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Resistenza partigiana in Italia: reazione al vuoto istituzionale




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Resistenza partigiana in Italia: reazione al vuoto istituzionale


Quadro storico


L'origine della narrazione della Resistenza si colloca all'indomani stesso dell'armistizio

dell'8 settembre, come risposta, attraverso un intenso sforzo propagandistico, a una serie di fonda­mentali esigenze politiche condivise dall'intero fronte antifascista, dalla monarchia al governo Badoglio, ai rinati partiti politici antifascisti riuniti nel Comitato di Liberazione Nazionale: l'esigenza di controbattere la propaganda della Repubblica sociale italiana che stigmatizzava l'armistizio come «tradimen­to» della nazione e dell'alleato tedesco e invitava gli italiani a continuare la lotta a fianco del Terzo Reich; l'esigenza di mobilitare il paese nella lotta contro la Germania cui il re Vittorio Emanuele III aveva dichiarato ufficialmente guerra il 13 ottobre 1943; l'esigenza di rivendicare dagli Alleati il superamento dello status armistiziale dell'Italia, la quale, pur riconosciuta come Stato «cobelligerante», restava un nemico sconfitto, cui era stata imposta una resa incondizionata


L'8 settembre del 1943 rappresentò una svolta radicale: il crollo verti­cale dello stato, «l'ultima grande forma di solidarietà collettiva in cui si rifugiano gli individui», lasciò ognuno solo con la propria coscien­za ad affrontare l'orrore della guerra totale ci fu chi nel venir meno della presenza dello stato vide un'occa­sione di libertà e di attivismo e chi fu attanagliato dallo smarrimento, dalla paura, sentendosi inerme nei confronti dell'incalzare degli even­ti drammaticamente distruttivi che scuotevano l'Italia. Nacquero slan­ci di solidarietà e di sacrificio insieme a chiusure egoistiche, si moltiplicarono le «rotture» tra ita­liani e italiani. Di queste «rotture», quella tra fascisti e antifascisti fu una delle tante, certamente quella maggiormente segnata dalla politi­ca e dall'ideologia, ma certamente non l'unica. Nella Resistenza, sem­brerebbe infatti che la disputa prin­cipale fosse quella spalancatasi tra fascisti e antifascisti da una parte e il resto della popolazione dall'altra, tra chi «scelse» comunque di schierarsi e chi rinunciò anche al­lora a ogni tipo di impegno, inse­guendo esclusivamente una dispe­rata voglia di sicurezza, preferendo rimanere "passivi".


L'8 settembre aveva in questo senso in­nescato un trauma psicologico oltre che un vuoto istituzionale. Le cer­tezze alimentate dalla presenza dello stato si erano dileguate parallelamente alla proliferazione dei centri di potere, all'emergere di un ordine precario, sempre ai confini dell'arbitrio e dell'illegalità. Ma allora è legittimo mettere sullo stesso piano fascisti e antifascisti? Questa equiparazione fu all'origine delle polemiche scatenate dalle prime formulazioni della tesi di Pa­vone. In realtà la somiglianza tra i due schieramenti finiva proprio nel momento in cui le scelte venivano compiute. Chiunque fossero gli uo­mini chiamati ad operarle, quelle scelte diventavano il momento fon­dante di una rinascita esistenziale ed anche l'inizio di una divaricazione che Pavone ha inseguito lungo percorsi che vanno dalle emozioni fino ai comporta­menti politici in senso stretto.
























Claudio Pavone:


"Una guerra civile - Saggio storico sulla moralità della Resistenza"




8 settembre: tempo di scelte e di tradimenti


L'8 settembre 1943 il maresciallo Badoglio annunciava l'armistizio, atto che per i fascisti divenne momento solenne di tradimento verso la patria, l'onore, il duce e il fascismo, verso loro stessi e l'alleato tedesco.

Il 12 settembre Mussolini, liberato da un commando di paracadutisti tedeschi e trasferito in Germania, tornò a far sentire la propria voce ai suoi fedelissimi e alla popolazione italiana:


Camicie Nere, italiani e italiane! Dopo un lungo silenzio, ecco che nuovamente vi giunge la mia voce [.]. È la voce che vi ha chiamato a raccolta nei momenti difficili, che ha celebrato con voi le giornate trionfali della Patria [.]. Sono ora più convinto che mai che Casa Savoia ha voluto, preparato e organizzato, anche nei minimi dettagli, complice ed esecutore Badoglio, il colpo di Stato, complici pure taluni generali imbelli e imboscati, con invigliacchiti elementi del fascismo [.]. Lo stato che noi vogliamo ricostruire sarà nazionale e sociale nel senso più lato della parola [.]. Riprendere le armi a fianco della Germania, del Giappone e degli altri alleati. Solo il sangue può cancellare una pagina così obbrobriosa come quella della resa condizionata [.]. Contadini, operai, e piccoli impiegati, lo Stato che uscirà da questo immane travaglio, sarà il vostro, e come tale lo difenderete contro chiunque sogni ritorni impossibili [.]. Più che una speranza, questa deve essere per tutti voi una suprema certezza. Viva l'Italia, Viva il Partito fascista repubblicano!


Arrivava dunque il tempo delle scelte per gli italiani. Mussolini sopravvalutava però la fedeltà e le capacità psicologiche dei suoi concittadini, tra l'altro già provati dalla durezza del conflitto. Le domande che i soldati si ripetevano - seguire l'icona fascista nell'avventura salotina, diventare partigiani, consegnarsi ai tedeschi o, infine, rimanere passivi rispetto agli eventi aspettando che essi si svolgessero da soli o li risvegliassero dal torpore -  diventavano dilemmi di difficile soluzione.


La popolazione voltò le spalle ai seguaci del duce. I nuovi eroi, dopo anni di obbedienza passiva, erano diventati i partigiani, rappresentanti della nuova società civile e politica. Come risposta, i fascisti della Rsi inasprirono le rappresaglie non soltanto contro i nemici ma anche nei confronti della popolazione accusata di fiancheggiarli. Nella barbarie generale aumentò la pratica delle fucilazioni pubbliche lasciando i corpi dei giustiziati per lungo tempo in

esposizione, come "deterrente".


L'8 settembre causò dunque una frattura in una parte della popolazione italiana. Una spaccatura, questa, che avrà conseguenze importanti soprattutto sullo sviluppo futuro del neofascismo e che colpirà in modo forte e diretto solo quella parte minoritaria di italiani che credevano fermamente nelle virtù del fascismo e che, dopo il 1946, votarono per il Movimento sociale italiano (Msi). L'Italia si allontanava dai fascisti e i fascisti abbandonavano idealmente quel "paese" nel quale avevano tanto creduto.


Chi 'tradisce' chi, e facendo o non facendo che cosa? Quale 'giuramento' vale ancora? Su che cosa o in nome di chi fondare o rifondare un'appartenenza o una fedeltà? Non sono domande da moralisti o da filosofi. Pavone, documentando le insicurezze e la demotivazione dell'esercito, dimostra anche che questi interrogativi si posero concretamente, in quell'estremo frangente, a militari e a civili, prigionieri di guerra e giovani di leva, intellettuali e funzionari, all'uomo e alla donna qualunque; e non solo a chi finì poi per compiere la scelta antifascista.


'Chi era stato sconfitto nella guerra fascista combattuta fra il 1940 e il 1943? Soltanto il fascismo? O lo Stato italiano con il quale il fascismo si era identificato? o ancor più l'Italia stessa, come entità nazionale storicamente definita?' .



















Le "tre guerre"




II libro di Claudio Pavone può essere letto come una ricchissima riflessione intorno al tema della guerra. Egli sostiene che nel corso della Resistenza si sono intrecciate tre guerre: una guerra civile tra cittadini dello stesso paese, una guerra nazionale contro i tedeschi e una guerra di classe tra operai e industriali, tra agrari e con­tadini, che rilanciava e riprendeva quella che si era combattuta tra la conclusione della prima guerra mondiale e l'avvento del fascismo (e, più in generale, nell'intera vicenda della storia dell'Italia unita).


Il tema centrale dell'opera, provocatorio e coraggioso, è quello della guerra civile. Tema provocante, perché infrange un tabù a lungo difeso dalla pubblicistica antifascista, in particolare di parte comunista, impegnata ad accreditare l'immagine legittimante di una Resistenza come guerra patriottica, pura 'lotta di liberazione nazionale'. E perché da sempre il termine guerra civile è appartenuto alla propaganda fascista e neofascista, al mito negativo della 'guerra fratricida', della dissoluzione infamante dell'unità nazionale in cui i valori si annullano o, indifferentemente, l'unico valore diventa il combattimento stesso.


Essa fu, certo, una guerra civile 'sui generis': intanto perché entrambi i contendenti 'italiani' erano in realtà parte di due ben più grandi eserciti contrapposti che li sovrastavano - l'Asse da una parte, gli Alleati dall'altra - protagonisti marginali di una gigantesca 'guerra civile' mondiale; e poi perché i fascisti erano, rispetto ai tedeschi, la parte meno rilevante del nemico, quella che meno condizionava, sul piano militare, i termini del conflitto.

















Il vuoto istituzionale e la scelta



Un altro elemento che caratterizza l'indagine di Pavone, a cui è dedicato il primo capitolo del Saggio e sul quale si è focalizzata anche la più recente ricerca storiografica è il tema della scelta; una scelta compiuta da una minoranza attiva l'8 settembre, quando nel vuoto istituzionale crea­tosi gli italiani furono chiamati a scelte alle quali molti di loro mai pensavano che la vita potesse chiamarli. Nelle situazioni di normalità, infatti, non è necessario prendere continuamente posi­zione a favore del sistema. Ma la necessità di esplicitamente consentire, o dissentire, diventa impellente quando il sistema scricchiola, il mo­nopolio della violenza statale si spezza, e gli obblighi verso lo Stato non costituiscono più un sicuro punto di riferimento per i comportamenti individuali, in quanto lo Stato non è più in grado di pretendere quei «sacrifici per amore» sui quali spesso fa affidamento.


Il crollo del vecchio stato, la dissoluzione di tutte le istituzioni, la delegittimazione di tutte le autorità, lo straordinario e catastrofico 'vuoto' che allora si creò, pone infatti al centro l'essenza etica e politica di quella fase: la necessità, per ognuno, di 'scegliere' in forma autonoma, libero da ogni vincolo istituzionale, sulla scorta esclusivamente del proprio repertorio di valori. È quello che Pavone definisce, con le parole di Sartre, come uno straordinario ''ampliamento del campo del possibile' e insieme un improvviso assolutizzarsi del campo della responsabilità.


Il venir meno della presenza statale poteva essere avvertito con un senso di smarrimento o come un'occasione di libertà: questo è il significato di vuoto istituzionale. Quando le truppe tedesche di occupazione cominciarono a dare un minimo di formalizz­azione alla loro violenza, che aveva dilagato per tutto il campo lasciato scoperto dall'eclisse delle autorità italiane, e quando, subito dopo, i fascisti crearono la Repubblica sociale, quando cioè il vuoto istituzionale fu in qualche modo riempito da un diverso sistema di autorità, la scelta da compiere divenne più dura e drammatica, perché la spontanea, umana solidarietà dei primi giorni non fu più sufficiente.


Nella guerra civile ognuno entrò in base a una libera scelta: e le due parti vi entrarono in modi diametralmente opposti, pur nella confusione e talvolta nell'intreccio dei sentimenti (ansia, vergogna, paura, sollievo, senso di abbandono, rancore). La discriminazione principale sta nel rapporto con l'obbedienza e la trasgressione: 'Il primo significato di libertà che assume la scelta resistenziale - annota Pavone - è implicito nel suo essere un atto di disobbedienza. Non si trattava tanto di disobbedire a un governo legale, perché proprio chi detenesse la legalità era in discussione, quanto di disobbedienza a chi avesse la forza di farsi obbedire. Era cioè una rivolta contro il potere dell'uomo sull'uomo, una riaffermazione dell'antico principio che il potere non deve averla vinta sulla virtù. La scelta dei fascisti per la Repubblica sociale[] non fu invece avvolta da questa luce della disobbedienza critica. 'L'ho fatto perché mi è stato comandato' sarà, come noto, il principale argomento di difesa'.


"Per la prima volta nella storia dell'Italia unita gli italiani vissero in forme varie un' esperienza di disobbedienza di massa. Il fatto era di particolare rilevanza educativa per la generazione che, nella scuola elementare, aveva dovuto imparare a memoria queste parole del libro unico di Stato: «Quale dev'essere la prima virtù di un balilla? l'obbe­dienza! e la seconda? l'obbedienza!» (in caratteri più grandi) «e la terza? l'obbedienza!» (in caratteri enormi)."























La violenza



Il libro passa in rassegna la complessa e ricchissima problematica della violenza propria della guerra partigiana: dalle tattiche di combattimento (lo scontro aperto, l'imboscata, la guerriglia in città) al problema della disciplina e all'amministrazione della giustizia (tribunali partigiani, le fucilazioni, le sanzioni, il trattamento di prigionieri e spie), dal tema della rappresaglia e degli ostaggi a quello della tortura.


La grande differenza di valore simbolico che ha la violenza esercitata dagli uomini della Resistenza rispetto a quella praticata dagli eserciti e dai corpi di polizia regolarmente costituiti di­scende dalla rottura del monopolio statale della violenza. I problemi morali fatti nascere dalla smisurata violenza praticata da decine di milioni di uomini durante l'intera guerra vengono così caricati in modo particolare, pretendendo più nette risposte, su poche decine di migliaia di partigiani, che eser­citarono la violenza per propria scelta.


Nella mitologia fascista vivere e morire per la Rsi, era prova di un "orgoglio senza parole di una generazione romantica che aveva ascoltato la lezione dei padri". Il verbo diventava reagire al tradimento di molti italiani, all'armistizio dei badoglini, alla loro decisione di diventare cobelligeranti al fianco degli anglo-americani e difendere l'onore perduto. Queste erano le parole d'ordine tra fascisti della prima e dell'ultima ora. Poco importava se per realizzare ciò il prezzo da pagare sarebbe stato la guerra contro altri italiani, perché - giova ricordarlo - i tedeschi, poco fiduciosi delle capacità militari italiane, impiegarono i reparti della Rsi soprattutto nelle operazioni di repressione della Resistenza. Fu così che si accentuò l'odio per i partigiani, partigiani che dai fascisti non erano più considerati come italiani, in quanto i veri italiani erano solo loro, i repubblichini che combattevano per l'Italia del duce.


L'ostilità del popolo aveva però delle ragioni profonde e ben precise. Da un lato vi era, in alcune regioni, l'occupazione militare nazista; dall'altro, i soprusi del fascismo repubblicano. In più, si subivano il peso della guerra e le ristrettezze economiche e alimentari. Ad aggravare la situazione contribuiva la violenza ordinaria e giornaliera (oltre ai casi tristemente famosi come le Fosse Ardeatine o l'eccidio di Marzabotto) che la popolazione subiva da parte di fascisti e tedeschi e che contribuì - se non fu la causa principale - a fomentare il clima di odio nei confronti degli occupanti in camicia nera e ad allontanarli da questi.

Piero Calamandrei:


"Uomini e città della Resistenza"


"Il carattere che distingue la Resistenza da tutte le altre guerre, anche quelle fatte da volontari, anche dall'epopea garibaldina, è stato quello di essere più che un movimento militare, un movimento civile. Non bisogna dimenticarsi che le formazioni partigiane non erano che uno degli organi di un movimento rivoluzionario più vasto che faceva capo ai Comitati di Liberazione".

"Lo spirito di sacrificio che animò gli eroismi della Resistenza può essere considerato come un fattore continuativo di rinnova­mento politico e sociale. Già nel periodo della Resistenza questo spirito di sacrificio si dimo­strò capace di animare e di nobilitare gli atti più umili della vita quotidiana, dando ad essi (o per meglio dire scoprendo in essi) un senso di solidarietà sociale, un senso di partecipazione alla vita collettiva: ed è proprio per questa esperienza che la Resistenza, nata in guerra come abnegazione eroica di fronte alla morte, può diventare in pace, il senso del dovere politico, il senso della politica intesa come dovere di sacrificarsi al bene comune, che il fondamento morale senza il quale non può vivere una democrazia."

"Questa è, secondo me, la grande eredità ideale che la Resistenza, anche quando i suoi eroismi saranno trasfigurati dalla leggenda, avrà lasciato al popolo italiano come viva forza politica del tempo di pace: il senso della demo­crazia; il senso del governo di popolo: del po­polo che vuol governarsi da sé, che vuole assu­mere su di sé la responsabilità di governarsi, che vuoi cacciare via tutti i tiranni, tutti i pa­droni, tutti i privilegiati, tutti i profittatori, e identificare finalmente, in una Repubblica fondata sul lavoro, popolo e Stato."

"Se nel campo morale la Resistenza significò rivendicazione della ugual dignità di tutti gli uomini e rifiuto di tutte le tirannie che tendono a trasformare l'uomo in cosa, nel campo politico la Resistenza significò volontà di creare una società" in seguito al vuoto istituzionale creato dalla mancanza di un potere politico solido.


"Ma la Resistenza ebbe anche questo significato: fu tutto il popolo che rivendicò a se stesso il dovere e la responsabilità di far la sua politica comprendendo che solo con la partecipazione collettiva e solidale alla vita politica un popolo può essere padrone di sé."



Paolo Pezzino:


Memorie divise, "morte della patria", identità collettive.

Riflessioni sul caso italiano


L'espressione "memorie divise" viene utilizzata dagli storici per individuare memorie antipartigiane che si sono formate e consolidate in comunità tragicamente toccate da stragi compiute da truppe tedesche e da collaborazionisti italiani (dalle Fosse Ardeatine a Marzabotto, passando per Civitella Val di Chiana, Guardistallo, S. Anna di Stazzema). E' un lavoro di revisione, intensificatosi in occasione del cinquantesimo anniversario della fine della guerra, che dimostra quanto sia ancora problematica la memoria del nazismo nell'Europa di oggi, sia in Germania sia in paesi come l'Italia, dove l' anniversario di molti dei massacri, ha riaperto la discussione sulla natura e le responsabilità delle stragi di civili per rappresaglia.

Il tema di cui si tratta, perciò, è se sia possibile individuare una dimensione unificante dell'esperienza degli italiani in quei mesi, ed ha una particolare importanza nella valutazione, del significato nazionale della Resistenza, della sua capacità, cioè, di rappresentare, all'indomani della guerra, un elemento di forte unione per la maggior parte degli italiani, in grado di incarnare un ethos collettivo da questi condiviso: per questo si ritorna a parlare di memorie divise.

La società italiana usciva dalla guerra civile più frantumata che mai: 'la coscienza che gli Italiani avevano sino allora avuto di sé e del proprio paese aveva subito una scossa decisiva e il processo così iniziato era destinato ad approfondirsi negli anni successivi".

[Rosario Romeo, Italia mille anni cit., p. 198.]


Le tradizionali fratture fra Nord e Sud e fra città e campagne sembravano nel dopoguerra accentuarsi. La prima era aggravata dal fatto che il Meridione non aveva vissuto l'esperienza collettiva della guerra di liberazione, sperimentando viceversa per circa un anno e mezzo un vuoto istituzionale e morale che non era certo stato riempito dai rissosi partiti politici rappresentati, senza alcuna legittimità se non quella che derivava loro dalla lotta armata condotta nell'altra parte dell'Italia, nei CLN locali. L'esplodere delle tensioni sociali e della vecchia questione agraria, sopita ma non risolta sotto il fascismo, assumeva anzi, in quelle circostanze, un obiettivo carattere di scontro insurrezionale che a fatica i partiti della sinistra riuscivano a ricondurre nell'alveo di un progetto politico unitario.


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