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La crisi dello stato liberale e la nascita del fascismo




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Napoleone Bonaparte (Ajaccio, 15 agosto 1769 - Isola di Sant'Elena, 5 maggio 1821)
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LA CRISI DELLO STATO LIBERALE E LA NASCITA DEL FASCISMO


L' Italia, uscita dalla guerra indebolita sul piano economico e politico, visse momenti di acuta tensione sociale. La situazione interna del paese sembrò assumere connotazioni rivoluzionarie in tre momenti, che crebbero il timore di una rivoluzione socialista e contribuirono a minare le basi dello Stato liberale: la rivolta contro il carovita e la lotta nelle campagne del giugno 1919, l'ammutinamento militare di Ancona del giugno 1920, e, soprattutto, l'occupazione delle fabbriche del settembre 1920. La rivolta contro il carovita fu dettata dall'aumento dei prezzi e si propagò in tutto il paese senza incontrare alcuna resistenza da parte del governo, presieduto da Francesco Saverio Nitti. Mancò tuttavia un coordinamento politico al moto popolare, che si manifestò con saccheggi ai negozi di generi alimentari, e quando scoppiò nel Meridione la rivolta contadina, con l'occupazione delle terre, i due movimenti rimasero separati. L'ammutinamento di Ancona si verificò durante la campagna socialista contro l' intervento in Albania,su cui l'Italia aveva mire espansionistiche. I bersaglieri si rifiutarono di partire e, appoggiati dagli operai che erano scesi in sciopero, tennero in mano la città per due giorni. Anche in questo caso non si ebbe raccordo tra la componente operaia e quella militare, pertanto la rivolta rimase isolata. L'occupazione delle fabbriche rappresentò il momento culminante delle agitazioni operaie e l'inizio dello scontro aperto tra la classe operaia e borghesia imprenditoriale .Gli operai metallurgici del nord richiesero il rinnovo del contratto di lavoro per la giornata lavorativa di otto ore e per adeguare il salario del costo della vita. Gli industriali rifiutarono gli aumenti per gli alti costi della riconversione produttiva, in particolare dell'industria pesante, che si era molto sviluppata nel periodo di guerra. Il sindacato proclamò l'agitazione di categoria, rallentando la produzione; gli imprenditori reagirono con la serrata, la chiusura degli stabilimenti, a cui gli operai riposero con l'occupazione. Il movimento da Milano si estese a Torino dove era forte la componente socialista, organizzata da Antonio Gramsci intorno al giornale L'ordine Nuovo , con una linea rivoluzionaria che vedeva nei consigli di fabbrica, eletti su modello dei soviet, lo strumento per conseguire l'egemonia operaia sulla società. L' intervento di Giolitti (presidente del Consiglio dal giugno 1920 a luglio 1921) fu risolutivo, svolse una funzione mediatrice e fece prevalere le componenti moderate tra le due forze sociali, che giunsero ad un accordo. La linea politica della sinistra del partito socialista aveva fallito. In particolare la componente torinese, facente capo a Gramsci, e quella napoletana, guidata da Bordiga, entrarono in aperto contrasto con il partito, accusandolo di scarsa chiarezza politica a di mancata organizzazione rivoluzionaria. Nel Congresso di Livorno (1921) la scissione delle due componenti dal Psi permise la nascita del Partito comunista d'Italia sotto la guida di Gramsci Bordiga e Togliatti, che aderì alla Terza Internazionale su basi rivoluzionarie.


La " vittoria mutilata" e l'irredentismo nazionalista

A minare lo Stato liberale ottocentesco, su posizioni opposte al movimento operaio e contadino, si muoveva l' irredentismo nazionalista, reso più agguerrito dopo il deludente ruolo italiano nei trattati di pace.

L'irredentismo era la risposta alle aspettative mancate delle classi medie e degli ex combattenti, ed era fomentato da un'ideologia imperialista sostenuta dai settori più conservatori del capitalismo italiano. Punti di forza del movimento furono il mito della " vittoria mutilata" e la volontà di espandersi sull'Adriatico. I del trentino, accontentavano gli interventisti democratici, che vedevano completato il programma unitario risorgimentale mentre lasciavano scontenti i nazionalisti con aspirazioni imperialistiche. Il ritorno dal fronte dei combattenti aggravò la situazione sociale ed economica per le rivendicazioni che ne seguirono, prima fra tutte la riforma agraria. Le posizioni oscillanti del governo circa la questione de Fiume avevano lasciato insoddisfatti i nazionalisti, che richiedevano uno stato forte all'interno e di prestigio all'estero. Il patto di Londra doveva essere rispettato: la Dalmazia e l'Istria con la città di Fiume dovevano essere annessi all'Italia, prescindendo dal criterio di nazionalità. Con un intervento diretto i gruppi nazionalisti ritennero di risolvere la questione. Il 12 settembre 1919 Gabriele D'Annunzio occupò Fiume con un corpo di volontari ex militari. Instaurò un governo provvisorio, la "Reggenza del Carnaro" e proclamò l'annessione della città all'Italia. Di fronte all'iniziativa il governo Nitti si mostrò debole, temporeggiò, incapace di prendere una posizione decisa. Alle elezioni del 1919, le prime dopo la fine della guerra, in cui fu adottato per la prima volta il sistema elettorale proporzionale, i liberali subirono un forte calo, a vantaggio dei socialisti e dei cattolici. Nitti si dimise e fu sostituito da Giolitti (giugno 1920). Il nuovo governo risolse la questione Fiume con l'accordo della Conferenza di Rapallo (novembre 1920) in cui l'Italia rinunciava alla Dalmazia e Fiume veniva riconosciuta città Libera.


La risposta dei partiti politici e il fascismo

In questo contesto socio-politico i partiti, presi dai problemi interni, non furono in grado di indirizzare le forze sociali. Il partito liberale perdeva peso politico e in quello socialista prevaleva la componente massimalista, che rifiutava la collaborazione con lo stato borghese. Il suffragio universale aveva accelerato la formazione del partito di massa che metteva in crisi la forma elitaria dello stato ottocentesco.

Di fronte al timore di una rivoluzione "rossa" il papa Benedetto XV abbandonò il "Non Expedit" e permise la fondazione del Partito popolare (1919)per iniziativa di don Luigi Sturzo, il partito si fondava sui valori cristiani, sosteneva il rispetto delle libertà civili e politiche dei cittadini e la formazione di uno Stato laico, indipendente dalla Chiesa. Il programma, oltre all'estensione del diritto di voto alle donne, tra i punti più qualificanti prevedeva la riforma agraria e una gestione sociale della produzione anche se riservava poco spazio al problema operaio. La nascita di un partito cattolico contribuì ad aumentare le preoccupazioni dei conservatori e, d'altra parte, anche le stesse gerarchie vaticane non lo sostennero in modo convincente.

Il 23 marzo 1919 a Milano, in piazza San sepolcro, veniva fondato, ad opera dell'ex socialista BENITO MUSSOLINI, un nuovo movimento, quello dei "fasci di combattimento", che si trasformò in Partito nazionale fascista nel novembre 1921. Il programma dei fasci, improntato su idee antiborghesi, antisocialiste e nazionalistiche, prevedeva in politica estera la lotta all'imperialismo e l'adesione alla Società delle Nazioni. In politica interna, tra i vari punti, proponeva l'istituzione della repubblica e il suffragio universale esteso anche alle donne e l'abolizione del Senato di nomina regia. Il nuovo Stato doveva garantire la libertà di pensiero, di stampa e di associazione e promuovere riforme economiche e sociali, dal censimento delle ricchezze, compresi i titoli di stato, fini alla distribuzione delle terre ai contadini e alla partecipazione dei lavoratori agli utili delle aziende. Il programma di S. Sepolcro raccoglieva le diverse e contrastanti richieste dei ceti medio-bassi e i Fasci si presentavano come un movimento politico aperto ad istanze eterogenee. Le elezioni del 1919 evidenziarono il mutamento nei rapporti di forza che preoccupò i proprietari fondiari dell'Italia centro- settentrionale. Nel II Congresso dei Fasci (maggio 1920) Mussolini abbandonò il programma del 1919 e accentuò i caratteri antisocialisti del movimento, in conformità alle esigenze degli agrari, con manifestazioni di violenza, che presero avvio il 21 novembre 1920 a Bologna con la sparatoria di palazzo d'Accursio , sede del comune .

Dal quel momento le squadre d'azione imperversarono nella Bassa padana con le spedizioni punitive, finanziate dagli agrari e appoggiate anche dagli apparati dello Stato, contro le organizzazioni sindacali, le associazioni socialiste e cattoliche. La classe politica liberale, rappresentante dalla grande borghesia monopolistica che aveva visto crescere il suo potere durante la guerra, ritenne di poter gestire in modo strumentale la forza fascista contro il movimento operaio in vista di una reazione autoritaria per il ritorno all'ordine, e non riuscì a cogliere nel fascismo i segni di una struttura alternativa allo Stato liberale. Elemento decisivo per in mutamento della situazione politica furono le elezioni del maggio 1921. I risultati affermarono l'ascesa del fascismo in parlamento con 35 deputati, tra cui lo stesso Mussolini, eletti nelle file dei "blocchi nazionali", proposti da Giolitti con il fine di costituire l'unità delle forza democratiche e liberali contro i partiti di massa. La preferenza fascista condizionò la vittoria liberale e determinò la caduta del governo Giolitti, che aveva ottenuto in parlamento una maggioranza limitata.

L'ultima fase dello Stato liberale si aprì con il governo Bonomi in carica per pochi mesi, eletto nel tentativo di raccogliere i consensi in parlamento tra i popolari e i socialisti interventisti. Gli successero i due governi Facta (1922) incapaci di dare una guida solida al paese in un momento particolarmente difficile.


Il fascismo al potere: La marcia su Roma

La natura del movimento fascista si manifestò nella violenza dello squadrismo che, tollerato dalle autorità governative, agiva impunemente e si sostituiva allo Stato nella repressione antioperaia e antisocialista con intimidazioni e uccisioni. L'ascesa del movimento fu facilitata dal rifiuto dei socialisti di collaborare con il governo e da una nuova scissione interna al partito, da cui nacque il Partito socialista unitario di Giacomo Matteotti (4 ottobre 1922).

In una situazione di scontro aperto, Mussolini, con i capi del partito (il quadrunvirato Balbo, De Vecchi, De Bono, Bianchi), decise un'azione di forza ordinando agli squadristi la marcia su Roma (28 ottobre 1922). Alla presa del potere fascista non fu opposta alcuna resistenza: il re Vittorio Emanuele III aveva rifiutato di firmare lo stato d'assedio proposto da Facta. Il 29 ottobre Mussolini , capo di un partito di minoranza, riceveva l'incarico di formare un nuovo governo di coalizione, con ampio consenso parlamentare. Ad eccezione dei comunisti, tutti i deputati erano convinti che il fascismo sarebbe rientrato nella legalità.

Il fascismo conquista il potere

Tra il 1922 e il 1925 Mussolini diede avvio alla fascistizzazione dello Stato, con il rafforzamento dell'esecutivo e la persecuzione dell'opposizione fino all'instaurazione del partito unico. Nel dicembre 1922 era stato istituito il Gran consiglio del fascismo, un organo collegiale del partito con funzioni direttive sul governo. Seguì l'istituzionalizzazione dello squadrismo con la formazione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, un corpo paramilitare di partito. La politica economica fu caratterizzata da una linea liberista, tra i vari provvedimenti, con l'abolizione delle leggi giolittiane su titoli di Stato e con l'esonero delle tasse sui capitali esteri per agevolare gli investimenti, favorendo la collaborazione tra grande borghesia industriale e agraria. Per ottenere una maggioranza parlamentare assoluta, Mussolini indisse nuove elezioni dopo aver fatto votare la legge Acerbo (1923), che eliminava il sistema proporzionale e stabiliva per la lista di maggioranza relativa, i due terzi dei seggi. Le elezioni del 1924 furono vinte, con brogli e azioni intimidatorie degli squadristi, dal "listone" fascista, a cui avevano aderito anche i liberali ad eccezione di Giolitti. Il deputato socialista Matteotti, che in un intervento alla Camere aveva denunciato, le illegalità elettorali, fu rapito e assassinato dai fascisti. L'assassinio di Matteotti(10 giugno 1924) provocò in tutto il paese un'ondata di protesta spontanea, che mancò di un'adeguata direzione politica. La coalizione di governo si sciolse e l'opposizione abbandonò il parlamento, attuando la secessione, detta dell'Aventino, mentre il re mantenne in carica Mussolini. Questi, con il discorso alla Camera del 3 gennaio 1925, si assunse la responsabilità dell'assassinio e diede inizio alla costituzione del regime fascista. Dal 1925 iniziarono ad essere varate le leggi "fascistissime", che abolivano di fatto la costituzione liberale, per cui furono sciolti tutti i partiti politici e soppressa la libertà di parola, mentre la stampa veniva censurata e in seguito (1937) sottoposta al ministero della Cultura popolare. Il 24 dicembre 1925 il capo del governo assumeva poteri straordinari tra cui la nomina dei ministri. Nelle amministrazioni comunali i sindaci furono sostituiti dai podestà di nomina governativa; fu restaurata la pena di morte e istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato (1926), che sottrasse alla magistratura ordinaria i giudici per reati politici, affiancato da una polizia politica (ovra) per la vigilanza e la repressione dell'antifascismo. I codici furono rivisti, secondo l'ottica del regime, da Alfredo Rocco che elaborò il nuovo codice(1926), in cui si sanciva la preminenza dello Stato sui cittadini. Con questi mezzi l'opposizione antifascista fu perseguitata: uomini politici come Sturzo, Turati Pertini furono costretti a vivere in esilio, al confino o in carcere, altri che morirono per le percosse subite dagli squadristi.

LO STATO TOTALITARIO

Intorno al 1925 iniziò una fase di recessione economica, che portò Mussolini ad abbandonare il liberismo per dare avvio ad una fase dirigista, in cui affermò lo Stato come gestore diretto dell'economia

(Stato imprenditore).

Per contenere la forte svalutazione della lira erano necessari interventi immediati che stabilizzassero la moneta. Mussolini precedette alla rivalutazione, fissando il cambio a "quota 90"lire per una sterlina (1927). Ebbe inizio la trasformazione del modello economico e politico, con l'accentuazione del protezionismo a favore dell'industria pesante e la progressiva applicazione dell'autarchia, in particolare dopo l'impresa d'Etiopa. Per arginare la flessione delle esportazioni, lo Stato fascista divenne il principale acquirente e finanziatore dei prodotti industriali. La manovra economica, che favoriva la grande borghesia capitalistica, rendeva necessaria la riduzione dei salari operai e l'adozione di misure autoritarie per l'eliminazione del diritto di sciopero e di ogni forma di sindacato libero (1926). La carta del lavoro del 1927 sanciva la collaborazione tra lavoratori e imprenditori nelle corporazioni, che sostituirono i sindacati. I princìpi del corporativismo imposero la subordinazione degli interessi di classe a quelli "superiori" della nazione. Il consolidamento del regime, ormai forte del consenso della borghesia, richiedeva il sostegno delle gerarchie cattoliche e, con il favore dell'alto clero, Mussolini avviò trattative con il vaticano, che portarono ai Patti lateranensi (11 febbraio 1929), sottoscritti da Mussolini e dai cardinal Gasparri, a nome di Pio XI. I patti constavano di un Trattato, una Convenzione  finanziaria e un Concordato.

Con il Trattato il papa riconosceva il Regno d'Italia con Roma capitale e l'Italia riconosceva la piena sovranità del papa sul nuovo Stato della Chiesa (Città del Vaticano). La Convenzione impegnava lo Stato italiano a versare un indennizzo alla Santa Sede per l'occupazione del 1870. il Concordato che legittimava lo Stato fascista presso le masse cattoliche, garantiva alla Chiesa le libertà di culto sul territorio nazionale, introduceva l'insegnamento nelle scuole della religione cattolica come religione di Stato e riconosceva la validità civile del matrimonio religioso. Nelle elezioni del 1929, indette su un'unica lista, il regime ebbe un consenso plebiscitario. Fecero parte del governo solo uomini di provata fede fascista e l'accesso agli impieghi pubblici fu consentito solo ai tesserati del partito. Più incisiva divenne la propaganda del regime, anche attraverso la scuola, riformata nel 1923 dal filosofo Gentile. Gentile fu anche il relatore del "Manifesto degli intellettuali fascisti" a cui rispose, con il "Manifesto degli intellettuali antifascisti" (1925), Benedetto Croce, il filosofo che con le sue opere costituì il riferimento culturale della resistenza al fascismo. Il regime s'impegnò a fondo nell'attività di propaganda e di educazione delle masse,utilizzando i mezzi tecnici più nuovi, come la radio e il cinema e istituì, nel 1937, il ministero della Cultura popolare. Dopo la crisi economica del 1929 si manifestò l'intervento dello Stato sull'economia. Il regime, con la creazione all'Istituto mobiliare italiano, concesse crediti agevolati alle industrie in difficoltà finanziare e, con l'Istituto per la ricostruzione industriale, lo Stato acquistò parte del pacchetto azionario di industrie e banche in difficoltà. Per frenare la disoccupazione fu portato a termine un vasto programma di lavori pubblici che migliorò la rete stradale e ferroviaria, si intensificò lo sviluppo dell'agricoltura con le bonifiche (paludi pontine 1931-19349 e, nell'intento di assicurare al paese il fabbisogno di grano, fu avviata fin dal 1925 la "battaglia del grano", che ridusse sensibilmente le importazioni dall'estero. Nacque l'aviazione civile, fu potenziata la marina mercantile e fin dal 1926, per incoraggiare la ricerca petrolifera, fu istituita l'Azienda generale italiana petroli (AGIP). In questo quadro politico ed economico fu lanciata una politica demografica attraverso una serie di provvedimenti, come l'imposta sul celibato, le facilitazioni fiscali per le famiglie numerose, e la fondazione dell'Opera Nazionale per la maternità e l'infanzia, che tutelava l'assistenza delle madri e dei bambini. Inoltre fu approvata tra il 1933-1934 una legislazione sociale che portava a otto le ore lavorative nell'industria, tutelava il lavoro minorile e introduceva le assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro, le malattie e la vecchiaia.


LA POLITOCA ESTERA DEL FASCISMO

La politica estera, durante gli anni Venti, seguì la linea della prudenza per mostrare il fascismo come fattore di stabilità politica e quindi conquistare la fiducia delle grandi potenze straniere. Mussolini intavolò buoni rapporti con l'Inghilterra, mentre più difficili furono quelli con la Francia, che ostacolava la politica espansionistica italiana sui Balcani. Ottenne una modestia revisione dei trattati di pace con la rettifica dei confini coloniali in Somalia e in Libia, mentre fu raggiunto un nuovo accordo con li Jugoslavia, che portò l'annessione di Fiume.

Negli anni Trenta lo politica estera subì una svolta con il rilancio dell'espansionismo in Africa. La difficile situazione economica sembrava trovare una soluzione nella conquista coloniale, che avrebbe dato slancio all'industria con la commesse militari e ravvivato il nazionalismo. Nel 1934 Mussolini considerò la situazione europea favorevole alla conquista dell'Etiopa, dove il nuovo imperatore Selassiè stava avviando il rafforzamento militare dello Stato, ma l'opposizione inglese ritardava l'impresa. Pertanto nel 1935 Mussolini, per accrescere il consenso interno, scatenò una violenta propaganda britannica e l'esercito italiano iniziò l'invasione dell' Etiopa (ottobre 1935).

La Società delle Nazioni dichiarò l'Italia Stato aggressore e deliberò l'applicazioni di sanzioni economiche. La guerra, presentata come un'impresa civilizzatrice, vide l'impiego dell'aviazione con attacchi indiscriminati sulla popolazione civile e l'uso di gas asfissianti. L'impresa si concluse con l'occupazione di Addis Abeba e la proclamazione dell'Impero dell'Africa Orientale italiana (1936),che comprendeva l'Etiopa, l'Eritrea e la Somalia. In seguito alla conquista coloniale, l'Italia abbandonò la Società della Nazioni e si avvicinò alla Germania nazista. L'alleanza con Hitler (Asse Roma-Berlino 1936) accentuò la spinta imperialistica della politica italiana e causò la rottura dei rapporti con l'Inghilterra. L'intervento in Spagna a favore del generale Franco rafforzò ulteriormente i legami tra i due regimi, che strinsero anche il Patto antikomintern con il Giappone. I legami sempre più stretti con la Germania, in una situazione di isolamento internazionale, portarono all'adozione anche in Italia delle misure più odiose del nazismo, come le leggi razziali (1938), con le quali iniziava la campagna antisemita. Dopo l'occupazione dell'Albania (1936), cui fece seguito il Patto d'acciaio che stabiliva l'alleanza militare tra l'Italia e la Germania.



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