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Mogli delle SS: colpe e responsabilità




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Mogli delle SS: colpe e responsabilità



Da testimonianze raccolte da coloro che hanno studiato e approfondito la condizione della donna nel terzo Reich si è potuto appurare che molte furono le mogli di ufficiali delle SS che vissero nelle zone operative dei mariti,  che esse vennero a conoscenza per esperienza diretta sia del sistema nazista di persecuzione e di sterminio, sia dell'attiva partecipazione ad esso dei propri mariti.

La sociologa Gudrun Schwarz è stata in grado di descrivere la vita di queste "signore delle SS", illustrandone le abitudini quotidiane all'interno un nucleo familiare in cui la moglie aveva il fondamentale compito di supportare emotivamente le fatiche del capofamiglia. Molte di queste donne però non solo erano a conoscenza delle attività dei mariti, ma furono vere e proprie consigliere e complici, oltre che spettatrici: o andavano a trovarli nelle zone operative, oppure si stabilivano negli insediamenti che sorgevano ai margini dei campi di sterminio, dove allestivano ambienti confortevoli, organizzavano ricevimenti e allevavano i figli, sempre servite e riverite da un triste stuolo di schiavi ebrei scheletrici.

L'analisi di questi dati contribuisce a incrinare il mito dell'assoluzione totale della componente femminile tedesca, sostenuta a causa della loro subordinazione ad una società misogina, contrapponendovi il concetto di corresponsabilità nella colpa, di complicità nell'abominio di reati contro l'umanità; infatti di tale sistema esse approfittavano ampiamente: sfruttavano i prigionieri dei campi di concentramento che assumevano come personale di servizio, partecipavano alla corruzione che prosperava nei Lager, derubavano la popolazione ebraica nei territori occupati, vivevano nelle case espropriategli e si impossessavano degli oggetti, degli arredamenti e del vestiario degli ex proprietari ebrei.


(donne SS al campo di Belsen)


Se ci chiediamo come abbiano potuto "uomini comuni" essere al tempo stesso assassini e benevoli padri di famiglia, dobbiamo prima cercare di capire come sia stato possibile per le loro donne condurre una tranquilla vita familiare accanto a massacratori, partecipando ai loro crimini. Nelle zone operative le mogli delle SS agivano in modo corrispondente alla rappresentazione della Comunità di stirpe intesa come "comunità di uomini e donne congiurati": il loro dovere era la dedizione totale all'ordine e all'eseguire gli ordini, come testimonia Rudolf Hoss, ufficiale delle SS e comandante di Auschwitz.

Altro compito affidato a queste donne consisteva nel conferire l'apparenza di una comune attività professionale ai crimini commessi dai propri mariti: dovevano alleviare il loro coinvolgimento emotivo e psicologico rendendogli così possibile il compimento di tali atrocità, facendolo passare per qualcosa di abituale e quotidiano; inoltre avevano anche il dovere di stabilire e mantenere la loro presenza nella società attraverso attività comuni nel tempo libero, inviti a pranzo e partecipazioni a iniziative culturali da loro organizzate.

Testimonianza della loro corruzione è quella di Jerzy Rawicz, che lavorò come prigioniero nel reparto conceria di Auschwitz; egli riferì che secondo il volere dei capi delle SS venivano eseguiti quotidianamente "lavori in nero", cioè prodotti destinati all'utilità personale: poltrone rivestite di pelle e lampadari a corona, borse per documenti e borsette per signora, valige, scarpe, mobili, i più diversi oggetti in pelle e metallo, giocattoli per bambini e tappeti. Questi oggetti erano indirizzati alle famiglie delle SS e molte furono fabbricate su esplicita richiesta delle mogli.

Altri prigionieri lavoravano nel "comando sartoria" istituito appositamente per le richieste private: qui ventitré prigioniere erano occupate a cucire esclusivamente per le mogli dei capi delle SS e per le sorveglianti.

Ad Auschwitz c'era un magazzino degli effetti personali, in cui venivano raccolti gli effetti personali dei deportati. Questo materiale era inviato come proprietà della stato in Germania affinché fosse venduto o distribuito alle vittime dei bombardamenti. I prigionieri Polacchi chiamavano quel settore del Lager "Canada", una denominazione usata subito da tutti: in Polonia infatti il Canada aveva la fama di essere un paese straordinariamente ricco e in quel deposito si poteva trovare davvero di tutto; è quindi evidente che i materiali forniti ai prigionieri per la lavorazione erano prelevati da lì. Sebbene ciò infrangesse il loro codice d'onore, la maggior parte dei membri delle SS, malgrado le minacce di punizioni, non mostrarono scrupoli a infrangere il divieto e a procurarsi o a farsi procurare ciò di cui avevano sempre bisogno, infatti non c'era quasi nessun membro delle SS che non si fosse arricchito con il denaro, la valuta estera, gli oggetti di valore, la biancheria, gli abiti etc. che erano state prese dagli ebrei condotti ad Auschwitz per essere sterminati. Ogni opportunità di impadronirsi di tali cose veniva sfruttata soprattutto per soddisfare i capricci delle mogli annoiate da una vita agiata ma monotona al campo di concentramento.


Marianne Boger, che dalla primavera del 1943 visse nell'insediamento delle SS di Auschwitz in un villino unifamiliare con tre camere, cucina e bagno, era una donna di casa. L'ex prigioniero Hermann Langbein raccontò che <<la signora Boger si faceva rifornire da suo marito con degli utensili del Lager e che una delle sue particolari richieste ebbe come conseguenza la morte di un prigioniero.[.] Un'altra volta Boger aveva bisogno di un paiolo da 15 litri per far bollire la biancheria. L'ordinò a Tadeusz Jakubowski, che lavorava nel magazzino. Questi non aveva alcuna possibilità di soddisfare la richiesta di Boger. Conseguenza: per un affare di contrabbando l'uomo fu arrestato e torturato nella sezione politica a tal punto che morì. Boger poi formulò la stessa richiesta alla scritturale del magazzino Stanislaw Pawliczek (il quale procurò il paiolo). La signora Boger ricevette il paiolo e Pawiczek fu lasciato in pace.>> [1]




Gudrun Schwarz, Una donna al suo fianco, Il Saggiatore, Firenze 2000, p. 104

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