il Giardino e le sue dipendenze vengano assegnati a Ermarco figlio di Agemorto, mitilenese, per lo studio della filosofia e ai suoi compagni, e a coloro che Ermarco lascerà successori nello scolarcato, in modo che possano conservarlo nel miglior modo possibile insieme ad Aminomaco e Timocrate. E via via a tutti i membri della mia scuola affido fiducioso la continuità dell'insegnamento nel Giardino e agli eredi dei suddetti affinché anch'essi mantengano il Giardino nel modo più sicuro e integro possibile, come anche coloro ai quali l'affideranno i miei discepoli. La casa di Melite sia data da Aminomaco e Timocrate a Ermarco e ai compagni che con lui filosoferanno perché la abitino finché Ermarco vivrà.

I proventi ricavati dai beni lasciati da me ad Aminomaco e Timocrate siano, per quanto è possibile, suddivisi d'accordo con Ermarco per i sacrifici funebri in onore di mio padre, mia madre e i miei fratelli, per la consueta celebrazione del mio compleanno nel decimo giorno di Gamelione, e per la riunione di tutti i nostri compagni in filosofia il venti di ogni mese, dedicata alla memoria mia e di Metrodoro. Celebrino inoltre il giorno consacrato ai miei fratelli nel mese di Posidone e quello a Polieno nel mese di Metagitnione, come io solevo fare. Aminomaco e Timocrate si prendano cura di Epicuro figlio di Metrodoro e del figlio di Polieno, perché vivano e coltivino la filosofia insieme con Ermarco. Abbiano cura anche della figlia di Metrodoro, e all'età giusta la diano in matrimonio a colui che Ermarco sceglierà fra i suoi compagni di filosofia, perché è brava e ubbidisce molto a Ermarco. Per il loro mantenimento Aminomaco e Timocrate prendano quanto a loro sembrerà giusto dalle mie rendite, anno per anno, sempre sentito il parere di Ermarco.

Diano anche a Ermarco la piena disponibilità di disporre dei miei redditi, affinché ogni decisione sia presa con la piena partecipazione di colui che invecchiò con me negli studi filosofici, e che ho lasciato a capo della mia scuoia. Aminomaco e Timocrate costituiscano la dote opportuna per la fanciulla, quando sarà in età da marito, ricavando dal patrimonio col consiglio di Ermarco. Seguendo quanto io feci quando ero in vita, si prendano cura anche di Nicanore, perché desidero che tutti i nostri compagni in filosofia che mi sono venuti incontro coi loro mezzi e con ogni prova d'affetto scelsero di invecchiare con me nella filosofia, nulla abbiano a patire di ciò che è necessario per vivere.

A Ermarco vada tutta la mia biblioteca. Se prima che i figli di Metrodoro raggiungano la maggior età accadrà a Ermarco qualche umana sciagura, Aminomaco e Timoaate diano loro quanto occorre per farli crescere, attingendo per quanto è possibile alle mie rendite, sempre che si comportino bene. Per tutto il resto si prendano ogni cura secondo le mie disposizioni. Degli schiavi lascio liberi Mys, Nicea e Licone, lascio libera anche Fedrio.

Ecco la lettera che scrisse a Idomeneo in punto di morte:

In questo bellissimo giorno, che è anche l'ultimo della mia vita, ti scrivo questa lettera. I dolori della vescica e dell'intestino non possono essere più lancinanti, eppure la gioia del mio animo riesce ad opporsi a loro per il dolce ricordo del nostro filosofare insieme. Abbi cura dei figli di Metrodoro, come è degno della buona disposizione che fin da giovane avesti verso me e la filosofia.

Tali furono le sue ultime volontà.

Epicuro scrisse moltissimo e in quanto a numero di libri superò tutti. Si tratta infatti di circa trecento volumi. Non vi si trovano mai citazioni di altri, tutto è stato scritto proprio da Epicuro.

Ecco l'elenco dei migliori:

Della natura, libri trentasette; Degli atomi e del vuoto; Dell'amore, Compendio dei libri contro i fisici, Contro i Megarici, Casi dubbi; Massime capitali; Delle elezioni e delle avversioni; Del fine; Del criterio o Canone Cheredemo; Degli dèi; Della religione, Egesianatte, Delle vite, libri quattro; Del giusto operare; Neocle, a Temista; Simposio; Euriloco, a Metrodoro Della vista Dell'angolo nell'atomo; Del tatto; Del destino; Dei sensi interni, massime a Timocrate; Prognostico; Protrettico; Dei simulacri; Della percezione; Aristobulo; Della musica; Della giustizia e delle altre virtù; Dei doni e della riconoscenza; Polimede; Timocrate, libri tre, Metrodoro libri cinque; Antidoro, libri due; Delle malattie, massime a Mitre; Callistola; Della potestà regale; Anassimene; Lettere.


EPICURO

LETTERA A PITOCLE

Epicuro a Pitocle, salve.

Cleonte mi ha portato una lettera da parte tua nella quale continuavi a mostrare benevolenza nei nostri confronti, in maniera degna della nostra sollecitudine per te e, in modo non privo di capacità persuasiva, tentavi di richiamare alla memoria i ragionamenti che tendono a una vita beata e mi chiedevi di mandarti una trattazione sintetica e circoscritta dei fenomeni celesti, per tuo uso, perché potessi più facilmente tenerla a mente: infatti,a tuo dire, ciò che è stato scritto da noi in altre opere è difficile da ricordare, anche se, come affermi, tu porti continuamente con te tali opere. Ebbene, noi, per parte nostra, abbiamo accolto volentieri la tua richiesta, e l’abbiamo sostenuta con dolci speranze. Pertanto, come abbiamo composto tutti gli altri scritti, così portiamo a compimento anche questo che a tuo giudizio risulterà utile anche a molti altri, e soprattutto a quanti hanno assaggiato solo da poco l’autentica filosofia della natura e a quanti si sono impegnati in studi che vanno un po’ più a fondo rispetto a una qualsiasi educazione elementare. Dunque, sarà bene che tu ti impadronisca di questi miei principi e che, quando li avrai nella memoria, li percorra velocemente insieme con le altre che abbiamo mandato, nella Piccola epitome, a Erodoto. |

In primo luogo, dunque, bisogna ritenere che il fine da raggiungere con la conoscenza dei fenomeni celesti, sia trattati insieme, nelle loro connessioni, sia isolatamente, non è altro se non l’imperturbabilità e una salda convinzione, come del resto è anche per gli altri studi. E non bisogna cercare di raggiungere per forza l’impossibile, né pretendere di avere, per tutti gli oggetti di studio, una conoscenza teorica pari o ai discorsi relativi alla vita <umana> o a quelli che vertono sulla chiarificazione degli altri problemi della filosofia della natura, come per esempio che il tutto è costituito da corpi e da natura intangibile, o che gli elementi-base sono indivisibili, o tutte queste simili asserzioni, quante hanno con i fenomeni una concordanza univoca. Ma ciò non vale per i fenomeni celesti, bensì questi hanno molteplice sia la causa del loro venire all’essere sia la sia la connotazione della loro essenza, purché in accordo con le sensazioni. Non bisogna, infatti, studiare la natura secondo assiomi vuoti e leggi arbitrarie, ma secondo quanto esigono i fenomeni. Infatti, la nostra vita ha bisogno non già di irrazionalità o di opinioni vacue, bensì solo di poter vivere senza affanni. E tutto, dunque, avviene senza scosse, se ogni cosa viene chiarita secondo il principio delle molteplici spiegazioni in sintonia con i fenomeni, ammettendo, come pur si deve, tutto quanto si può dire plausibilmente di essi. Nel caso in cui, invece, si accolga una sola spiegazione e se ne respinga un’altra, che pure sarebbe ugualmente concordante con il fenomeno, è manifesto che si cadrebbe anche al di fuori di ogni discorso di filosofia della natura e si scivolerebbe nel mito. Ora, alcuni dei fenomeni che ci si mostrano nell’esperienza quotidiana recano segni evidenti | dei processi che si compiono in cielo; <solo che> questi fenomeni, si possono osservare come sono, ma non i processi che avvengono in cielo: è, infatti, possibile che questi ultimi si realizzino in molti modi. Ebbene, di ciascuno occorre conservare l’immagine che ne appare e ancora distinguerli da quelli che li seguono: che questi si compiano in molti modi non è contraddetto dai fatti che ricadono sotto la nostra esperienza.

Un mondo è una parte circoscritta dell’universo, la quale abbraccia astri, terra e tutti i fenomeni, che consiste in una sezione ritagliata dall’infinito e che va a finire o in moto circolare oppure in un’assenza di moto, e con una configurazione rotonda o triangolare o di qualsiasi altra forma. Può essere, infatti, in tutti i modi, dato che nessuno dei fenomeni attesta il contrario in questo mondo, nel quale non è possibile cogliere un luogo in cui finisce. È possibile comprendere che mondi siffatti sono infiniti di numero, e che un mondo di tal genere possa anche prodursi in un <altro> mondo oppure in un intermondo – che è il nome da noi attribuito a un intervallo tra più mondi –, in un luogo per lo più vuoto, ma non in un luogo assolutamente grande e vuoto, | come dicono certuni. E <questi mondi si costituiscono> quando alcuni semi adatti scorrono da un mondo o da uno o più intermondi, creando a poco a poco aggiunte, aggregati e trasposizioni in un altro luogo – se si dà il caso –, e poi, per ulteriori afflussi da fonti adatte, raggiungendo alla fine la perfezione e la stabilità, nella misura in cui le fondamenta gettate siano in grado di reggere. Infatti, non basta che nel vuoto in cui un mondo deve prodursi si verifichi meccanicamente un’aggregazione o un vortice grande quanto si voglia, fino a scontrarsi con un altro, come sostiene uno dei cosiddetti ‘fisici’, perché un tale evento è contraddetto dai fatti, quali appaiono.

E, in quanto al sole e alla luna e agli altri corpi celesti, non è che prima fossero indipendenti e che poi siano stati catturati da questo mondo, ma subito furono plasmati e ricevettero incremento, grazie alle aggregazioni e ai movimenti vorticosi di alcune nature costituite da particelle sottili, | o di genere ventoso, o infuocato, o di entrambi: e infatti è la sensazione a suggerire così queste cose. E la grandezza del sole, della luna e degli altri corpi celesti, relativamente a noi, è tale quale appare. Ma in se stessa, in senso assoluto, può essere o più grande di come la si vede, o un po’ più piccola, oppure della stessa dimensione. Così, infatti, anche nella nostra esperienza i fuochi osserviamo a distanza si rivelano in conformità della sensazione. E ogni obiezione contraria sarà facilmente smontata, se solo ci si attiene alle evidenze, come mostriamo nei libri Sulla natura. E le levate e i tramonti del sole, della luna e degli altri corpi celesti possono avvenire per accensione e spegnimento, purché ci sia una situazione tale che i suddetti fenomeni possano compiersi. In verità, nessuno dei fatti che a noi appaiono depone in senso contrario. E gli eventi suddetti potrebbero anche realizzarsi per il fatto che <gli astri> compaiono sopra la terra e poi di nuovo si occultano, dato che neppure in questo caso qualcuno dei fenomeni depone in senso contrario. | E non è impossibile che i loro movimenti avvengano per via del moto rotatorio dell’intero cielo, oppure per la sua quiete e il loro movimento, essendo il loro sorgere determinato da una necessità originaria fin dalla nascita del mondo la quale spinge alla levata: *** per l’eccessivo calore, <o anche> per una certa dilatazione del fuoco, che sempre straripa nei luoghi adiacenti. Le rivoluzioni del sole e della luna possono avvenire in ragione dell’inclinazione del cielo, così legato a questi tempi; ugualmente, anche per la resistenza dell’aria, oppure perché una materia sempre predisposta a ciò brucia continuamente, e quindi a un certo punto viene a mancare; oppure, può essere anche che questo movimento rotatorio sia stato impresso fin dalle origini in questi astri, cosicché essi si muovono con un certo moto elicoidale. Ebbene, tutte queste possibili spiegazioni e altre affini non risultano discordanti rispetto a nessuna delle evidenze, qualora, per questi casi particolari, ci si attenga sempre al possibile e si riesca a ricondurre ciascuno di essi alla concordanza con i fenomeni, senza lasciarsi intimorire dai grossolani artifizi degli astronomi.

Il calare e il crescere della luna | potrebbero avvenire sia a causa della rotazione di questo corpo sia, ugualmente, secondo le configurazioni dell’aria sia, ancora, per le interposizioni <di altri corpi celesti> oppure in tutti i modi che i fenomeni di cui abbiamo esperienza suggeriscono per rendere ragione di questo aspetto, a meno che uno, preso da eccessivo trasporto per una spiegazione univoca, respinga, senza alcun fondamento, le altre, senza avere considerato che cosa è possibile per l’uomo indagare e contemplare e che cosa non è possibile, e desiderando, per questo, indagare oggetti impossibili da conoscere. E, ancora, la luna può avere la luce di per se stessa, ma, d’altra parte, può anche riceverla dal sole. E, infatti, da noi si vedono molti oggetti che hanno da se stessi la luce e molti, d’altro canto, che la ricevono da altri. E non costituirà impedimento nessuno dei fenomeni celesti che ci si mostrano, qualora ci si ricordi sempre del metodo esplicativo per cause molteplici e si osservino insieme pure le ipotesi che ne conseguono e, al contempo, anche le cause, senza peraltro scioccamente sopravvalutarle non tenendo conto delle incoerenze e con il rischio di ricadere, ora in un modo e ora in un altro, nella spiegazione univoca. L’apparire nella luna del suo volto può aversi sia per la differenza delle parti sia per una interposizione, o in quanti altri modi risultano avere corrispondenza con i fenomeni. Infatti, per tutti i fenomeni celesti | tale linea <di metodo> non va abbandonata, perché, nel caso in cui ci si trovasse a combattere con le evidenze, non si potrebbe mai avere parte all’autentica imperturbabilità.

Una eclissi di sole, e una di luna, può avvenire sia a causa di uno spegnimento – evento che si osserva <abitualmente> nella nostra esperienza quotidiana – sia anche per interposizione di altri corpi, o la terra o il cielo o qualche altro corpo simile. E, così, dobbiamo considerare insieme tutti quei generi di spiegazione che si accordano reciprocamente, e, al contempo, ritenere che non è impossibile che si verifichi una concomitanza di alcuni di essi.E ancora, la regolarità della loro rivoluzione deve essere concepita alla stregua di alcuni fatti che càpitano e sono sperimentati anche da noi; e non ci sfiori l’idea di addottare in alcun caso la natura divina come spiegazione di questi fenomeni: essa deve mantenersi priva di occupazioni e in una completa beatitudine, perché, se questo non sarà fatto, tutta quanta la ricerca delle cause dei fenomeni celesti sarà inutile, come è già avvenuto ad alcuni che non hanno aderito al metodo del possibile, | cadendo in tal modo nell’assurdità di ritenere che le cose avvengano secondo un’unica modalità e hanno respinto tutte le altre, che pure sarebbero possibili. <Così facendo> si sono avviati verso la perdita del pensiero senza riuscire neppure a considerare nel loro insieme i fenomeni che bisognerebbe accogliere come segni.

Le lunghezze variabili delle notti e dei giorni possono dipendere dai movimenti del sole sopra la terra che sono prima veloci e poi lenti ***, come in alcuni casi si osserva anche nella nostra esperienza: è appunto in concordanza con questa che occorre parlare dei fenomeni celesti. Quanti, invece, ammettono un solo criterio esplicativo si trovano in conflitto con i fatti che sono oggetto di esperienza, e si sbagliano riguardo a come sia possibile all’uomo la conoscenza.

Gli indizi <che preannunciano il tempo atmosferico> possono verificarsi sia sulla base di coincidenze, come avviene negli animali che possiamo osservare, oppure per alterazioni o variazioni dell’aria: entrambe queste spiegazioni, | infatti, non sono in conflitto con i fenomeni. In quali casi, poi, la causa risieda in questo o quest’altro, non è possibile sapere.

Le nubi, poi, possono formarsi e radunarsi sia per la compressione dell’aria, sia per il combinarsi fra loro degli atomi che sono in grado di produrre questo effetto, sia per il raccogliersi delle correnti dalla terra e dalle acque, e altresì in quei molti altri modi in cui non è impossibile che si compiano le aggregazioni di realtà simili. Inoltre, dalle nubi possono prodursi le piogge o per via di compressione o per via di trasformazione, o, ancora, per un trasporto di venti dai luoghi appropriati, muovendosi attraverso l’aria, mentre una inondazione più violenta si origina da certi addensamenti adatti a scaricare tali nubifragi.

I tuoni è possibile che si generino sia per l’incanalarsi del vento nelle cavità delle nubi, come nei nostri recipienti, sia per il rimbombo in essi del fuoco soffiato dal vento, sia per gli squarci e le scissioni delle nubi, sia per gli sfregamenti e le tensioni delle nubi, | che hanno assunto la consistenza del ghiaccio. Sia il complesso delle cose sia questa parte invitano a dire che i fenomeni avvengono per molte cause e in molti modi. Così, anche i lampi si verificano in più modi. E infatti, a causa dello sfregamento e della collisione delle nubi, la configurazione <di atomi> che produce il fuoco sprizza via e genera un lampo; oppure <a produrre il lampo> è l’improvvisa fuoriuscita dalle nubi, ad opera dei venti, di corpi tali da suscitare questa vampata illuminata; o anche è la forza di espulsione che si accompagna allo sfregamento di nubi che si comprimono l’una contro l’altra o che sono compresse dai venti. Ancora, <i lampi nascono> per la cattura della luce sparsa dalle stelle, poi sospinta dal movimento delle nubi e dai venti, e infine caduta attraverso le nubi; oppure anche per il filtrare <attraverso> le nubi della lucepiù finee del suo movimento: oppure per effetto della combustione del vento, che avviene a motivo della intensità del suo movimento | e della violenta rotazione; o anche per lo squarciarsi delle nubi ad opera dei venti e per la caduta degli atomi che producono fuoco e creano l’apparizione del fulmine. E non sarà difficile vedere che il lampo si genera anche in molti altri modi, sempre in conformità con i fenomeni e con la possibilità di considerarli in rapporto a ciò che è simile a questi. E il lampo precede il tuono perché le nubi si trovano in un data condizione e grazie al fatto che la configurazione degli atomi che dà origine al lampo è spinta fuori contemporaneamente alla raffica del vento e poi il vento, avvolgendosi su se stesso, produce questo rimbombo; oppure la caduta dell’uno e dell’altro avviene nello stesso momento, ma il lampo ha una velocità maggiore nel suo moto verso di noi e il tuono rimane indietro, come succede con certi oggetti che sono osservati a distanza e producono alcuni colpi. I fulmini possono avvenire sia per il concorso di numerosi venti e per la loro forte concentrazione e combustione, sia per la rottura di una parte e la sua caduta, particolarmente violenta, negli spazi sottostanti, laddove questa frattura avviene per il fatto che i luoghi contigui sono più densi per la compressione delle nubi; oppure può darsi che avvenga per la stessa caduta del fuoco sospeso in alto, come anche del tuono, una volta che questo sia divenuto più consistente, | e sia stato soffiato dal vento con più forza, così da squarciare la nube, per il motivo che non trova sfogo nello spazio circostante, dato che le nuvole si spingono l’una con l’altra. Ed è inoltre possibile che i fulmini siano prodotti in molti altri modi ancora. Soltanto il mito se ne stia lontano: tutt’al più potremmo ammetterlo se qualcuno, attenendosi per bene ai fatti che si offrono alla sensazione, ne tragga indizi riguardo a quanto non è percepibile dai sensi.

I turbini possono verificarsi sia per la discesa di una nube in forma di colonna ai luoghi sottostanti, quando questa sia compressa da un rafforzarsi del vento e venga fatta roteare dalla forza del vento stesso, mentre dall’esterno spinge la nube su un fianco; sia anche per la disposizione del vento in circolo, allorché una certa massa d’aria è sospinta dall’alto; sia, infine, perché si verifica un forte scorrimento di venti che non trova sfogo verso i lati, a causa dell’addensarsi dell’aria attorno. E, per tutto il tempo che il turbine impiega a raggiungere la terra, si verificano i cicloni; per tutto il tempo che, invece, impiega a raggiungere il mare, si creano le trombe marine.

Per quanto concerne i terremoti, questi possono verificarsi per l’imprigionamento di un vento | nella terra e per l’interposizione di piccole particelle di quest’ultima in esso, e per il suo frequente movimento, il che crea tremore alla terra. E, questo vento, la terra o lo riceve da fuori, oppure deriva dal fatto che le fondamenta cadono † nei luoghi cavernosi della terra e in questo modo spingano fuori l’aria imprigionata. Oppure, può anche darsi che i terremoti avvengano per la propagazione stessa del movimento derivato dal cedimento di molte fondamenta e, per il successivo contraccolpo, ogni volta che si incontrano le parti più solide e robuste della terra. Comunque, questi movimenti della terra possono verificarsi anche in molti altri modi.

I venti, poi, càpita che si abbiano, di tanto in tanto, quando una certa natura estranea si insinua a poco a poco, e per la raccolta di abbondante acqua. Ma per altri venti bastano piccole masse che vadano a finire nelle molte cavità, suscitando un effetto di propagazione.

La grandine si forma sia a causa di un congelamento particolarmente forte e di una frantumazione in presenza di masse ventose, sia, anche, a causa di | un più moderato congelamento e, al contempo, della rottura di alcune parti acquose, la quale produce nello stesso tempo, tanto la vicinanza quanto la frattura di queste: <in seguito a ciò>, esse si apprestano ad aggregarsi, per via del congelamento una per una, e anche in massa. La rotondità <dei chicchi di grandine>, poi, non è impossibile che si debba allo scioglimento delle punte si sciolgono da ogni parte e che da ogni parte, come si è detto, i chicchi siano uniformemente circondati, nel loro addensamento, da particelle acquose o ventose.

In quanto, poi, alla neve, può darsi che si produca quando una pioggia fine si riversa dalle nubi, a motivo della simmetria dei pori e delle forti pressioni dei venti su particolari nuvole, e perché poi quest’acqua va soggetta a un congelamento durante il tragitto, per un qualche intenso raffreddamento nei luoghi situati più in basso delle nubi. Oppure, una tale fuoriuscita <di neve> dalle nubi potrebbe avvenire anche a motivo del congelamento delle nubi uniformemente rarefatte, quando gli elementi acquosi che si trovano in stretta contiguità si premono gli uni contro gli altri. E questi elementi, una volta prodotta, per così dire, un’unione, creano la grandine, il che succede soprattutto in primavera. E, per lo sfregamento | delle nubi sottoposte a congelamento, questo agglomerato di neve potrebbe ricevere una scossa. E può anche darsi che la neve sia prodotta in altri modi.

La rugiada si forma sia per l’incontro reciproco, a partire dall’aria, di particelle idonee a produrre una simile sostanza umida, sia per l’afflusso da luoghi umidi o impregnati d’acqua – luoghi nei quali soprattutto si forma la rugiada – e poi per l’aggregazione di queste particelle che determinano la formazione della rugiada e quindi la caduta verso i luoghi sottostanti; così, allo stesso modo, anche presso di noi per lo più si osservano fenomeni simili. La brina si forma in modo non dissimile dalla rugiada, quando particelle di questo tipo vanno soggette a un certo congelamento, per effetto dell’aria fredda circostante.

Il ghiaccio si forma attraverso l’eliminazione dall’acqua degli atomi che hanno configurazione rotonda e attraverso l’unione di quelli irregolari e acutangoli che si trovano nell’acqua; <ma si formano anche> attraverso l’accrescimento dall’esterno di atomi tali che, spinti insieme, hanno prodotto il congelamento dell’acqua, dopo avere espulso un determinato numero di atomi rotondi. |

L’arcobaleno si ha per il risplendere del sole contro l’aria impregnata di particelle d’acqua, oppure per una particolare coesione della luce e dell’aria, la quale creerà le particolari tonalità di questi colori, o tutte quante insieme o tipo per tipo; e di nuovo, in virtù di un tale riflesso, la parte circostante dell’aria assumerà questa colorazione quale noi la vediamo, secondo l’illuminazione solare sulle varie parti. La sua apparenza circolare dipende dal fatto che la distanza viene percepita dalla vista come identica da tutte le parti, o perché questo aggregato si dispone in un certo qual modo circolare, in quanto gli atomi presenti nell’aria o nelle nubi si uniscono in tale modo, per il fatto che vi sono portati dal sole.

Un alone intorno alla luna si ha quando, da ogni parte, l’aria si porta verso la luna, oppure perché l’aria respinge uniformemente le correnti che provengono dalla luna, in modo tale da disporle attorno, in circolo, in forma di nube, evitando che si dissipino completamente; oppure perché essa rinvia l’<altra> aria che sta attorno alla luna in modo simmetrico e da ogni parte, fino a farle costituire quel cerchio spesso attorno alla luna. | Il che avviene anche in alcune parti o perché qualche corrente, dal di fuori, è costretta a forza, oppure perché il caldo investe certi particolari passaggi col riultato di produrre questo fenomeno.

Le stelle comete si hanno quando del fuoco si sviluppa in certi luoghi negli spazi celesti, e in determinati tempi, allorché si verifica una certa situazione, <oppure le comete si verificano> perché, di tanto in tanto, il cielo sopra di noi assume un determinato movimento, in modo che tali stelle si mostrino, [oppure, anche, perché proprio queste ultime, in determinati tempi, avanzano, per una qualche circostanza, e vengono dalle nostre parti, divenendo visibili. La loro sparizione avviene per le cause opposte a queste.]

La rotazione su se stesse di alcune stelle in uno stesso luogo si verifica non solo per il fatto che sta ferma questa parte del cosmo intorno alla quale gira tutto il resto, come ritengono alcuni, ma anche per il motivo che un vortice ciclico d’aria si trova intorno a tale parte, e risulta di impedimento a che esse vadano attorno come fanno le altre; oppure si verifica perché, nelle zone circostanti, non c’è per queste stelle una materia adatta, mentre ce n’è in quel luogo in cui le si vede rimanere. E anche in molti altri modi è possibile che questo avvenga, purché si sia capaci di ragionare in sintonia con i dati fenomenici. |

Che alcuni corpi celesti vadano errando, se così accade che si muovano, e alcuni invece si muovano con regolarità, può darsi che avvenga perché, muovendosi in circolo fin dall’inizio, siano stati costretti a spostarsi, gli uni, secondo lo stesso moto rotatorio uniforme, gli altri, invece, secondo un moto comprendente alcune irregolarità. Tuttavia, può anche darsi che, nei luoghi che attraversano, in alcuni punti, ci siano estensioni uniformi d’aria che li spingono insieme in uno stesso senso, con continuità, incendiandoli con regolarità, mentre in altri punti ci siano esetnsioni irregolari, capaci di produrre quei moti contorti che si osservano. Ed è follia voler assegnare a questi una sola causa, mentre i fenomeni ne richiedono molte; anzi, è una cosa malfatta, di cui sono responsabili gli entusiasti praticanti della vana astronomia, e assegnano a vuoto le cause degli astri, ogni volta che rifiutano di liberare da ogni impegno la natura divina. Il fatto che alcune stelle risultino essere lasciate indietro da altre dipende dalla loro rotazione più lenta, pur compiendo la stessa orbita, o dal fatto che si muovono al contrario, essendo trascinate in direzione opposta dallo stesso moto circolare, oppure dipende dal fatto che girano le une in uno spazio maggiore, le altre in uno più ristretto, pur muovendosi dello stesso moto circolare. Ma il pronunziarsi in un solo senso riguardo a questi fenomeni si conviene a quanti intendono fare impressione sulle folle. |

Le cosiddette stelle cadenti possono aversi in alcuni casi per lo sfregamento di nubi e per la caduta di fuoco, laddove si sia verificata l’esalazione del vento, secondo quanto abbiamo detto anche riguardo ai lampi; o anche grazie all’incontro di atomi che danno origine al fuoco, in una combinazione di materiale capace di produrre questo effetto, e grazie a un movimento nel quale, fin dall’inizio, era compreso l’impulso all’aggregazione; <le stelle cadenti possono formarsi anche> per la raccolta di vento in masse dense che hanno aspetto di nebbia e pure per il suo incendiarsi a causa della compressione, e poi per l’esplosione delle parti circostanti: inoltre, nel luogo verso il quale si orienta la spinta del movimento, verso questo, appunto, il vento si sposta. E ci sono altri modi per spiegare il compimento di questo fenomeno, senza appellarsi al mito.

I segni premonitori del tempo atmosferico che si danno grazie ai segni zodiacali sono frutto di una mera coincidenza. Non è, infatti, che i segni zodiacali producano necessariamente una tempesta, né una qualche divina natura se ne sta lì seduta a controllare le uscite di essi per poi dare compimento a quello che vanno indicando. Infatti, una follia simile non cadrebbe neppure sul primo vivente che càpita, anche solo un briciolo dotato: tanto meno su un essere che gode di una completa felicità. |

E dunque, o Pitocle, cerca di non scordare tutte queste considerazioni: in questo modo, infatti, potrai tenerti alla larga dal mito e riuscirai a cogliere, con uno sguardo comprensivo, le altre cose simili a queste. Ma, soprattutto, dédicati alla speculazione sui principi primi, sull’infinito e sugli argomenti consimili, e ancora sui criteri, sulle affezioni e sullo scopo per cui riflettiamo su queste cose. Infatti, questi oggetti di studio, considerati nel loro insieme, ti permetteranno facilmente di vedere, nel loro complesso, le cause dei fenomeni particolari. Quanti, invece, non si sono appassionati a tali questioni, non potrebbero assolutamente ben considerare queste stesse, e neppure conseguire lo scopo per cui occorre considerarle'.

LETTERA A ERODOTO

Epicuro a Erodoto, salve.

Per quelli, Erodoto, che non possono seguire punto per punto ciascuno dei miei scritti sulla natura, né prendere in esame i libri più lunghi tra i miei trattati, ho composto un’epitome dell’intera trattazione, affinché possano preparare la memoria per comprendere le dottrine più importanti, allo scopo di aiutare se stessi in ogni circostanza nei punti essenziali, almeno nella misura in cui si applicano allo studio della natura. Ma anche chi ha fatto apprezzabili progressi nella considerazione dell’insieme deve tenere a mente l’impronta fondamentale dell’intera dottrina, perche dell’intuizione dell’insieme abbiamo spesso bisogno, mentre di quella particolare non così spesso.

Bisogna, dunque, ricorrere sovente a quei precetti, ma questo deve essere fatto nella memoria; in conseguenza di ciò, in seguito, si realizzerà un’intuizione più rilevante dei punti salienti, e <quindi> anche una cognizione precisa dei particolari, a condizione che le impronte principali siano ben delineate e ben impresse nella memoria. Infatti, anche per chi ha raggiunto la perfezione la cosa principale di tutta la sua precisa conoscenza è questa: la capacità di usare prontamente delle intuizioni nonché di riferire ciascuna di esse agli elementi semplici e alle emissioni della voce. Non è, infatti, possibile che si dia la densità del coerente sviluppo della <mia> dottrina nel suo insieme, se non si può abbracciare in brevi formule, in sé, ogni cosa che sia stata precisata anche nei particolari. Ora, un siffatto metodo è utile a chiunque abbia preso dimestichezza con lo studio della filosofia della natura, e quindi io, che raccomando la continua applicazione a tale studio, e che in un simile stile di vita conduco un’esistenza assolutamente tranquilla, ho anche composto per te questa epitome e questo riassunto dei punti principali dell’intera dottrina.

Pertanto, Erodoto, occorre in primo luogo cogliere quello che sta a fondamento delle parole, perché, riferendoci a questo, possiamo avere di che giudicare | le opinioni sugli oggetti della ricerca o sui problemi irrisolti; e così ogni cosa non rimarrà per noi senza giudizio <perdendosi> in una dimostrazione all’infinito, e neppure ci troveremo in possesso di vuote parole. In primo luogo, o Erodoto, è necessario che la prima nozione sia scorta direttamente secondo ogni singola parola e che non abbia nessun bisogno di dimostrazione, se almeno vorremo avere qualcosa a cui ricondurre l’oggetto della ricerca o della questione o dell’opinione. In secondo luogo, dobbiamo considerare tutto affidandoci alle sensazioni e, in particolare, le intuizioni presenti – sia della mente sia di uno qualsiasi dei criteri <della conoscenza> –, e similmente anche le passioni presenti, per poter avere modo di contrassegnare ciò che attende conferma e ciò che non è <immediatamente> evidente.

Una volta che si siano apprese queste cose, <occorre> dare un’occhiata d’insieme a ciò che non è <immediatamente> evidente. Innanzitutto, il fatto che nulla viene all’essere dal non-essere, perché in tal caso ogni cosa sarebbe venuta all’essere da ogni altra, senza alcun bisogno di semi generatori. E poi, se ciò che si distrugge svanisse nel non-essere, tutte le cose andrebbero perdute, perché | ciò in cui si dissolvono non è. E, in verità, il tutto è sempre stato come è ora, e sarà sempre così per il fatto che non c’è nulla in cui possa trasformarsi, dato che, all’infuori del tutto, non c’è nulla che, subentrando, possa operare la trasformazione.

Ma anche il tutto è costituito <da corpi e da spazio>. Infatti, l’esistenza dei corpi è la sensazione stessa a testimoniarla, in tutte le occasioni; ed è necessario fondarsi su di essa quando si deve provare per mezzo del ragionamento ciò che non è immediatamente evidente, come ho già anticipato. Se, d’altra parte, non ci fosse quello spazio che denominiamo vuoto o spazialità o natura intangibile, i corpi non avrebbero dove risiedere, né per dove muoversi, nel modo in cui risultano muoversi. Oltre a questi principi non si può neppure pensare nulla, né per via di apprensione né per analogia con gli oggetti già appresi, in quanto noi li cogliamo come nature complete e non come ciò che chiamiamo attributi e accidenti di questi. E ancora, anche tra i corpi, gli uni sono composti, gli altri sono quelli dai quali sono costituiti i composti. E questi sono indivisibili | e immutabili, se è vero che tutte le cose non devono dissolversi nel non-essere, ma devono avere la forza di permanere nella dissoluzione dei composti, in quanto sono pieni per natura e non hanno né luogo né modo in cui andare a finire; è pertanto necessario che i principi siano di natura corporea e indivisibili.

Ma, in verità, il tutto è infinito; infatti, ciò che è limitato ha un’estremità; ora, un’estremità è vista in rapporto a qualcos’altro. Per conseguenza, quanto non ha estremità non ha neppure limite: e, non avendo un limite, sarebbe infinito e non limitato. E, inoltre, il tutto è illimitato sia per la quantità dei corpi, sia per la grandezza del vuoto. Se, infatti, il vuoto fosse illimitato e i corpi, invece, limitati, i corpi non rimarrebbero in nessun luogo, ma viaggerebbero dispersi nel vuoto illimitato, senza trovare alcun supporto né spinta al seguito degli urti; e se, per converso, il vuoto fosse limitato, i corpi infiniti non saprebbero dove stare.

Inoltre, le parti indivisibili e piene dei corpi, dalle quali si costituiscono i composti e nelle quali si risolvono, hanno una varietà incalcolabile di figure; altrimenti non potrebbero mai venire tante differenze da figure concepite in un dato numero. E, per ciascuna figura, gli atomi sono assolutamente infiniti, mentre per le differenze non sono in senso proprio infiniti, | ma soltanto di un numero incalcolabile. E gli atomi si muovono continuamente per l’eternità, ** e, alcuni, si allontanano di un lungo tratto gli uni dagli altri; altri, invece, trattengono il loro impeto, qualora càpiti loro d’essere catturati da un certo aggregato o avvolti da un agglomerato <di corpi>. E, infatti, è la natura del vuoto, che delimita ciascun atomo, a produrre questo, in quanto non è capace di fornire un appoggio. D’altra parte, la solidità di cui <gli atomi> sono dotati produce il loro rimbalzo durante la collisione, almeno finché l’aggregazione non ripristini lo stato antecedente a partire dalla collisione. E un principio di queste realtà non esiste, poiché gli atomi e il vuoto sono eterni. |

Insomma, una tale espressione di tutte queste dottrine, quando siano tenute nella memoria, stampa un’impressione adeguata ai pensieri sulla natura delle cose.

Ma, in verità, anche i mondi sono infiniti, tanto quelli simili a questo quanto quelli dissimili. E, infatti, gli atomi, essendo infiniti, come è stato appena dimostrato, vanno anche lontanissimo. In effetti, tali atomi dai quali un mondo potrebbe nascere e per opera dei quali potrebbe essere creato, non sono stati spesi tutti per un mondo solo o per un numero limitato di mondi, né quanti siano tali né quanti siano differenti da questi. Perciò non c’è nulla che possa costituire impedimento alla infinità dei mondi.

E ci sono anche impronte che hanno la stessa forma dei corpi solidi, ma che, in quanto a sottigliezza, superano di gran lunga gli oggetti che si manifestano. Infatti, non è impossibile che nello spazio circostante si verifichino dei flussi capaci di riprodurre parti cave e parti liscie, oppure degli effluvi | che conservano la posizione reciproca e il movimento che avevano nei corpi solidi. Ebbene, a queste impronte noi diamo il nome di simulacri. Inoltre, anche il movimento attraverso il vuoto riesce a coprire ogni distanza concepibile in un tempo di impensabile brevità, per il fatto che avviene senza alcuna resistenza da parte di elementi che lo ostacolino; e infatti, sono proprio la resistenza e la non resistenza a determinare rispettivamente la lentezza e la velocità. Inoltre, secondo i tempi concepiti dalla ragione, non può essere che un corpo in movimento raggiunga più luoghi contemporaneamente – questo è davvero impensabile! –, e neppure può essere che, venendo da un punto qualsiasi dell’infinito in un tempo apprezzabile dai sensi, esso sia partito proprio da quel luogo da cui concepiamo il movimento. In verità esso sarà corrispondente all’urto, anche se fino a quel momento abbiamo lasciato la velocità del movimento esente dagli urti. È quindi utile tenere ben presente anche questo punto basilare. Nessun fenomeno contraddice il fatto che i simulacri siano caratterizzati da una sottigliezza insuperabile. Perciò, hanno anche delle velocità insuperabili, poiché hanno ogni via di transito commisurata <alla loro piccolezza>, oltre <al fatto che> | poco o nulla si oppone alla loro infinità, mentre se fossero molti o anche di numero imprecisato qualcosa si opporrebbe ad essi. E inoltre <occorre tenere presente> che la nascita dei simulacri si ha alla velocità del pensiero. E, nonostante non si intravveda diminuzione, il flusso dalla superficie dei corpi è continuo, poiché altre particelle riempiono i posti vacanti, e questo flusso mantiene la posizione e l’ordine degli atomi del corpo solido per lungo tempo, anche se qualche volta risulta confuso. Anche le composizioni hanno origine molto velocemente nello spazio circostante, perché non richiedono un completamento nella dimensione della profondità: e del resto vi sono pure altri modi che danno origine a tali nature. Nessuna di queste tesi è contraddetta dalle sensazioni, se solo si guarda al modo in cui esse dal mondo esterno riportano a noi le evidenze, e le <relative> corrispondenze.

Bisogna anche ritenere che noi vediamo e pensiamo le forme per il fatto che c’è un certo apporto dal mondo esterno. Infatti, gli oggetti esterni non imprimerebbero in noi il sigillo della loro propria natura, del colore e della forma attraverso l’aria interposta, o attraverso raggi o qualche altra sorta di correnti che procedano da noi verso quelli, così come <l’impongono> attraverso certe impronte che entrano in noi a partire dagli oggetti, | e che hanno lo stesso colore e la stessa forma di questi ultimi, in ragione di una grandezza appropriata alla nostra vista e alla nostra mente. Tali impronte, inoltre, sono dotate di veloci movimenti, e per questa ragione danno l’impressione di un oggetto unico e continuo, e mantengono i reciproci rapporti che avevano nel corpo che era il loro sostrato e dal quale veniva ad essi un sostegno commisurato, prodotto dall’impatto degli atomi nel corpo solido, lungo la sua profondità. E qualsiasi rappresentazione noi riceviamo per contatto diretto con la mente o con gli organi di senso, sia della forma sia degli accidenti, questa altro non è che la forma dell’oggetto solido, la quale si costituisce in base alla massiccia consistenza del simulacro o ai suoi resti. La falsità e l’errore, invece, risiedono sempre nell’aggiungersi dell’opinione <a ciò che attende> di essere confermato o non smentito, mentre poi risulta non confermato <o smentito>. E la somiglianza delle rappresentazioni – per esempio quelle colte in un’immagine o prodotte in sogno o grazie a qualche altra intuizione della mente o degli altri criteri di conoscenza –, non deriverebbe neppure dagli oggetti che si dicono reali e veri, se non ci fossero alcuni e tali elementi | verso cui ci rivolgiamo: e pure l’errore, per parte sua, non si verificherebbe, se non cogliessimo anche un certo altro movimento in noi stessi, che si adatta, sì, <alla rappresentazione intuitiva>, ma che rispetto a essa ha uno scarto: e secondo questo, qualora non riceva conferma o riceva smentita, deriva la falsità, mentre, qualora riceva conferma e non riceva smentita, deriva la verità. Bisogna, allora, tenere ben salda questa dottrina, perché né siano eliminati i criteri fondati sull’evidenza, né d’altra parte l’errore una volta consolidatosi abbia a sconvolgere tutto.

Inoltre, anche l’atto di udire si ha quando una corrente fluisce dall’oggetto che emette una voce o un suono o un rumore, o comunque produce un’affezione acustica. Ora, questa corrente è disseminata di particelle omogenee, le quali mantengono tra loro una determinata relazione reciproca e una unità specifica, che si estende all’oggetto che li ha inviati e che produce la sensazione relativa a quello o, altrimenti, si limita a renderne manifesto l’aspetto esteriore.| Infatti, se non ci fosse una certa relazione che viene dall’oggetto, la sensazione non avrebbe luogo. Non bisogna, pertanto, ritenere che l’aria stessa assuma la forma del suono emesso o di qualcosa di simile – è troppo debole per reggere una tale affezione da parte di quello! –, bensì l’impatto che si produce in noi ad ogni emissione di suono crea sùbito una tal piega nelle particelle da costituire un flusso analogo a quello del respiro, il quale è per noi responsabile della affezione acustica. E, ancora, bisogna ritenere che anche l’odorato, come pure l’udito, non produrrebbe mai nessuna affezione, se non ci fossero delle particelle che procedono dall’oggetto e che sono idonee a sollecitare questo organo di senso, le une disposte in modo da creare una reazione spiacevole e di rigetto, le altre una reazione piacevole e il desiderio di appropriarsene.

E poi, occorre anche ritenere che gli atomi non sono portatori di nessuna qualità dei fenomeni, tranne la figura, il peso e la grandezza e tutto ciò che per natura è necessariamente connesso con la figura. Infatti, ogni qualità cambia; gli atomi, invece, non cambiano sotto nessun aspetto, poiché nei dissolvimenti dei composti deve pur sussistere qualcosa di solido e indissolubile, il quale faccia sì che i cambiamenti non siano verso il non-essere, e neppure vengano dal non-essere,| ma si realizzino secondo spostamenti <di atomi>. Perciò è necessario che gli elementi spostati siano incorruttibili e che non condividano la natura di ciò che si trasforma, ma abbiano masse e configurazioni proprie: e <tutto> ciò deve costituire una proprietà permanente. E infatti, nelle cose che sotto i nostri occhi sono soggette a trasformazione, si può vedere che per quanto si sottragga <materia> la figura permane, mentre nell’oggetto che cambia le qualità non si mantengono come si mantiene la figura e vanno sparendo da tutto il corpo. Dunque, queste particelle che permangono sono in grado di creare le differenze dei composti, poiché è necessario che qualcosa continui a sussistere, e che non si dissolva nel non-essere.

In verità, se non si vuole che i fenomeni attestino il contrario, non bisogna neppure ritenere che gli atomi abbiano qualsiasi grandezza. Piuttosto, si deve ritenere che ci siano certe differenze di grandezze; infatti, assumendo questo, si riuscirà a rendere miglior conto dei processi delle affezioni e delle sensazioni. Invece, il pensare che abbiano qualsiasi grandezza non è utile nemmeno ai fini <della spiegazione> delle differenze di qualità; e inoltre, <in tal caso> gli atomi avrebbero finito col giungere a essere visibili da parte nostra: il che non risulta che avvenga, né è concepibile come possa avvenire. | Inoltre, non bisogna ritenere che nel corpo limitato vi siano particelle infinite e neppure di qualsiasi grandezza. Per tal motivo, non bisogna negare la suddivisione all’infinito in parti sempre più piccole, per non rendere inconsistenti tutte le realtà e per non essere costretti, nelle nostre concezioni degli aggregati, a forza di disgregare gli esseri, a dissolverli nel non-essere; <semplicemente>, non bisogna ritenere che negli esseri limitati ci sia alcuna trasformazione all’infinito, neppure verso il più piccolo. Infatti, neppure questo è pensabile una volta ammesso che in qualche essere le particelle sono infinite e di qualsiasi grandezza, perché, un tale essere, come potrebbe ancora essere determinato in grandezza? È, infatti, chiaro che le particelle infinite hanno una certa misura: e, qualsiasi sia la loro misura, risulterebbe infinita anche la grandezza <del corpo>. E, poiché ciò che è determinato ha un’estremità ben percepibile con la mente, anche se di per sé non è visibile, nulla vieta di pensare che anche quella che è contigua a questa lo sia, e così, di contiguo in contiguo, avanzando sempre più, si può giungere allo stesso modo, con il pensiero, sino all’infinito. | Bisogna anche riflettere che il minimo nella sensazione non è né come ciò che può essere percorso da un capo all’altro, né completamente differente sotto ogni rispetto: piuttosto, ha una qualche comunanza con ciò che può essere percorso, pur non avendo una distinzione di parti; ma qualora, per la similitudine di questa comunanza, noi presumiamo di distinguere qualche parte dell’oggetto che può essere percorso, l’una di qui e l’altra un po’ oltre, allora deve essere che ci siamo imbattuti in un <altro> minimo uguale. E noi li osserviamo tutti di seguito, a cominciare dal primo – e quindi non nello stesso <luogo> né attaccando parte a parte – come se fossero capaci, grazie alla loro individualità, di misurare le grandezze, poiché sono di più nelle maggiori e di meno nelle minori. Occorre ritenere che di questa proporzione si avvalga anche il minimo che si trova nell’atomo; infatti, è evidente che è solo una questione di piccolezza ciò che lo differenzia dall’oggetto che può essere percepito con la sensazione, mentre il rapporto di proporzione è il medesimo. In effetti, è proprio sulla base di questo rapporto con gli oggetti che ricadono sotto i sensi che abbiamo dichiarato l’atomo come dotato di grandezza, semplicemente procedendo sempre più sulla scala della piccolezza. E ancora: occorre considerare che i minimi e le parti non mescolate sono limiti delle lunghezze i quali da se stessi, in quanto originari, forniscono l’unità di misura, sia per le lunghezze più grandi sia per le più piccole, ** <e questo> secondo l’argomentazione teorica che riguarda gli oggetti invisibili a occhio. Infatti, quello che i minimi hanno in comune con le cose | che non si possono percorrere da un capo all’altro è sufficiente a garantire ciò che fino a questo punto si è detto, ma non è in grado di provare che da questi, una volta dotati di movimento, si realizzi un raggruppamento.

E inoltre, dell’infinito non si deve predicare ** il su o il giù come se ci fosse un punto più alto e uno più basso in assoluto; e comunque, lo spazio che abbiamo sopra la testa non ci apparirà mai, perché si estende dal punto in cui ci troviamo fino all’infinito; e così teoricamente prolungando all’infinito lo spazio che è sotto di noi, questo sarà nel contempo tanto sopra quanto sotto rispetto allo stesso punto di riferimento. Ma ciò è inconcepibile. In tal senso, è possibile assumere un solo movimento, che teoricamente si prolunghi verso l’alto all’infinito, e uno solo diretto verso il basso, anche se, <estendendo il movimento> mille e mille volte, ciò che procede da noi verso i luoghi situati al di sopra della nostra testa dovesse raggiungere i piedi di quelli che sono sopra, oppure quanto procede da noi in giù dovesse raggiungere la testa di quelli sotto. Ciò non di meno, il movimento nel suo complesso, viene concepito come fosse esteso all’infinito, in direzioni opposte l’una rispetto all’altra.

E, inoltre, è necessario che gli atomi abbiano anche una medesima velocità, tutte le volte in cui avanzano attraverso il vuoto senza che nulla si opponga: né, infatti, il pesante si muoverà più velocemente del piccolo e leggero, finché nulla si scontri con essi, né il piccolo andrà più lentamente rispetto al grosso, quando attraversi passaggi idonei, sempre che anche in questo caso nulla faccia resistenza: né <sarà diverso> il loro movimento verso l’alto | né quello laterale, provocato dalle collisioni, e neppure quello verso il basso, dovuto ai pesi propri. Infatti, tanto dura ciascuno dei due movimenti, altrettanto il movimento sarà veloce come il pensiero, almeno finché non si opponga un qualche urto, dipendente dal corpo esterno o dal proprio peso. Ma anche quando sono nei composti <non> si dirà che alcuni sono più veloci di altri, perché gli atomi hanno la medesima velocità, per il fatto che gli atomi che si trovano negli aggregati continuano a procedere verso un unico posto per un brevissimo attimo e <poi> non più verso quell’unico posto; infatti, si scontrano frequentemente, finché alla sensazione risulta un moto continuo. Infatti, l’opinione relativa all’invisibile che anche i tempi discernibili con la ragione avranno la continuità del movimento, non è vera in questi casi: perché è vero tutto ciò che viene visto intuitivamente o colto con la mente.

Dopo di che, è necessario considerare con riferimento alle sensazioni e alle passioni – così, infatti, si darà più salda credibilità –, che l’anima è un corpo costituito da parti sottili, disseminato per l’intero aggregato, estremamente simile a un soffio | dotato di una mescolanza di calore, in alcuni casi più affine a questo, in altri a quello. C’è, però, una certa parte dell’anima che si è andata nettamente distinguendo per via della finezza anche di queste particelle, e tanto più, per tale motivo, è in stretta relazione con il resto dell’aggregato. E tutto questo, sono le facoltà dell’anima a mostrarlo, e pure le affezioni, la facilità dei movimenti, e i processi mentali: insomma, ciò senza del quale moriamo. Inoltre, occorre tenere come punto fermo che la causa della sensazione è per lo più l’anima: ma essa, in verità, non l’avrebbe ricevuta se non fosse stata in qualche modo rinchiusa dal resto dell’aggregato. Ora, il resto dell’aggregato, pur conferendo all’anima una tale causa, ha parte anch’esso di questa proprietà per opera di quella, ma in forma accidentale e poi non partecipa di tutte le proprietà che quella possiede: ecco perché, una volta che l’anima si è separata, non riesce a mantenere la sensazione. Infatti, il resto dell’aggregato non possedeva in se stesso questa facoltà, ma era l’altra parte a fornirgliela: certo, una parte nata insieme che, grazie alla facoltà in esso attuata attraverso il movimento, e alla immediata realizzazione per sé dell’accidente della sensazione, l’ha trasferita anche a quello – come dissi –, in virtù di una vicinanza e di una stretta relazione. | Perciò, l’anima, finché è dentro <il corpo>, per quanto qualche altra parte se ne vada, non rimarrà mai priva di sensazioni, ma, se pure alcune parti di essa abbiano a perire, e ciò che la recinge si dissolva o totalmente o in parte, nella misura in cui permane, manterrà la sensazione. Il restante aggregato, invece, pur rimanendo sia tutto sia in parte, non riesce a conservare la sensazione, una volta che se ne sia andato quel numero di atomi, qualsiasi sia, che nell’insieme costituisce la natura dell’anima. Però, una volta dissoltosi l’intero aggregato, l’anima si disperde e non ha più le stesse facoltà, e neppure si muove, cosicché non possiede più nemmeno la sensazione. Non è, infatti, possibile pensare la facoltà senziente, se non è in questo dato composto e se non compie questi movimenti, e neppure se l’involucro che la circonda non sia più quello che, mentre si trova ancora in esso, le permette siffatti movimenti. Ma, in verità, anche su questo bisogna pur meditare: | che l’incorporeo si ha qualora il nome sia concepito di per se stesso. Ora, non è possibile concepire di per se stesso l’incorporeo, a parte il vuoto. Ebbene, il vuoto non può né fare né subire nulla, ma si limita a offrire ai corpi la possibilità di muoversi attraverso di sé. Cosicché, quanti dicono che l’anima è incorporea, dicono delle sciocchezze. Infatti, se fosse tale, non potrebbe né agire né subire mentre è evidente che entrambe queste proprietà appartengono all’anima. Pertanto, se si riportano tutti questi ragionamenti sull’anima alle passioni e alle sensazioni, senza dimenticare ciò che si è detto al principio, ci si renderà conto che la questione è stata adeguatamente inserita nella traccia <generale> in vista di una trattazione sicura anche nella prospettiva di un approfondimento dei particolari.

Ma, inoltre, anche le figure, i colori, le grandezze e i pesi, e quanti altri caratteri sono predicati di un corpo – in quanto si accompagnano o a tutti i corpi o a quelli visibili – e sono conoscibili mediante la percezione dello <stesso> corpo, non bisogna giudicare che siano nature di per sé | – ciò infatti è impensabile –, ma neppure negare che esistano, oppure che siano alcune altre realtà incorporee che si aggiungono al corpo, o parti di quest’ultimo; invece, bisogna ritenenere che l’intero corpo, nel suo complesso, tragga la propria natura durevole da tutti questi caratteri, e non possa essere costituito <dalla> loro aggregazione (come se un aggregato maggiore fosse costituito da queste particelle, siano esse primarie o <semplicemente> parti del tutto, più piccole di esso), ma soltanto, come vado dicendo, che debba la propria natura durevole a tutti questi. E tali caratteri sono oggetto di intuizioni paticolari e di apprensioni, ma in modo che sempre l’aggregato si accompagni per intero e che essi non ne risultino mai divisi in nessun caso, bensì assumano la predicazione secondo la nozione complessiva del corpo.

In verità, spesso accade che anche ai corpi si accompagni un carattere non durevole **, che non rientra nel novero degli invisibili e neppure che sia incorporeo. Per tale motivo, impiegando questo nome nel senso più comune, rendiamo manifesto che gli accidenti non hanno né la natura di quell’intero che noi chiamiamo corpo, concependolo tutto insieme come un conglomerato, e neppure la natura delle proprietà che lo accompagnano durevolmente, senza le quali non è possibile che un corpo sia pensato. E ciascuno di essi potrebbe essere predicato grazie a determinate intuizioni, sempre che l’intero composto | si accompagni, **, e quando ciascuno di essi si pari innanzi al nostro sguardo, dato che gli accidenti non sono attributi durevoli. E non bisogna eliminare dal reale l’evidenza che <gli accidenti> non hanno la natura del tutto al quale si accompagnano, e neppure <va cancellata l’evidenza> delle proprietà che ad esso stabilmente si connettono, ma che non possono considerarsi di per se stesse – ciò, infatti, non è neppure pensabile, né per gli accidenti né per le proprietà che si accompagnano ai corpi durevolmente –; invece, come risulta evidente, essi vanno considerati tutti come accidenti di un corpo che non lo accompagnano stabilmente e non hanno dignità di natura a se stante, bensì risultano essere esattamente nel modo in cui la sensazione li attesta.

E, in verità, anche ciò che segue si deve meditare seriamente: il tempo non va indagato come tutto le altre questioni che ineriscono ad un oggetto, riconducendolo alle prolessi che si colgono in noi stessi, bensì va considerata l’evidenza stessa, secondo la quale definiamo il tempo 'molto' o 'poco', e ciò, va fatto per via di analogia, riportandolo a qualcosa che gli è congenere. Né occorre cambiare espressioni cercandone di migliori, ma bisogna usare | quelle che già ci sono e che lo riguardano; neppure del tempo si deve predicare qualcos’altro, come se questo ne condividesse l’essenza e la specificità – eppure certuni lo fanno! –, ma bisogna soltanto, e in particolar modo, pensar bene a che cosa lo connettiamo e con che cosa lo commisuriamo. E questo, infatti, non ha bisogno di ulteriore dimostrazione, bensì di una riflessione <su base empirica>: noi connettiamo il tempo ai giorni e alle notti e alle loro parti, come anche alle passioni e agli stati di impassibilità, a movimenti e condizioni di quiete, intuendo che sempre, in tutti questi casi, c’è un accidente preciso, questo stesso, secondo il quale diamo il nome al tempo.

Oltre a ciò che si è detto in precedenza, occorre pensare che i mondi e ogni aggregato delimitato, simile a quelli che vediamo di frequente, siano nati dall’infinito: in particolare, tutti questi si sono costituiti per scissione da aggregati propri, più o meno grandi. E, di nuovo, tutte le realtà si dissolvono, le une più velocemente, le altre più lentamente, le une subendo questo processo per opera di certi fattori, le altre per opera di altri. Inoltre, | anche riguardo ai mondi, non bisogna pensare che di necessità abbiano una sola configurazione ** infatti, nessuno sarebbe in grado di dimostrare che in un certo mondo potrebbero anche non essere contenuti semi tali da dare origine alla costituzione degli animali, delle piante e di tutti quanti gli altri esseri che vediamo, mentre in un certo altro non potrebbero <esserci>.

Ma in verità occorre ritenere che anche la natura sia stata costretta a imparare molti e svariati insegnamenti da parte dei fatti | stessi e che il raziocinio, poi, elabori con precisione gli oggetti che gli vengono presentati dalla natura e che faccia ulteriori scoperte, in alcuni casi più velocemente, in altri più lentamente, e in alcuni periodi e tempi **, in altri, invece, anche minori. Perciò, anche i nomi, in principio, non venivano attribuiti secondo convenzione, ma le stesse nature degli esseri umani, per ciascun popolo, provando determinate affezioni e ricevendo determinate rappresentazioni, emettevano dalla bocca in determinati modi l’aria inviata da ciascuna affezione e rappresentazione, anche in ragione della differenza relativa ai luoghi in cui erano stanziati questi popoli. Successivamente, all’interno di ciascun popolo i vari suoni furono fissati in modo comune, allo scopo i rendere meno ambigue e più concise le indicazioni che venivano scambiate reciprocamente. E quelli che, consapevolmente, volevano introdurre visioni fino ad allora non condivise, per esprimerle diffusero determinati nomi, talora perché erano forzati a pronunciarli, talora, invece, per averli scelti con il ragionamento, assecondando la motivazione preponderante ad esprimersi in tale modo.

E poi, per quanto concerne i fenomeni celesti, bisogna pensare che movimento, solstizio, eclissi, levata e tramonto e i fenomeni simili a questi, | non avvengano perché qualcuno li dirige o li ordina o li abbia ordinati e intanto goda di ogni beatitudine, unitamente alla incorruttibilità (infatti, non si accordano con la beatitudine le occupazioni e le preoccupazioni, le ire e i favori, ma tali cose avvengono nella debolezza, nella paura e nella dipendenza da chi ci sta accanto), né, d’altra parte, <bisogna pensare> che, essendo <gli astri> masse di fuoco ripiegato su se stesso e in possesso della beatitudine, possano assumere questi movimenti a loro piacimento. Tuttavia, bisogna mantenere ogni solennità in tutti i nomi applicati a questi concetti, perché le opinioni che ne derivano non <risultino> opposte a tale solennità. In caso contrario, questa stessa opposizione provocherà il più grande turbamento nelle anime. Pertanto, occorre pensare che questa necessaria evoluzione dei fenomeni si compia fin dalla nascita del mondo, secondo l’originario modo di riunirsi di questi agglomerati. E ancora, bisogna ritenere che sia il compito specifico della filosofia della natura quello di cogliere con precisione la causa dei fenomeni più importanti, e il fatto che la beatitudine sta proprio qui, nella conoscenza di quali nature si rivelano in questi fenomeni celesti, | e tutte le nozioni che contribuiscono alla conoscenza precisa rivolta a questo scopo <della beatitudine>. E, ancora, bisogna ritenere che in questo genere di fatti non ci sia una pluralità di cause, né la possibilità di un qualche altro modo d’essere, ma, semplicemente, che in una natura incorruttibile e beata non c’è nessuno dei fattori che inducono scompiglio o turbamento. E questo può essere compreso semplicemente con l’uso della ragione. Ma ciò che rientra nella ricerca specifica sul sorgere e sul tramontare, sui moti celesti, le eclissi e i fenomeni simili, non ha più nulla a che vedere con la beatitudine, tant’è vero che coloro che ben conoscono queste cose, ma che non sanno quali siano le loro nature e quali le cause più importanti, hanno ugualmente paura, come la avrebbero se non avessero tali conoscenze; anzi, quasi quasi provano anche più paura, quando avviene che la curiosità suscitata da questa ulteriore conoscenza non permetta di giungere a una soluzione e di cogliere l’ordine delle realtà fondamentali. Quindi, anche quando trovassimo più di una causa per i solstizi, i tramonti, le levate, le eclissi e per i fenomeni simili, come anche per gli eventi particolari, non bisogna pensare che in questo campo non si sia raggiunta una profondità sufficiente alla nostra tranquillità e beatitudine. Cosicché, osservando in quanti modi, presso di noi, nella nostra esperienza quotidiana, accada lo stesso fenomeno, occorre cercare le cause dei fenomeni celesti e di ogni cosa non direttamente percepibile con i sensi, | disprezzando quanti non distinguono ciò che è o avviene in base a una causa sola e ciò che capita in base a molte cause, <e> trascurano che la rappresentazione viene da lontano, a distanza, e, quindi, ignorano anche in quali condizioni non è possibile stare tranquilli. In tal modo, se pensiamo che il fenomeno può avvenire anche in certi altri modi rispetto ai quali, è possibile stare ugualmente tranquilli, riconoscendo appunto questo, che esso avviene in molti modi, manterremo la serenità come se sapessimo che esso avviene in questo certo modo. Oltre a ciò, nel complesso, occorre considerare che il maggiore turbamento per le anime umane consiste nel ritenere che tali corpi siano, sì, beati e incorruttibili, eppure abbiano al contempo volizioni, azioni e causazioni contrarie a queste caratteristiche, e consiste altresì nell’attendersi o nel sospettare, alla luce dei racconti mitologici, qualcosa di terribile nell’eternità, oppure nel timore della mancanza di sensibilità che si verifica nella morte, come se essa ci riguardasse. <E pensare che> queste sofferenze non si fondano su giudizi, bensì su una certa convinzione irrazionale, per la quale, non sapendo definire questo 'terribile', sono soggetti a pari o ancor più grave turbamento rispetto a chi formulasse opinioni a caso, su tale argomento. L’imperturbabilità, | invece, consiste nell’essersi liberati da tutte queste ansie e nell’avere in mente, di continuo, gli asserti generali e i più importanti.

Di conseguenza, dobbiamo prestare attenzione alle circostanze presenti e alle sensazioni, in generale per le generali e individualmente per le individuali, e a ogni evidenza che si presenti, secondo ciascuno dei criteri <di verità>. Se, infatti, vi presteremo attenzione, riusciremo a comprendere chiaramente la causa da cui sorgevano il turbamento e la paura, e ce ne libereremo, indagando le cause dei fenomeni celesti e pure degli altri che ci càpitano abitualmente e che, nel complesso, spaventano a morte gli altri uomini.

Eccoti qui riassunti, o Erodoto, gli insegnamenti principali sulla natura di tutte le cose, cosicché, se mai qualcuno tenesse a mente con precisione questo efficace discorso, a mio giudizio, assumerebbe una robustezza incomparabile rispetto a tutti gli altri uomini, anche se non si addentra in tutti i dettagli precisi e minuti.. E, infatti, <non gli mancherà la possibilità> di rendere limpidi anche per conto proprio molti dei punti puntualmente precisati da noi nel corso dell’intera trattazione, e queste stesse nozioni, poste nella memoria, lo aiuteranno continuamente. Esse, infatti, sono tali che quanti le conoscono con precisione – <anche> quanto basta, nelle varie parti | o anche alla perfezione –, possono intrapprendere la stragrande maggioranza degli studi su tutta la natura, risolvendole per via di analisi in tali intuizioni,. Quanti, d’altra parte, non si sono ancora perfezionati completamente in questi studi, possono, grazie a tali nozioni e senza nemmeno bisogno di ripetersele a voce, fare rapidamente con il pensiero il giro dei punti più importanti, al fine di ottenere una condizione di quiete.

1 Nella Lettera a Pitocle, Epicuro afferma: 'Salpa l'ancora, ragazzo, e fuggi da ogni forma di cultura'. Che cosa voleva dire Epicuro con questa affermazione?

Come quando nega la vita politica, Epicuro, nel criticare la cultura, ha di mira una certa cultura, poiché per lui la cultura in astratto non esiste. Francesco Bacone ha sottolineato che la cultura è il passaggio da una realtà a un'altra. Facciamo un esempio: il vino in natura non esiste, né esiste l'olio. Occorre dunque avere abbastanza sapienza ed esperienza per poter strutturare la materia in modo che vengano fuori il vino e l'olio, che sono quindi frutto della tecnica. In natura non si trova niente del genere, o meglio si trova soltanto qualcosa di astratto, che non si riesce a cogliere. L'uomo è uomo proprio perché è processo, perché è farsi, è storia, cioè cultura. Cultura, infatti, vuol dire coltivare qualcosa che diviene altro da quello che era in natura. Quindi la cultura in astratto non c'è.

La cultura è, via via, l'esperienza di come si forma l'uomo pensando nella storia. Dallo scontro delle varie culture se ne creerà una nuova, che non sarà più né quella vecchia, né quella nuova, ma un'altra, né superiore né inferiore, ma diversa. La storia è fatta di cose 'altre', non di cose superiori o inferiori, altrimenti si dovrebbe postulare una sua mèta, un suo progressivo raggiungimento della verità. In molte storie della filosofia non si trova della cultura, ma soltanto notizie su Tizio che ha superato Caio. Ma ciò è falso: nessuno supera nessun altro. Si può superare se c'è una mèta fissa, e dunque quando si dice che Aristotele ha superato Platone, si presuppone che questo si sia avvicinato di più alla verità. Ma Platone è quello che è, e parlare di un superamento sarebbe come dire che l'automobile ha superato la carrozza. La carrozza non è stata affatto superata dall'automobile, poiché carrozza e automobile sono due cose diverse, che rappresentano qualcosa di compiuto in loro stesse, e che hanno due scopi diversi, così come le scienze.

2 Perché Epicuro è stato un grande nemico della retorica e della dialettica intesa al modo dei sofisti? Qual è per lui il rapporto tra dialettica e felicità?

Quando Epicuro dice che i fisici non amano la dialettica in quanto superflua per fare della fisica, non nega che la dialettica possa servire per altro: afferma soltanto che non serve per fare la fisica. Se invece si fa della morale, serve benissimo, in quanto la retorica e la dialettica non esistono al livello dello studio della realtà, ma esistono a livello dei rapporti tra gli uomini. Non è un caso dunque che Epicuro tragga gran parte delle analogie dalla dialettica platonica, ma non dalla dialettica relativa alla struttura della realtà, quanto dalla dialettica del vivere, del saper parlare, del saper porre una misura. Quel famoso piacere epicureo di cui tanto si parla, in realtà era un mettere l'uomo in rapporto con l'altro in modo da costituire una misura, un ordine. Naturalmente, non essendo dato, tale ordine si costituiva volta per volta, senza prevaricazioni, in una misura che realizzava pienamente gli uomini, diventando così piacere o eudaimonia, cioè felicità.

Il termine 'eudaimonia' viene dal greco eudaimon (eudaimwn), che vuol dire realizzare pienamente il proprio demone, l’indole che ci è congeniale, in un rapporto che è quello che è. Ecco perché Epicuro esorta a non pensare alla morte: quando c'è la morte non ci siamo noi, quando ci siamo noi non c'è la morte. Non bisogna pensare a un al di là per paura degli dèi, poiché agli dèi non importa nulla degli uomini. Epicuro non nega gli dèi, ma dice che al dio di Platone o di Aristotele, Atto Puro e Ordine del tutto, preferisce gli antichi dèi, perché sono quelli che meglio rispondono all'esperienza umana. Essi dunque esistono perché esistono dentro l'uomo, come esigenza umana. Tuttavia occorre porli come ideali privi di squilibri, fratture e dolore. Se infatti è vero che i mondi nascono da incontri e scontri e sono dolore e pace, un dio, per essere tale, deve essere esente dal dolore ed esistere fra i mondi, non nel mondo.

3 Per Epicuro il mondo ha una sua finalità?

Per Epicuro il mondo non ha finalità, quindi è meccanicistico. Tuttavia occorre considerare che solo un mondo meccanicistico implica la libertà. Per quanto ciò possa sembrare contraddittorio, in verità non lo è. Infatti, è vero che, una volta nato, questo mondo è meccanico, ma è pur vero che le macchine si possono sempre costruire in una maniera differente, mentre la necessità no. Se tutto va come deve andare necessariamente, l'uomo non ha nessuna speranza che in futuro le cose vadano in maniera diversa.

Se davvero fossimo dei metafisici, se avessimo davvero colto tutta la struttura della realtà per quella che è, il mondo dei rapporti umani sarebbe spacciato, perché non ci sarebbe più la speranza che le cose possano andare diversamente da come vanno. Pertanto, per Epicuro, è solo accantonando la struttura eterna della realtà che diviene possibile restituire l'uomo all'uomo, dandogli la possibilità di costruire il proprio mondo. Per Epicuro, infatti, un mondo necessario, eterno, indistruttibile, dove rimane solo la contemplazione e la conservazione dell'ordine che è, diventa il mondo della poiesis (poihsiV).

4 Che valore ha l'amicizia per Epicuro?

Quando Epicuro nega la politica prevaricante dei politicanti, sottolinea allo stesso tempo che l'uomo non può che essere politico, o meglio non può non avere rapporti umani. Ma quello a cui allude non è un rapporto politico come lo si intende ora, bensì un rapporto di philia, cioè di amore, di amicizia. Al posto del termine 'politica', che al suo orecchio suonava come 'prevaricazione', come qualche cosa di privato, Epicuro impiega la parola 'utile': l'uomo è uomo in quanto instaura rapporti dove vi sia reciproca utilità.

Quindi la molla dell'uomo è l'utile, da non confondersi con l'utilitarismo immediato. Ciò che infatti è chiamato 'utilitarismo epicureo' non è altro che l'amicizia. Dal punto di vista epicureo, dunque, il rapporto interpersonale, quando è prevaricazione, è un rapporto doloroso; quando è segnato dalla misura diviene un rapporto piacevole e di realizzazione di sé stessi.

5 A che cosa servono, per Epicuro, la filosofia e la scienza?

Sia all'inizio della Lettera a Erodoto che nella Lettera a Meneceo, Epicuro sostiene che, in fondo, il filosofare e lo studio della natura devono servire per liberare l'uomo. Un tuono è un tuono e non viene da Dio; il fulmine è un fulmine e non viene da Dio; non bisogna quindi avere timore di essere fulminati da Dio per le proprie azioni. Quindi liberare l'uomo dalle paure vuol dire fare una seria fisica, una scienza seria. A tal proposito occorre tener presente che la madre di Epicuro era un'indovina e faceva continui vaticini. É dunque possibile che Epicuro fosse stanco di questo genere di cose, tanto da voler rompere con tutto quello che era teologia.

Già Platone chiamava 'preti truffaldini' quelli che raccontavano dei misteri orfici, affermando che, se si compivano determinate azioni, si sarebbe andati incontro a un castigo certo nell'aldilà. Platone infatti era aspramente critico contro questo tipo di religiosi, anche se, come Epicuro, riconosceva il valore della religiosità come religione aperta, come spirito aperto. In breve, questi due pensatori hanno negato le religioni, ma non hanno negato la religiosità dell'uomo, dove per religiosità si intende il sentirsi spiritualmente dipendenti da una forza superiore, che può essere la natura o il Padre Eterno, ma della quale comunque non bisogna aver paura, perché è quello che è.

6 Da cosa viene l'importanza del sentimento della paura in Epicuro?

Per Epicuro la paura è in gran parte dovuta all'ignoranza. Quando dice che occorre arrivare a un equilibro, afferma anche che il piacere è il vero bene e che la virtù suprema è l'atarassia. Un'altra scuola, in origine vicinissima a quella di Epicuro, ovvero la scuola stoica, usa il termine apatia. L'apatia è il liberarsi dalle passioni, dal patire, dall'essere passivo, riconoscendo sé come attività e giudizio. Quindi per gli stoici, l'apatico è colui che, mancando di passività, diventa attivo nel giudizio.

Tarasso (tarassw) in greco vuol dire 'affanno', quindi l'atarassia è la mancanza dell'affanno, o, in termini moderni, la mancanza dell'angoscia. La paura di cui parla Epicuro, propria di ogni uomo, è l'ignoranza. Infatti, quanto più si è ignoranti, tanto meno si sa come vanno a finire le cose: questo crea una situazione di affanno.

L'angoscia è dunque il sentimento del non sapere che cosa sarà di noi: il timore di una punizione divina determina la paura della morte. Questa è dovuta al non sapere che la morte è nulla perché, fino a quando c'è la morte non ci siamo noi, quando noi ci siamo non c'è la morte. Quindi, dato che siamo in questo mondo, occorre cercare di realizzarsi in esso, senza pensare a un domani che si ignora e che non c'è ora. Occorre costruire insieme, in amicizia, questo mondo. La fisica, dunque, porta a rendersi conto che non bisogna avere paura dell'universo, dei tuoni, dei fulmini.

Purtroppo, gli scritti di Epicuro ci sono giunti in stato frammentario: tuttavia in Diogene Laerzio abbiamo delle lettere di Epicuro che, pur non essendo opere organiche, sono comunque uno strumento di propaganda. Sul problema della paura, vanno citate due epistole: la Lettera a Erodoto e la Lettera a Pitocle.

Nella Lettera a Erodoto, Epicuro scrive a una comunità per avvicinarla a sé, parlando di fisica ed afferma: 'Per coloro che, o Erodoto, non possono penetrare a fondo in ogni particolare la dottrina sulla natura esposta nei nostri scritti e ripercorrere con estremo impegno i libri maggiori della mia opera a questo scopo composta, ho io stesso preparato un'epitome dell'intero sistema dottrinario perché possano conservare in saldo ricordo e in modo sufficiente i princìpi più importanti e siano nella condizione di sostenersi in ogni circostanza sui capisaldi della dottrina, per quanto almeno intraprendano lo studio scientifico della natura. E anche coloro che hanno compiuto un sufficiente progresso nella contemplazione dell'universo devono sempre richiamare alla memoria gli elementi fondamentali di tutto il sistema dottrinario. () Dacché anche per chi abbia conseguito una perfetta maturità il requisito fondamentale per ogni esatta cognizione è costituito dalla facoltà di adottare con acuta rapidità le concezioni principali, in quanto ogni particolare viene ricondotto ad elementi semplici e a termini altrettanto semplici.'.

Per Epicuro in tal modo si supera il timore di una natura cattiva.

Nella Lettera a Pitocle Epicuro scrive: 'Apprendi bene questi precetti, tienili a mente e ripercorrili acutamente col pensiero insieme con gli altri che affidammo alla piccola Epitome ad Erodoto. Anzitutto bisogna credere che il fine che si ricava dalla conoscenza dei fenomeni celesti, sia considerati in relazione tra di loro sia autonomamente, non è altro se non l'atarassia e la salda fiducia, così come anche dalle altre indagini.'. Pertanto, per Epicuro l'unico scopo autentico dello studio dei fenomeni celesti è la tranquillità e la sicura fiducia dell'animo nei confronti delle paure che suscita la natura.

7 Che analogia c'è fra gli stoici ed Epicuro?

Epicuro non conosceva gli stoici, ma conosceva il primo stoico, suo contemporaneo, ovvero Zenone di Cizio. Zenone di Cizio sostiene che l'uomo è da un lato passività, dall'altro è attività. Fino a quando è passività, è preso da passione; nel momento in cui prende coscienza di sé, attraverso il giudizio, comincia a dominare teoreticamente, quindi conoscitivamente, le cose e passa dalla passività all’attività. Infatti, la virtù propria dell'uomo, la capacità dell'uomo, è quella di liberarsi dal patire per diventare attivo: tale virtù prende il nome di apatia. Per Zenone ci si libera dalla passività per cogliere l'ordine razionale entro cui rientra l'uomo; non si tratta dunque di un liberarsi dall'errore, né di una 'libertà di', perché, una volta conosciuto l'ordine, ci si deve adeguare a esso.

Epicuro afferma più o meno lo stesso, ma la sua non è una morale teoretica, intellettuale. Anche per lui, infatti, ci si deve liberare dalla passione, ma la passione è l'ignoranza, mentre la conoscenza non è conoscenza di un ordine che è, ma conoscenza di un ordine che viene fatto dall'uomo. Pertanto non bisogna aver paura della realtà, poiché la libertà dall'ignoranza porta l'uomo alla possibilità di ricostruire liberamente, tranquillamente, il proprio mondo, in amicizia, senza affanni, atarassicamente.

8 Per Epicuro che rapporto c'è tra dèi e giustizia?

Per Epicuro gli dèi esistono, ma si occupano dei loro problemi: se si occupassero di quelli umani, sarebbero simili agli uomini. Tuttavia è possibile aspirare a essere come loro, in quanto rappresentano, nell' intermundia, una misura, un ordine, mentre è in questo mondo che l’uomo deve costruire la sua realtà. Epicuro, dunque, elimina del tutto le essenze, le idee, le forme necessarie, affermando che il mondo umano nasce liberamente da scontri-incontri di atomi. Ciò significa che l'uomo ha la consapevolezza di potersi inserire nella serie delle cause e degli effetti, essendo causa prima, determinando dei rapporti che vengono a patti tra di loro.

Un testo epicureo che giudico fondamentale è rappresentato da una delle Massime capitali, in cui si dice che la giustizia non esiste. Il testo greco è leggermente diverso: infatti, traducendolo alla lettera, si dovrebbe dire: 'La giustizia non era, la giustizia esiste.'. É una sottigliezza, ma molto importante. Il termine 'era', infatti, è ripreso da Aristotele, per il quale le essenze delle cose 'erano': per esempio, tutte le navi, sia antiche che moderne ci sono perché c'era fin dall'origine la legge del galleggiamento; l'essenza della nave, dunque, non è quella di essere di ferro o di legno, ma è quella di rispondere alla legge del galleggiamento, che dunque 'era' anche prima delle singole navi. Quando Aristotele spiega l'essenza, la ousia (ousia), usa la formula to ti en einai (to ti hn einai ), 'Il ciò che era l'essere'. Pertanto, da Aristotele in poi, quando si vuol parlare delle essenze, si usa l'imperfetto, che in greco ha un valore continuativo.

Quando Epicuro afferma che la giustizia non era per sé, vuole dire che non esiste la giustizia come essenza universale, in quanto la giustizia è qualcosa che nasce nei rapporti reciproci e nei patti, attraverso i quali si stringe l'accordo di non arrecarsi danno reciproco. Quando ci si appella alla giustizia, in genere si dice che questa è uguale per tutti. Ma in realtà la giustizia non può essere uguale per tutti, perché la giustizia di un paese non è detto che corrisponda alla giustizia di un altro. Epicuro dunque considera la giustizia nello spazio, nel tempo, nelle differenti culture e non come un'essenza universale, ma come qualcosa che si costruisce via via.

9 É vero che Epicuro è uno dei fondatori del positivismo giuridico, cioè della concezione della legge intesa come pura convenzione fra uomini e non come legge di natura o legge universale di ragione?

Mentre con gli stoici nasce il giusnaturalismo, con Epicuro nasce il diritto come possibilità storica. Per gli stoici il diritto è diritto naturale poiché la struttura del tutto è una struttura legale e quindi, quanto più ci si adegua all'ordine del tutto, tanto più ci si adegua alla legge del tutto, che è legge di natura: da qui il giusnaturalismo.

Cesare fu detto epicureo non perché si dedicasse ai bagordi, ma perché era legato alla posizione dei Pisoni e di Filodemo di Gadara, in base alla quale era l'uomo che, di volta in volta, costruiva le sue leggi: il passaggio del Rubicone fu un atto in pieno contrasto con l'ordine di Roma, con il Senato e il popolo romano. Al contrario, con Augusto, gli stoici divennero i filosofi ufficiali di Roma, in quanto il loro diritto naturale prevedeva una legge uguale per tutti e ciò faceva gioco all'imperatore.

Cicerone, nelle Tuscolane, non solo contesta gli epicurei in quanto filosofi, ma li condanna da un punto di vista politico, ritenendoli capaci di corrompere l'ordine sociale. Ne propone la condanna con un decreto in quanto rappresentano una minaccia, poiché per loro l'ordine non è l'ordine costituito, ma è l'ordine che fa l'uomo. Cicerone vive in una situazione storica in cui lo Stoicismo simboleggia l'ordine di Roma, la res publica, dove ciascuno ha il posto che gli compete ed obbedisce al diritto naturale. Non è un caso che Augusto prese come suo 'confessore' di corte Ario Didimo, uno stoico. Nerone, invece, condannò gli stoici insieme ai cristiani: questi ultimi perché eversivi nei confronti dello Stato e adoranti un Dio unico; gli stoici perché negavano il potere di Nerone, interpretandolo come clemenza della res publica, ordine del tutto.

Nel corso della storia, dunque, Epicureismo e Stoicismo rappresentano delle problematiche politiche: l'ordine costituito contro l'ordine fatto dagli uomini; il mondo della libertà contro il mondo della chiusura nella urbs romana, che diventa orbe, il mondo nella sua totalità; il cosmopolitismo contro il giusnaturalismo. Naturalmente, il motivo stoico ha avuto sempre la tendenza a riaffermarsi nel momento in cui si è verificata una prevaricazione. Dopo la conquista definitiva della Grecia con la battaglia di Pidna, i vinti vennero condotti a Roma come ostaggi: tra loro c'era lo storico Polibio, che entrò a far parte della famiglia degli Scipioni. Scipione Emiliano, uomo molto fine, sentì il bisogno di trovare un ordine e una misura che giustificassero il proprio impero e la propria forza: questa funzione poteva essere assolta dalla concezione stoica.

Polibio, da parte sua, conscio della fine del mondo greco e del predominio violento di Roma, afferma che quanto i Greci deridono, è il fondamento della grandezza romana: la superstizione. Questa è presente in ogni aspetto della vita pubblica e privata a un grado tale che non se ne potrebbe concepire uno più alto. Polibio ritiene che la superstizione serve ad impressionare e controllare le masse. Questo non accadrebbe in uno Stato in cui tutti i cittadini fossero filosofi; ma in uno Stato in cui le masse sono instabili, piene di desideri illeciti, di violente passioni, non esiste mezzo migliore. Le masse vengono tenute a freno col timore dell'invisibile e attraverso idee sugli dèi, sulla vita ultraterrena e su una giustizia che esiste per sé. Polibio conclude che la follia e l'incapacità sono dei Greci, poiché credono di disperdere tali illusioni e di avere insegnato la libertà.

Questa è un momento di svolta nella nascita della cultura greco-romana, destinata a scontrarsi con l' emergente cultura giudaico-cristiana.

10 Quando si parla di Epicuro e della sua morale si pensa immediatamente al porco epicureo, alla persona che cerca a tutti i costi i piaceri sfrenati; eppure è noto che l’aspirazione di Epicuro era la tranquillità della vita. In cosa consiste dunque il piacere per Epicuro?

Per Epicuro il piacere consiste nella misura, nella capacità di costituire un ordine misurato, in amicizia. Questo implica che la nota immagine del porco epicureo non ha significato, perché quello del porco è un modello di piacere discutibile. Epicuro, infatti, riprendendo Socrate e Platone, sottolinea che il mangiar troppo o il bere troppo è un male, mentre il bene e il piacere stanno nella giusta misura.

Il punto essenziale è però quello colto da Marx, il quale, tornando su Epicuro, mostra come l'ignoranza sia il grande male dei popoli, in quanto consente ad altri di dare a intendere molte cose. Marx, dunque, risentendo profondamente dell'influenza di Epicuro, afferma che occorre abbandonare le religioni, le costruzioni astratte, al fine di vedere l'uomo com'è e restituirlo a se stesso, dandogli una cultura, nel senso buono della parola. Rovesciando i termini del rapporto, è l'uomo a costruire il suo mondo secondo giusta misura.

11 L'aforisma di Marx secondo il quale la libertà è coscienza della necessità, può essere fatto risalire ad Epicuro?

Quella di considerare la libertà come coscienza della necessità è una posizione più stoica che epicurea. Ritengo che Marx abbia ripreso tale idea da una tesi di Spinoza, il quale, a questo proposito, era stoico. Spinoza sosteneva infatti che sebbene sia Nerone che Oreste avessero ucciso la madre, Nerone lo aveva fatto credendo di essere libero di farlo, mentre Oreste sapeva di non poterne fare a meno, ovvero di non essere libero dalla necessità della sua natura. Per Spinoza, dunque, la libertà stava nel liberarsi dall'errore per adeguarsi all'ordine, e questa non è una posizione epicurea, ma stoica.

Marx ha scritto una splendida tesi di dottorato su Democrito ed Epicuro, che è importante non tanto per quanto vi si dice, poiché l'interpretazione di Marx avvicina moltissimo questi due pensatori, secondo gli schemi della storiografia ottocentesca e secondo lo schema hegeliano, ma per il fatto che Marx ritiene che sia Democrito sia Epicuro fossero materialisti e rappresentassero il rovesciamento dell'idealismo; che, dunque, per essi non si dovesse partire dall'idea che procede da se medesima e fa la storia alle spalle dell'uomo, attraverso l'astuzia della ragione. Marx, riprendendo Feuerbach, sostiene che le idee dell'uomo nascono dai suoi tubi digerenti.

Il materialismo marxista consiste pertanto nell'idea che la nostra condizione viene dai dati materiali, da quello che siamo. Siamo come siamo perché viviamo in una certa cultura, in un certo ambiente e la nostra materia è fatta di questo; se mangiamo bene abbiamo certe idee, se mangiamo male ne abbiamo delle altre; se viviamo in una certa società abbiamo un tipo di idea, se viviamo in un'altra società abbiamo un altro tipo di idea. La condizione di partenza è dunque la materia. Occorre pertanto rovesciare il discorso idealista e ammettere che non esiste una necessità ideale. Prima, con l’idealismo, si camminava sulla testa e coi piedi per aria; con Marx si dovrà camminare con i piedi per terra, costruendo le idee e le ideologie. Lo scontro, dunque, per Marx, non è fra tesi e antitesi, ovvero fra idee come per Hegel, ma è tra le culture, tra le opinioni, tra le classi, tra i modi di ordinarsi insieme. Inoltre, la tesi e l'antitesi non hanno una risultante necessaria, dunque occorre giungere alla rivoluzione per ottenere una soluzione. É per questo che Marx, in Epicuro e in Democrito, ha visto dei rivoluzionari.


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Appunti su: https:wwwappuntimaniacomumanisticheletteratura-italianoepicuro-lettera-sulla-felicita95php, Lettera a Meneceo Riassunto, lettera a meneceo spiegazione prima parte cosa vuole trasmetterci epicuro, http:2F2Fdottorato su epicuro,



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