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Capitano ulisse di alberto savinio




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CAPITANO ULISSE DI ALBERTO SAVINIO



Approdando al teatro di prosa dopo una serie di lavori musicali sorti nel congeniale clima parigino374, Savinio investe la sua familiarità con la mitologia greca rileggendo in chiave demitizzante e demistificante la vicenda dell'eroe

omerico375. È evidente che al "ritorno al teatro" del più giovane dei fratelli De Chirico contribuì la fiduciosa adesione allo sperimentalismo romano di Bragaglia e Pirandello. In particolare, l'affinità delle posizioni teorico-critiche (l'infrazione sistematica delle rassicuranti idées reçues della società borghese) e delle tecniche drammaturgiche rende il sodalizio tra Savinio e Pirandello interessante dal punto di vista storico e fa di Capitano Ulisse un prodotto

nient'affatto irrilevante sebbene non conclusosi proficuamente376.

Ricco di riferimenti precisi a stili e moduli estetici d'inizio secolo (in specie per l'agilità con cui si muove tra generi differenti, dal vaudeville all'operetta, dal Varietà al melodramma, con scene e stilemi recitativi che richiamano il cinema muto), il testo drammatico di Savinio può dirsi una letterale attuazione del progetto del Teatro d'Arte di Pirandello, il quale del resto elogiò la commedia definendola «un'opera di ironia lirica sull'eterno mito

dell'inquietudine di Ulisse»377.

Ciononostante, in una lettera a Henri Parisot (il traduttore ed editore che curerà la pubblicazione dei testi saviniani in Francia) datata 2 luglio 1946378, Savinio rivendicherà l'autonomia dall'influenza pirandelliana, preoccupandosi di segnalare che Capitano Ulisse è stato composto nel 1920, prima quindi della rivoluzione scenica dei Sei personaggi. L'affermazione sembra voler attestare l'originalità della concezione, nel tentativo di assicurarne la priorità inventiva rispetto ad altre composizioni di cui, evidentemente, si mostra debitrice. Pur

non escludendo che una prima incompleta redazione sia stata effettivamente completata qualche anno prima, la cartella contenente il testo nel Fondo Savinio del Gabinetto Viesseux, ove si legge quest'annotazione (scritta con

ogni probabilità da Maria Morino, l'attrice che Savinio sposerà nel 1926), «il Capitano Ulisse di Alberto Savinio fu scritto nel '24 per il Teatro d'Arte di

Roma»379, lascia pochi dubbi.

Del resto, se le didascalie di La Sagra del Signore della Nave pongono la necessità di uno spazio che si concreterà con la configurazione del teatro Odescalchi, quelle di Capitan Ulisse di Alberto Savinio ne richiamano direttamente la struttura architettonica. Si deve ad Alessandro Tinterri l'ipotesi che l'apparato di indicazioni sceniche adombri uno spazio reale, riconducibile

a quello del teatro romano380. L'ipotesi del resto è suffragata da alcune

eloquenti annotazioni: all'inizio dello spettacolo, a sipario chiuso, Euriloco - il secondo di Ulisse - incomincia una conversazione con uno spettatore della prima fila: «Viene sul proscenio, va a sedere sul primo gradino della scala che unisce palcoscenico a platea». Il prologo ironico e straniante è interrotto dal sopraggiungere di Ulisse, dal fondo della platea, che ordina di aprire il sipario. Inevitabile pensare alle due brevi rampe di scale che uscivano dalla zona della ribalta e che Pirandello utilizzò come si è visto per l'allestimento della Sagra del Signore della Nave e per la riedizione dei Sei personaggi in cerca d'autore (risalenti entrambi, come abbiamo detto, alla primavera del 1925).

Movimentando lo spazio della sala, come Pirandello aveva già sperimentato, e prescrivendo fenomeni di entrata e uscita dalla zona della finzione, Savinio trasforma il teatro intero in palcoscenico, «per modo che l'azione comincia e finisce dietro le spalle degli spettatori»381. D'altra parte, la topica dello spettatore inaspettatamente coinvolto nell'azione drammatica nasce puntellandosi sulle serate avanguardiste, sketches futuristi e dadaisti in

primis, e si fissa poi nel ciclo pirandelliano del "teatro nel teatro"382, ponendosi come tratto caratteristico della poetica novecentesca, e testimonianza di una equilibrata confidenza con i principi convenzionali della finzione comica e metateatrale383.

Più avanti, Circe - siamo a metà del primo atto - «si affaccia e sporge da un palco di proscenio»384, sfruttando la verticalità consentita dai palchetti che concludevano i bracci laterali della galleria dell'Odescalchi. Protesa verso Ulisse tenta furiosamente di trattenerlo («sporta con mezzo il corpo fuori del palco, Circe si torce le braccia in una tensione suprema di tutti i nervi»385) ma questi vince infine la seduzione supplicante della donna (raggiunta nel palchetto dallo Spettatore, che la consola teneramente) tornando dai suoi uomini pronti per imbarcarsi386.

In modo analogo, nell'ultima scena Penelope «appare al sommo della galleria»387 (quella galleria che nell'Odescalchi sormontava la platea intramezzata da una scalinata centrale) e chiama disperatamente Ulisse ma quest'ultimo, che si trova in platea a braccetto con lo Spettatore, non la ode (o meglio, finge di non sentire) e si allontana «verso il fondo della sala»388.

La rivisitazione del mito si fa pretesto per una dissacrazione che trasforma l'eroe omerico in un individuo absolument moderne, per dirla alla Rimbaud, combattuto e incompreso. Disilluso dalla realtà trovata al ritorno ad Itaca, l'Ulisse di Savinio, forse memore della rivisitazione pascoliana389, infrangerà la quarta parete e abbandonerà definitivamente lo spazio della narrazione leggendaria per calarsi in quello prosaico della vita. Concludendo

così un doppio movimento di immersione ed emersione (e, forse, di liberazione), Ulisse penetra nelle stanze interne, superando i diaframmi interposti tra sé e l'intimità, per poi riuscirne, riavventurarsi nello spazio

esterno al palco e al teatro.


Tutta la commedia presenta una serie di variazioni giocate sull'intervallo, sulla separazione degli spazi, sulle linee di passaggio. Numerosissime, e determinanti, sono le didascalie inserite da Savinio per rimarcare gli episodi di scavalcamento, le incursioni o i tentativi che i personaggi (compreso lo Spettatore) accennano nell'attraversare il diaframma nell'una o nell'altra direzione, talora fermandosi, trattenuti o incerti.

All'uopo Savinio chiede con insistenza di raddoppiare la classica linea separatoria tra palco e platea, introducendo una linea divisoria ulteriore, un secondo sipario possibilmente realizzato in una «tinta molto scura [.] e tale da far risaltare il quadro interno»390. Già indicato nelle didascalie, questo intendimento è l'argomento principale delle lettere che Savinio indirizza a Guido Salvini, incaricato della messinscena a ridosso della prevista rappresentazione391. I bozzetti realizzati da Giorgio De Chirico, che Savinio inviò a Salvini come descrizione grafica dei suoi desiderata, non sono stati ritrovati. La serie di disegni che accompagna adesso il testo del dramma risale forse alla prima edizione in volume di Capitano Ulisse (1934), ma rivela comunque una stretta corrispondenza con le indicazioni sceniche di Savinio, prestandosi a più di una considerazione392.

Savinio riteneva irrinunciabile l'impiego di un controsipario che potesse spostarsi e aprirsi per metà, generando così degli angoli visivi particolari. Così, ad esempio, nel primo quadro del secondo atto, solo il lato sinistro del sipario interno deve aprirsi lentamente, scoprendo lo studio di Telemaco, mentre l'altra metà deve andare a chiudere la parete di destra. Il disegno di De Chirico riproduce tutti gli elementi di arredo elencati nella didascalia: «carta geografica sul muro. Tavola con mappamondo, regoli, squadre e compassi.

Uno scanno davanti alla tavola. Grande lavagna su cavalletto»393.

Lateralmente è collocato il pianoforte nero, dove Telemaco - «veste da collegiale inglese: eton-jacket nero, corto, terminato a punta; calzoni bianchi; collettone inamidato; cravattona svolazzante; capelli lisci, pettinatissimmi, con scriminatura laterale» - studia «svogliatamente la prima sonatina di Muzio Clementi»394.

Il secondo quadro colloca il salotto di Calipso nell'altra metà del palcoscenico, che si apre come una scena mentale dinanzi a Ulisse, il quale, rimasto attonito tra i due sipari dopo l'incontro col figlio, «scatta in piedi come dormiente risvegliato»395.

L'apertura e la chiusura del sipario interno non intervengono solo nella parzializzazione della scatola scenica, bensì graduano il coefficiente di realtà delle singole situazioni. Al di fuori del sipario vero e proprio sta l'attraente libertà, l'allettante autonomia; superato il primo confine ontologico si penetra nello spazio della rappresentazione, ove vige il gioco delle parti e si è responsabili di un andamento previsto e prevedibile. L'apertura del sipario interno, invece, svela un luogo della mente o della memoria, racchiuso, come una scena simultanea, nel più ampio contenitore finzionale. Così lo studio di Telemaco e il salotto di Calipso nel secondo atto non sono situati incontri fisici, ma apparizioni oniriche o tracce mnemoniche sovrapposte al flusso lineare della vicenda, che riprende solo nel terzo quadro del secondo atto, dopo che lo

Spettatore avrà afferrate e spalancate le due estremità del sipario396.

Ma anche uscendo dalla mise en abyme e riportando l'azione "al presente", la sala del palazzo di Alcinoo, re dei Feaci, al quale Ulisse rivolge una preghiera assai poco eroica, impietosendolo con le proprie vicissitudini («Affranto, sfinito, china il mento sul petto e rimane muto, immobile davanti alla corte dei Feaci, corsa da un brivido di commozione»397), si tramuta in uno spazio aperto, riacceso dall'intervento divino di Minerva. Lo schizzo di De Chirico non trascura le tre finestre rettangolari, in alto, «aperte sul cielo vespertino»398, previste da Savinio; da una di queste apparirà luminosamente Minerva «armata di tutto punto, con elmo corazza, e lancia»399, per ammonire

lo slancio nostalgico del suo protetto.

E ancora, transitando precipitosamente per le fenditure dei sipari il maggiordomo Eumeo e Telemaco aprono il terzo atto, annunciando la carneficina dei Proci, che qui si consuma con una sparatoria dai contorni che diremmo oggi degni di una pulp fiction: cessato il crepitio delle pistolettate, Ulisse fende il sipario e appare «lordo di sudore e di sangue, col maglione

lacero, stringendo in pugno due rivoltelle»400.

In definitiva il montaggio dell'azione, descritto in termini cinematografici da Claudio Longhi, consente a Savinio «di ottenere effetti di dissolvenza incrociata (si veda il passaggio dal I al II quadro dell'atto II con trasferimento della scena dallo "studio" di Telemaco alla "villa" di Calipso) e di flashback (si veda il brusco salto spazio-temporale imposto al decorso del dramma nel passaggio dal II al III quadro dell'atto II - dalla dipartita di Ulisse dalla villa di Calipso alla rievocazione delle proprie avventure fatta dal

protagonista nel palazzo di Alcinoo [.])»401.

Così come le didascalie denotano una sicura «padronanza del vocabolario scenotecnico»402, la corrispondenza con Salvini e Picasso mostra la disponibilità di Savinio a rivedere e semplificare il gioco scenico attraverso suggerimenti pratici. Preoccupato che l'applicazione dei due sipari risultasse macchinosa e ostacolasse la rappresentazione della sua commedia, ansiosamente inseguita, l'autore propone a Salvini di impiegare «un'unica

tenda in tre sezioni da poter sollevare separatamente (due sezioni oblique se non proprio perpendicolari alla platea, mentre rimane orizzontale quella corrispondente all'episodio di Ulisse alla corte di Alcinoo)»403 - una soluzione che a Savinio torna in mente dopo aver visto il Coriolano di Shakespeare messo in scena da Tumiati. Nella lettera datata 20 novembre404 Savinio si riferisce a quanto credo alla messinscena del 19 novembre 1925, ad opera della Compagnia Tumiati-Celli, nella quale i numerosi cambiamenti di scena imposti dal dramma shakespeariano erano risolti attraverso un sistema di tende nere, potendo queste scoprire ogni volta un quadro diverso, ad imitazione di un palcoscenico multiplo405.


Il sistema di Savinio in effetti «utilizza il sipario come la tenda del greco arcaico, per creare uno spazio ulteriore - che qui si confonde con la scena immaginaria - dove si svolgeva quella parte della vicenda che veniva affidata al messaggero»406. Senonché, come sottolineato da Giuditta Isotti,

«nella commedia saviniana la scena interiore è (rap)presentata all'interno dell'altra»407.

Il «carteggio un po' questuante»408 indirizzato a Salvini e Picasso si

concentra nel novembre del 1925 e testimonia, oltre all'impegno di Savinio e al suo desiderio di veder rappresentato ad ogni costo la commedia, l'importanza attribuita ai costumi, descritti minuziosamente (con previsione di alcune varianti e semplificazioni), e al disegno scenico, soprattutto per quello che riguarda l'utilizzo della sala e la localizzazione dei quadri. Premura per niente dilettantistica ed anzi pienamente funzionale all'esecuzione di un testo a cui

Savinio teneva «per molte, per moltissime ragioni»409. Facendo leva sul

distanziamento ironico consentito dall'anacronismo, l'autore descrive con l'abituale compiaciuto stilismo il «tea-gown sul tipo di quelli confezionati dalla Casa Poiret»410 indossato da una delle ancelle di Circe, il doppiopetto gallonato portato da Ulisse come fosse un personaggio di Jules Verne, con

«solino a risvolti, cravatta nera, berretto piatto con piccola ancora nel mezzo»411, la mise da «pastore protestante»412 di Mentore, redingote, panciotto e colletto chiuso, e l'abbigliamento comicamente dandy di Alcinoo, «giacca scura con rosetta all'occhiello, calzoni a scacchiera, ghette color mandorla»413.

Non altrimenti la generosa abbondanza con la quale Savinio addiziona alle battute un'indicazione registica o un movimento che prolunga o raffrena la battuta indica la cognizione di una sorta di prontuario attoriale, usato per saldare l'azione a una precisa meccanica gestuale. Si veda ad esempio un frammento del dialogo tra Ulisse e Calipso, un passaggio che si fa citare anche per la posa "classicheggiante" con la quale si presenta la ninfa, tanto nella didascalia di Savinio quanto nell'illustrazione del fratello, archetipo muliebre

che arieggia l'iconografia della dea dormiente (in primis le Veneri di Tiziano): CALIPSO (avvolta in una sontuosa vestaglia e mollemente coricata sopra una sedia a sdraio, considera Ulisse con malinconico affetto. Sebbene la morbida grazia delle forme e la calma dolcezza del volto richiamino al carattere autunnale della donna di quarant'anni, Calipso non è se non la replica esatta di Circe). Sempre triste, sempre pensoso.

ULISSE. Chi è? (scatta in piedi come dormiente risvegliato, ma non si volta)


.Voce inopportuna! Ha spazzato via ogni cosa, come vento infocato! (Rimane immobile, ritto, con gli occhi sbarrati) Vuoto! vuoto! (Muove le mani davanti a sé, come cercando qualcosa) Nulla! (ricade affranto, sullo scanno) Solo! di nuovo solo! (China la fronte delle mani).

CALIPSO (che ha seguito con molta commozione il soliloquio di Ulisse, ha un'espressione di stizza non appena questi pronuncia la parola «solo»). Questo poi!

ULISSE (come parlando a se stesso). Solo! Storione in mezzo a una sala da ballo, bicicletta nel fondo del mare!

CALIPSO (ridendo con riso grasso, un po' isterico). Ah, ah, ah, ah, che immagini! Lascio me, che non conto più di una mosca.414



La rarefatta tessitura dialogica, che nelle battute combina variamente arcaismi quasi dannunziani e artificiosa poliglossia, ha nel paratesto didascalico un incessante contrappunto. All'uso di strategie che insistono sugli automatismi della lingua, in particolare sulle disfunzioni e sui cortocircuiti rivelatori, come la parapraxis o il lapsus, si affianca così il frequente utilizzo di angolazioni inusuali, prospettive interrotte e trovate spiazzanti.

Si noti a questo proposito il gruppo di indicazioni sceniche relative all'illuminazione, tese ad accentuare, in chiave ironica, uno scarto, una dilatazione, uno sfondamento della cubatura del palcoscenico: l'«enorme proiettore» trasportato dalle ancelle di Circe per scrutare la superficie del mare in cerca di Ulisse415, i raggi luminosi che «spuntano sotto la papalina» di Mentore, aureolandone il capo e rischiando di rivelare la vera identità di Minerva416, la «luce obliqua» e crepuscolare che penetra da un'ampia finestra

sul fondo del salotto di Calipso417.

Da ultimo, a comprovare la destinazione del lavoro saviniano, si può notare che il numero di personaggi chiamati in scena e la distribuzione delle parti sembra ricalcare la composizione della compagnia regolare in forza al Teatro d'Arte. Un elevato numero di comprimari e alcune "punte" a cui assegnare i ruoli principali: un primattore, Lamberto Picasso, per Ulisse; la giovane star Marta Abba nel ruolo triplice di Circe-Calipso-Penelope, ognuna

«replica fedelissima dell'altra»418; una seconda attrice, l'ormai matura Jone

Frigerio, a cui si confaceva la parte di Minerva; un "brillante" (poteva trattarsi di Egisto Olivieri) nel ruolo ironico dello Spettatore419.

Dopo un accidentato periodo di prove, caratterizzato da dissapori e tentennamenti420, l'abbandono di Lamberto Picasso (imbarcatosi nella fugace impresa del Teatro di Villa Ferrari insieme a Olga De Dieterichs con i capitali del marito di lei, il conte Mario Ferrari) significò per Savinio, che aveva riposto tutte le sue speranze nel primattore pirandelliano, la definitiva rinuncia al suo progetto, nonostante gli ultimi tentativi di "dirottare" il suo Ulisse verso altri porti421. Alla fine dell'anno Savinio si raccomandava con Picasso per tornare in possesso del proprio copione e consentirne una traduzione in tedesco422; e si dovrà forse riconoscere in Capitano Ulisse il non meglio identificato «lavoro di Savinio» annunciato nel cartellone della prima stagione (1926-1927) del Théatre Jarry diretto da Artaud423.

Savinio ripone la commedia tra le sue carte per alcuni anni finché nel

1934, mutato il titolo da Capitan Ulisse a Capitano Ulisse, viene dato alle stampe (Roma, Quaderni di "Novissima", ed. numerata di 110 esemplari), ben accolto dalla critica424. Quanto fosse stata deludente l'esperienza è testimoniato dal già citato articolo del 1938 Il Teatro è fantasia, in cui Savinio scrive velenosamente: «Il verismo ha talmente infettato il nostro Teatro, i nostri attori sono talmente lordi di Verismo, che di travestirsi, mascherarsi, rientrare nella loro verità di attori, ormai si vergognano [cors. dell'A.]»425.

Poco tempo dopo Capitano Ulisse finalmente debutta, con la regia di Nando Tamberlani, al Teatro delle Arti diretto da Bragaglia. Ennio Cerlesi intepreta Ulisse, Tina Lattanzi recita il triplo ruolo di Circe/Calipso/Penelope, le scene sono del futurista Vinicio Paladini e i costumi di Maria Signorelli. Mutato profondamente il clima e l'aspettativa, l'accoglienza riservata all'opera, accusata di intellettualismo e scarsa originalità, è decisamente fredda.

Dopo una lunga eclissi la riscoperta della drammaturgia saviniana avviene al termine degli anni Ottanta, con la ripubblicazione del testo e la messinscena di Mario Missiroli del 1990, con Virgilio Gazzolo nella parte di Ulisse e Ilaria Occhini a interpretare la triade di personaggi femminili. Edizione che si fa ricordare soprattutto per il virtuosistico apparato scenografico di Sergio D'Osmo: l'assito del palcoscenico è trasformato nella tolda di una nave, calata in una struttura classicheggiante, comprendente un

doppio ordine semicircolare di palchetti426.

Non meno suggestivo il décor pensato da Andrea Stanisci per la più recente riedizione del testo saviniano, diretta da Giuseppe Emiliani nella stagione 2009-2010427. L'autore delle scene, nonché dei costumi, ha infatti proiettato sullo sfondo un secondo ordine di scenografie moltiplicando in chiave onirica i punti di fuga e raggiungendo un effetto di "palcoscenico nel palcoscenico"428.

Le due riprese si fanno citare per la corposità della componente visiva,

ancorata alle feconde didascalie ambientali dell'autore, che devolve all'impianto scenico la suggestione di quella che Savinio intendeva come "avventura colorata". Sta in questa espressione, perfettamente in assonanza con le teorie sceniche coeve (Ricciardi e Rosso di San Secondo), il principio del teatro saviniano: un universo in potenza, da vedersi come un prisma riflettente, in cui l'autore, come fosse responsabile di un cantiere o di un laboratorio

chimico429, deve dotarsi di una «scrittura complessa, una scrittura non univoca,

una scrittura polisignificante, una scrittura franta»430, con la quale opporsi a un'asfissiante Fremdbestimmung. Riporto ancora le parole di Savinio: «Resta inteso che la forza solutrice del teatro è data soprattutto dai colori. Quanto più vivi, orgogliosi, mordenti i colori, tanto più efficace, completa l'operazione catartica»431.

A conclusione di questo capitolo si dovrà menzionare un altro lavoro di Savinio che, se non fu pensato appositamente per il Teatro Odescalchi, da questo ricevette ospitalità, intrecciandosi per vari motivi alla genesi e alla matrice stilistica di Capitano Ulisse432. Si tratta di La morte di Niobe, "tragedia mimica in un atto con musica", secondo la definizione, forse impropria, di un'opera che sfugge a una definizione univoca, «considerata la compresenza di

linguaggi eterogenei e l'inserzione di parti cantate»433. Dopo gli esperimenti tentati in precedenza, non ancora affiorati del tutto dal «limbo progettuale»434, per Savinio, migrante dell'arte e delle arti, si trattava «dell'estremo limite cui era stato possibile condurre sino a quel momento il dramma per musica»435.

In otto sequenze di varia lunghezza va in scena una creazione spuria e auratica, che ridimensiona, «secondo una voga francese praticata tra le due guerre»436, una fabula epica prelevata dalla mitologia greca: «l'antico mito tragico si consuma nel gioco teatrale di veloci quadri pantomimici popolati di stanchi fantasmi trascinatisi lungo i muri, di una folla indifferente di mancati personaggi borghesi che di quei fantasmi hanno la stessa consistenza»437. L'abito eterno del mito, con i suoi accessori ironici e solenni, è predisposto per una temporalità non scalfita dalle contingenze, come quella in cui riposano gli esseri polimorfi e le aggregazioni galleggianti dipinti da Savinio negli stessi

anni.

Se il ruolo del personaggio borghese, rimasto vacante, trova un suo surrogato ironico nella convivenza di parvenze simulacrali, statue e personaggi umani438, la novità consiste nella particolare forma drammaturgica, che non conclude in sé un racconto per movimenti, ma compone un'interpolazione di due tracce, una puramente coreica e una puramente poetica. Pur preservando l'autonomia della prosa librettistica, «il progetto musicale di Savinio mira al

teatro, ad un teatro 'metafisico' dove il rapporto tra musica e dramma venga inteso non più come 'illustrazione' del dramma attraverso la musica, ma come rapporto paritetico che garantisca, nello stesso tempo, unità e autonomia all''azione drammatica' e all''azione musicale'»439. La situazione drammatica "approfitta", per così dire, della musica, indipendente dall'azione performativa440, lasciando che «i nuovi parametri della simultaneità, dell'iterazione, della giustapposizione, del concatenamento ermetico»441 si

esprimano attraverso le sue pulsioni e contrazioni, sistole e diastole.

Pertanto, proverò a intrecciare nella sinossi la scrittura scenica del libretto alle didascalie in rosso vergate da Savinio sulla partitura442, caratterizzata da frequenti cambiamenti di tempo (da 3 quarti a 4 quarti, ma anche 5 quarti e 6 quarti) e da un organico stravinskiano, in cui tromba, celesta, arpa e quattro pianoforti creano effetti inconsueti come colpi secchi e continui glissandi443.

L'andamento «mosso e agitato» della prima scena ha luogo di notte, in una piazza mediterranea, si direbbe, per la prossimità al mare, se non italiana, davanti a una chiesa; sul fondo «due zoccoli di statue, vuoti», da cui sono discese due sculture metafisiche, dechirichiane (il fratello Giorgio realizzò in effetti alcuni bozzetti per l'opera, liberamente ispirati allo "script" di Savinio). Tenori e bassi intonano monodicamente un canto di marinai, fino a un "solo" del soprano: «E la riva trema di pianto nell'immensità».

Mentre le due statue «passeggiano nel fondo», un gruppo di fantasmi balla in proscenio. Ai fantasmi si unisce un gruppo di preti usciti dalla chiesa, animando una quadriglia empia o carnevalesca, accompagnata dallo xilofono:

«I preti si tirano il saio e ballano freneticamente. I fantasmi-femmine si avvinghiano ai preti più giovani: questi le respingono e si carezzano fra loro»444. La luce del mattino interrompe bruscamente il sabba, le statue risalgono sui piedistalli, i fantasmi si afflosciano a terra. Nel silenzio dell'orchestra fa la sua comparsa un personaggio vestito di nero, alto e magro: da questo momento in avanti osserverà muto lo svolgersi della vicenda

volgendo le spalle al pubblico.

All'inizio della terza scena entra Niobe con i figli. La donna ha «un che tra la tacchina e la faraona. Amplissima veste, grondante falbalà»445. È interessante notare che il personaggio mitologico della figlia di Tantalo sarà ritratto più volte da Savinio, e in un dipinto del 1932 avrà proprio una testa di uccello. Un'attenzione ancora maggiore merita la descrizione dell'elegante tenuta dei niobidi: «eton-jacket nero, corto, terminato a punta; calzoni bianchi;

collettone inamidato; cravattona svolazzante; capelli lisci, pettinatissimmi, con scriminatura laterale»446. Una mise che corrisponde parola per parola a quella

del giovane Telemaco in Capitano Ulisse. Trattandosi di Savinio, non si potrà spiegare tale coincidenza con le ragioni della parsimonia e dell'aridità inventiva, bensì con l'intenzione di ispirare i due modelli filiali al medesimo criterio umoristico, facente leva sull'anacronismo (e dove, volendo, si potrà rinvenire un influsso autobiografico, ricordando certi autoritratti di Savinio nelle bizzarre e cerimoniose tenute impostegli dalla madre).

Niobe contempla estatica i suoi ragazzi, li mette in posa, li lascia esaminare orgogliosa. Le coloriture della celesta ammorbidiscono e sfumano l'asprezza dei restanti timbri, mentre la donna «comincia a girare intorno al gruppo infantile con leggeri passi di danza»447. La danza di Niobe prosegue sempre più veemente, sostenuta da un vertiginoso saliscendi di scale legate.

La quarta scena è brevissima: appena dopo che Niobe avrà lanciato la sua sfida agli dei (si ricordi che nella scrittura omerica e in quella di Ovidio la donna si vanta dei propri figli con Latona, madre di Apollo e Diana, confrontandone la bellezza) «un sipario nero copre il cielo», una delle due statue cade a terra, tutti fuggono. I pianoforti lasciano crollare note gravi, «con un dito» e «al massimo della forza», come annota Savinio sulla partitura. Il fragore della statua caduta sta su un mi dei piatti, e sui glissati dei pianoforti.

Dal cielo si affacciano, nella quinta scena, Apollo e Diana, «giovani, biondi, bellissimi». Si intendono, guardandosi e salutandosi. Cominciano a scagliare frecce contro i figli di Niobe, vendicando l'offesa subita. Nuovamente la celesta ha il compito di accentuare l'espressività degli sguardi; anche i gemiti dei niobidi trafitti si trovano su agitati e scattosi passaggi di celesta e xilofono, mentre gli elementi percussivi stanno in posizione contrastiva.

Morto anche l'ultimo bambino Niobe s'ammutolisce, nel momento in cui «misteriosamente brillano le notine di una "boite à musique"»448. La statua rimasta sullo zoccolo si china per il dolore. Niobe prima cade svenuta poi si risolleva e resta impietrita con il pugno teso verso il cielo. Su un carro - «la carretta della Rivoluzione» - vengono ammucchiati i cadaveri dei bambini. Siamo nell'ottava e ultima scena: si intravede una nave prendere il mare. La statua caduta riprende il posto sul suo piedistallo. Anche Niobe, pietrificata,

viene condotta via, salutata dalle due statue. Si vedranno a questo punto due gesti eternati nella pietra: il pugno chiuso di Niobe e quello delle due statue somigliante al saluto romano. In un'atmosfera che pare quella di un quadro di Magritte, le persone con impermeabili e ombrelli osservano i morti prima di

uscire.


La scena si vuota, mentre il personaggio vestito di nero, come al termine di una tragedia greca, «traccia per terra e in aria segni di esorcismo». Infine tira fuori la pipa e si mette a fumare. Il sipario si chiude sull'orchestra che seccamente lascia spazio alla sezione ritmica. A questo punto, dice l'ultima didascalia, «s'intende quindi che tutto è rientrato nell'ordine e nella

tranquillità, come al termine delle tragedie di Shakespeare»449. Come osserva

Taviani, con quest'ultima indicazione, estranea alla prosa asciuttissima del libretto, «lo spettatore riprende il sopravvento», lasciando pensare che Savinio abbia composto l'opera per fornirsi una versione stabile e dilatata d'una sua feconda esperienza in platea»450. Quando nell'ultimo capitolo analizzeremo un testo affine a La morte di Niobe come la Salamandra di Luigi Pirandello avremo modo di tornare sulle particolarità di questa forma drammaturgica, che

prova ad assorbire e riprodurre le continuità e discontinuità della danza.

Annunciata per il 27 febbraio del 1925, La morte di Niobe va in scena all'Odescalchi il 14 maggio in occasione del primo dei giovedì dedicati alla danza. Nella troupe figurano le due future compagne dei fratelli De Chirico, Raissa Lork (pseudonimo di Raissa Gourevich), allora sposata al coreografo dello spettacolo Giorgio Kroll, e Maria Morino. La prima sviluppa

impetuosamente il ruolo di Niobe451, la seconda (che ha lavorato con Eleonora

Duse e nell'occasione si trova a recitare insieme alle sorelle Jone e Delia)

impersona «la signora smancerosa»452.

La delusione per la mancata messinscena di Capitano Ulisse e per l'insuccesso dei suoi balletti allontana Savinio dalla scrittura drammaturgica. Alcun testo teatrale o musicale è scritto nei circa vent'anni che separano gli

insuccessi del Teatro d'Arte dai due atti unici scritti a metà degli anni Quaranta, Il suo nome e La famiglia Mastinu, entrambi adattamenti di due racconti di poco precedenti. Lo stizzoso rifiuto e la "misoteatria" dichiarata a più riprese, non impediscono a Savinio di dar corso a una costante attività di scenografo e costumista (nel secondo dopoguerra realizza alcune scene per la Scala di Milano e per il Maggio Musicale Fiorentino453) e di cronista sui generis per il settimanale «Omnibus» (nel triennio 1937-1939)454.



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