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Lucrezio




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LUCREZIO


Lucrezio

Notizie biografiche.

99-94 a.C.: nacque in una località della regione campana Tito Lucrezio

Caro. Ricevette una educazione raffinata e sicuramente visse a Roma,

dove strinse amicizia con Memmio, cui dedicò il poema.

55-50 a.C.: intorno a questa data si colloca la morte di Lucrezio. Le

notizie tramandateci da S. Girolamo, secondo cui il poeta, affetto da

follia a causa di un filtro amoroso, sarebbe morto suicida, sono oggi

considerate leggende nate in ambiente cristiano dopo il IV sec. come

tentativi per spiegare in qualche modo una posizione filosofica che

appariva aberrante. Il "De Rerum Natura" fu pubblicato da Cicerone.


Lucrezio contro la religione tradizionale.

Il concetto della divinità come un'autorità superiore alla quale prestare obbedienza in cambio di concreti favori, rappresenta uno fra i principali obbiettivi della polemica lucreziana. Due sono, secondo Lucrezio, le cause dei mali dell'uomo: da un lato egli è legato alle proprie passioni che lo tormentano col desiderio di possedere e con la paura di perdere i beni materiali; dall'altro la paura della morte. A tali mali Epicuro contrappone il "farmaco", una medicina consistente in quella che Lucrezio chiamava "ratio", cioè nella conoscenza autentica sia della natura che della realtà propria dell'uomo. Nel 173 a.C. due filosofi epicurei erano stati allontanati da Roma perché la loro dottrina era considerata nociva alla mentalità dei cittadini romani, ma un secolo dopo l'epicureismo era la filosofia di moda negli ambienti intellettuali. Lucrezio stesso riconosce che la dottrina epicurea è spesso fraintesa e interpretata in modo riduttivo dai Romani: essa cioè è presentata come più triste di quanto non sia in realtà. In vero Epicuro aveva avversato la poesia di tutto l'immaginario della religione pagana. Lucrezio invece vuole dimostrare che la poesia può assumersi il compito di illuminare le menti: che si tratti di impresa ardua e unica è il poeta stesso ad affermarlo e a chiarirlo nel vv. 925 e segg. del I libro. La scelta della forma poetica, assai più familiare e cara al pubblico romano di quella del trattato filosofico, si prestava in modo particolare a illustrare i motivi più lieti e attraenti di una dottrina alla quale si rinfacciava il pessimismo. Il poema affronta prima la conoscenza della natura perché l'etica epicurea presupponeva una visione della natura del tutto nuova e rivoluzionaria, fondata sull'atomismo e sul naturalismo. La natura non viene più contemplata nel travestimento mitologico, ma indagata nella sua molteplice realtà. Gli eventi della terra e del cielo acquistano profondità e verità, si svelano nelle loro leggi e insieme si occultano in un più oscuro mistero. In questa rappresentazione della natura "bella e terribile", come la vedrà il Leopardi, rientra anche la celebre visione della peste di Atene nel VI libro. Essa per i posteri suggella il poema in una atmosfera di estrema tragicità, certo non conforme alle intenzioni di Lucrezio che amava piuttosto rappresentare la natura nella sua stagione più florida e verde, la primavera. La pregiudiziale contro gli dei non impedisce infatti a Lucrezio di sciogliere, all'inizio della sua opera, l'inno a Venere, dea della primavera, della generazione e dell'amore. Il culto di Venere aveva eccezionale diffusione nella Roma del I sec. Comunque l'immagine di Marte disarmato tra le braccia di Venere introduce il tema della pace. In caso di guerra Memmio non avrebbe il tempo di dedicarsi alla filosofia: l'onore della sua stirpe sarebbe infatti ferito se egli non intervenisse in difesa della patria. Il confronto di Lucrezio con la civiltà del suo tempo viene sviluppato nella seconda parte dell'opera: cardine della morale epicurea è il rifiuto delle passioni, in gran parte generate dai falsi bisogni di una società sofisticata e corrotta. Uno fra i nefasti risultati del progresso è per Lucrezio l'organizzazione della collettività e la necessità del diritto, "leges artaque iura". Infatti la sete dell'oro, smodata fino alla follia, ha distratto a tal punto la solidarietà umana da render necessario il freno delle leggi e del potere. Coerentemente allo sviluppo di questo tema Lucrezio afferma che la cosa migliore è limitarsi ad obbedire all'autorità senza lottare per ottenere il potere. E la stessa caduta della monarchia e l'avvento dei regimi democratici sono avvertiti come ulteriori passi verso un esistenza complicata dai ceppi della "vis" e dell' "iniuria". Questo segmento del discorso lucreziano, quasi anarchico, si conclude però con una condanna precisa di chi viola i "communia foedera pacis". La stessa esigenza di umanità e di giustizia induce Lucrezio a rigettare la religione tradizionale in uno dei suoi aspetti più crudeli e più diffusi fra i popoli primitivi: il sacrificio umano, rappresentato nei celeberrimi versi sul sacrificio di Ifigenia. La figura della fanciulla sacrificata si contrappone, nella sua innocenza, a quella degli uomini che sono pronti a versare il sangue di lei. Nella figura di Agamennone, fisso nel proprio fanatismo, Lucrezio respinge anche quei genitori spietati in cui si era incarnata la "virtus" romana delle origini. Religione autentica non è compiere atti formali: il comportamento degno dell'uomo razionale è una contemplazione mente pacata, nella coscienza che un infinito abisso separa gli uomini dalle divinità. Il pessimismo lucreziano nasce da una acuta sensibilità verso la bellezza della natura e le mille ferite che ne deturpano troppo spesso il fascino, e insieme da una generale visione del mondo che lo vede segnato da una legge di fatale decadenza: la terra è vecchia, l'uomo, corrotto da abitudini troppo innaturali, va verso la propria rovina: la lucida visione delle colpe e delle sofferenze dell'essere umano, priva di ogni spiraglio provvidenzialista, risulta profondamente tragica. Lucrezio implicitamente arriva a postulare una sorta di colpa originaria che ha marchiato questa creatura singolare, destinandola al dolore e alla inquietudine, dal primo vagito all'ultimo sospiro.


Il "De Rerum Natura".

-Struttura e contenuti.

Scrive Cicerone al fratello Quinto nel febbraio del 54 a.C.: "Lucreti poemata, ut scribis, ita sunt, multis luminibus ingeni, multe tamen artis". La maggior parte degli studiosi ritiene che il poeta dovesse essere morto da poco e che Cicerone avesse in mano il poema lucreziano per una revisione. In sei libri, preceduti da un proemio sotto forma di un inno a Venere, Lucrezio espone la dottrina di Epicuro con dedica dell'opera a C. Memmio, esponente di quella classe sociale più restia a prestare ascolto alla dottrina di Epicuro. Questa era rivoluzionaria per Roma e per il suo assetto politico-sociale. Tre i motivi principali che la percorrono: la felicità dell'uomo non riposa nell'adempimento dei doveri verso la patria e la società, ma nel piacere contemplativo; la religione tradizionale è considerata superstizione; viene consigliata una vita di rinuncia lontana dalle competizioni politiche e dalla gloria. Il "De Rerum Natura" è strutturato in coppie di libri che hanno per oggetto la fisica, la gnoseologia nell'aspetto concreto della lotta alle passioni e infine la vicenda dell'uomo nel mondo che non è stato creato per lui. Manca una trattazione della morale "ex professo" e Lucrezio non tiene fede alla promessa di trattare delle sedi beatifiche degli dei collocate negli intermundia. E' stata sostenuta perciò la non completezza dell'opera, ipotizzando che Lucrezio avrebbe voluto far seguire un epilogo dedicato alla divinità, da contrapporre al prologo.


-Lingua e stile.

Lucrezio è il primo scrittore che tenti di esporre in poesia ed in lingua latina una filosofia che viene dalla Grecia: deve quindi trovare una espressione che rispetti il rigore scientifico della dottrina epicurea ma nello stesso tempo affascini l'animo del lettore con le immagini poetiche; a questo scopo Lucrezio adotta un linguaggio solenne da qualcuno definito "oracolare", riprendendo i procedimenti stilistici dei poeti arcaici (numerosi sono gli arcaismi, gli aggettivi composti, le perifrasi, le onomatopee, le allitterazioni, le metafore). Dal punto di vista stilistico, Lucrezio adotta spesso un andamento didascalico con inviti frequenti al lettore perché faccia attenzione, e con l'uso frequente di analogie e similitudini. Si può dire che Lucrezio abbia usato mezzi stilistici diversi nel suo poema, passando dall'asciuttezza del linguaggio nelle dimostrazioni scientifiche, alla sonorità e arditezza delle immagini nelle contemplazioni dell'universo e nella descrizione di catastrofi immani.


-Metrica.

Esametro dattilico: metro usato da Omero; introdotto da Ennio (padre dell'etica latina); metro dell'epica e del poema didascalico.

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Brani tratti dal "De Rerum Natura".

-Inno a Venere (I, 1-43).

vv. 1-20: Lucrezio sta iniziando un poema didascalico e quindi deve, in conformità alle leggi del genere letterario, aprire il poema con un invocazione alla divinità: altrimenti il lettore "antico" non avrebbe riconosciuto il tipo di prodotto letterario. Molti interpreti si sono stupiti di questo inno a Venere, ma per capire la presenza di questa preghiera bisogna tener presente alcuni punti: -l'epicureismo non era affatto una filosofia atea: Epicuro riteneva che gli dei fossero molto più perfetti degli uomini e che costituissero una sorta di modello al quale il saggio aspirava; -esistevano le esigenze del genere letterario, come già detto; -la scelta di Venere non è certo casuale: l'epicureismo è la filosofia che asserisce che il piacere è il motore della natura e Venere-Afrodite veniva appunto riconosciuta come "la divinità del piacere". vv. 21-43: la preghiera si divide in due parti: -letteraria, qui Lucrezio invita Venere a cooperare al suo progetto; -civile, qui Lucrezio prega Venere per la pace dello stato; -fra esse si inserisce la dedica a Memmio.


-Elogio di Epicureo (I, 62-79).

In generale: dopo l'inno a Venere, un inno ad un essere umano, Epicuro, alla divinità e al filosofo, ambedue modelli per costruire la propria vita. L'inno a Epicuro, considerato il maestro, colui che ha liberato l'umanità da una condizione di servitù e di dipendenza, restituendo all'uomo la dignità e la libertà della ragione. E' un atteggiamento tipicamente "illuminista" che si fonda sulla convinzione che le forze della ragione umana siano in grado, da sole, di liberare l'uomo. vv. 62-71: in questi versi Lucrezio delinea il quadro delle condizioni dell'umanità prima che il genio di Epicuro realizzasse la liberazione dell'umanità: gli uomini sono schiacciati sotto un peso, quello della superstizione religiosa, che incombe sui poveri mortali. Epicuro, come un eroe dei poemi epici, si volge contro quelle forze oscure, ingaggia la sua battaglia contro di loro. vv. 72-79: il maestro è raffigurato come un esploratore che si slancia oltre i confini del mondo e che al ritorno dal suo viaggio riferisce, vincitore, ciò che ha veduto e scoperto. In conseguenza di questo atto eroico, il rapporto di sudditanza con la religione è superato, ed è anzi essa ora ad essere schiacciata sotto i piedi da una umanità finalmente vittoriosa. Epicuro è descritto come un generale vittorioso (victor, vv. 75).


-Il sacrificio di Ifigenia (I, 80-101).

Non è la filosofia che spinge a comportamenti non umani, ma la religione. Il vate Calcante persuade il re Agamennone a sacrificare la figlia Ifigenia sull'ara della dea Artemide. L'esempio mitologico è evocato da Lucrezio per compiere l'operazione della "relatio criminis" cioè il rovesciamento dell'accusa contro l'accusatore stesso. La raffigurazione delineata da Lucrezio è caratterizzata da una vivissima capacità iconica: si veda il concentrarsi della descrizione su particolari fisici. Ifigenia è stata ingannata, era convinta di andare sull'ara per sposare Achille, invece sposa la morte.


-La felicità del filosofo (II, 1-62).

vv. 1-13: è descritta la tempesta, in più ci sono quadri che ritraggono eventi familiari al lettore romano (le manovre militari, etc.). Il filosofo osserva dall'alto ed è triste per il prossimo, ma contento per se stesso. vv. 14-16: esclamazioni contro la stupidità dell'uomo. vv. 17-18: enunciazione della norma ascetica epicurea, che porta al benessere psicologico (vv. 18-19). I desideri fondati sulla fisicità (vv. 20-22) e i piaceri non necessari (vv. 23-28) si contrappongono alle gioie della vita semplice (vv. 29-33).


-La noia (III, 1053-1075).

La sete di vita, l'avidità di gioie sempre nuove che continuamente agita l'uomo è follia, perché non sta in esse la serenità e la pace dell'anima. Gli uomini dovrebbero comprendere quanto è inutile questa loro ricerca di beni irraggiungibili e inesistenti, e che questo loro affannarsi opprime e rattrista senza tregua la vita; e troverebbero allora nella scienza la tranquillità e la serenità tanto agognate. L'originalità e la forza di Lucrezio non si sentono forse mai come in questo finale, in cui egli rende con la maggior concretezza e plasticità il sentimento più vago e quasi impalpabile delle età decadenti e stanche per il troppo godere: quella noia, la cui parola fu creata dall'età moderna e che non ha neppure un vocabolo altrettanto espressivo e quasi pittorico, nella mollezza delle sillabe, che lo designi nelle età antiche e, soprattutto, in quella di Lucrezio, la quale non conosce se non il solido, corpulento, romano taedium vitae. Nell'età imperiale, in Seneca, nel suo dialogo "De vita beata".


-Gli amari frutti dell'amore (IV, 1131-1148).

La passione amorosa acceca l'uomo, che cerca così di evitare la noia attirando la donna in banchetti fastosi e dispendiosi, in cui disperde le sostanze acquistate faticosamente dagli antenati. Oltre a ciò, pur nel bel mezzo del convito, basta uno sguardo per insospettire l'infelice amante, che muta in amarezza l'esaltante ebrezza del banchetto. Se tanti sono i rischi di un amore che si crede fortunato, ancora peggiori sono quelli di un amore meno sicuro. È meglio quindi non lasciarsi irretire dalla passione d'amore, cosa più facile che uscire da essa.


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