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Il completamento dell'unificazione italiana e i primi passi del nuovo stato




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Il completamento dell'unificazione italiana e   i primi passi del nuovo stato



La proclamazione del regno d'Italia e la morte di Cavour


La politica delle annessioni, mediante plebiscito, delle regioni, che entravano a far parte del regno d'Italia[1], aveva fatto sì che non si discutesse seriamente in Parlamento sulla fisionomia che avrebbe dovuto assumere il nuovo stato. Il presupposto della politica delle annessioni era che il nuovo stato si sarebbe dovuto modellare su quello sabaudo, sui suoi istituti e sulle sue leggi. Il nuovo parlamento era costituito dai rappresentanti di tutte le regioni annesse, eletti mediante suffragio molto ristretto e scelti mediante il censo. Il primo atto di questo parlamento fu la proclamazione di Vittorio Emanuele II a re d'Italia, nel marzo del 1861.

Il regno d'Italia nasceva come una sorta d'ingrandimento del regno di Sardegna: questo era stato il disegno di Cavour, che aveva fatto in modo che l'unificazione avvenisse senza turbare gli interessi dei ceti borghesi liberal-moderati. La moderazione cavuoriana risulta evidente anche nel modo in cui affrontò la spinosa questione romana.

Cavour sapeva bene che la questione romana non era risolvibile "con la spada": era una questione soprattutto morale, da risolvere per via diplomatica, consapevole che ciò sarebbe stato apprezzato anche da Napoleone III, sovrano di Francia.

Secondo Cavour, il papa doveva spontaneamente rinunciare al potere temporale, ottenendo la rinuncia da parte dello Stato ad ogni controllo sulla Chiesa e sulla vita religiosa. Egli era convinto che gli stesi cattolici più liberali ed aperti avrebbero condiviso la sua impostazione della questione romana.

Il principio, che, in conclusione, ispirò Cavour, fu "libera Chiesa in libero Stato".

Tuttavia Cavour trascurava due importanti elementi:


1)Il papato non era disposto ad affidare la propria indipendenza alle leggi mutevoli di uno stato

2)I pontefici, a più riprese, avevano condannato i regimi liberali: Pio IX ribadì tale condanna nei riguardi dell'Italia nel marzo del 1861.


Cavour si rendeva conto però che l'unità d'Italia, senza Roma,  non poteva dirsi completa; fece così proclamare simbolicamente dal Parlamento Roma capitale d'Italia il 27 marzo 1861.

Il 6 giugno 1861 Cavour morì improvvisamente. Lasciò una specie di testamento spirituale alla nipote Giuseppina, in cui toccava i principali problemi che l'Italia avrebbe dovuto risolvere:


la questione napoletana, cioè il problema dell'Italia meridionale, collegato al precedente malgoverno borbonico, e risolvibile con una buona amministrazione

la questione romana, da risolvere mediante la separazione tra stato e chiesa

la questione veneta, che stava molto a cuore anche ai garibaldini



I primi governi della Destra storica


Il nuovo regno, etto da un sistema monarchico-costituzionale, aveva davanti a sé non pochi problemi da risolvere. La società italiana era rimasta più o meno la stessa del periodo pre-unitario: non aveva avuto il tempo di mutare e di adeguarsi alla nuova realtà politica.

Lo aveva intuito Massimo D'Azeglio, che affermò che fatta l'Italia occorreva fare gli Italiani.

La linea di continuità con la politica piemontese fu garantita da due fattori:


l'allargamento delle istituzioni dello stato sabaudo al resto d'Italia

la limitatezza della classe politica

Prevalse così la "piemontesizzazione" dell'Italia.

Lo stesso Vittorio Emanuele II volle continuare a chiamarsi così, e non "I re d'Italia". Lo statuto albertino fu esteso senza modifiche come legge fondamentale del nuovo regno.

Dopo la morte di Cavour, furono accantonati i progetti di decentramento amministrativo: si creò così un forte stato accentrato, nel quale la massima autorità locale era costituita dal prefetto.

Gli alti gradi della burocrazia e dell'esercito restarono in mano ai piemontesi, che venivano inviati verso regioni lontane, verso le quali alle volte nutrivano un senso di superiorità.

Lo stesso parlamento non si mostrò all'altezza del nuovo compito: il suo allargamento ai rappresentanti delle altre regioni  favorì la formazione di gruppi regionali, che riversavano sul parlamento i problemi locali.

Inoltre, l'elezione del parlamento era riservata solo al 2% della popolazione: mentre i plebisciti, che avevano sancito la nascita del nuovo stato si erano svolti a suffragio universale, la rappresentanza politica era riservata solo a pochi cittadini privilegiati.

I primi quindici anni di governo furono affidati a quegli uomini che avevano fiancheggiato Cavour e che ora costituiscono la Destra storica. Essi non erano un vero e proprio partito; divisi da motivi regionali e talora personali, essi costituiscono una classe di governo di primo ordine per quanto riguarda la competenza amministrativa e la devozione allo stato. [2]

Essi, che tendevano a continuare l'opera di Cavour, difendevano in generale gli interessi della ricca borghesia e dell'aristocrazia agricola e delle professioni liberali.

In politica estera, fu loro preoccupazione rassicurare l'Europa: l'Italia sarebbe stato un elemento di stabilità, pur senza rinunciare a Roma e a Venezia.

Nei riguardi della Chiesa, sostennero in linea con Cavour il separatismo.

In politica interna, furono avversi a qualsiasi forza disgregatrice o centrifuga. Furono ostili anche ai Mazziniani e ai Garibaldini, che volevano risolvere con le armi la questione di Roma e di Venezia.

In parlamento, in posizione antagonista alla destra storica, si sedette la Sinistra, analoga alla destra per l'estrazione sociale dei suoi membri.

La sinistra differiva dalla destra: per un diverso modo di concepire l'unità, per un'ansia di maggiore iniziativa nella questione di Roma e di Venezia, per un'aspirazione a maggiori riforme democratiche (allargamento del suffragio, decentramento amministrativo), per un più accanito anticlericalismo.[3]

La destra storica[4], timorosa dell'attacco dell'Austria o di forze reazionarie o rivoluzionarie interne, mirò al rafforzamento dell'apparato burocratico e dell'esercito.

Essa fu appoggiata dagli esponenti dei ceti imprenditoriali nelle regioni, dove si stava compiendo una rivoluzione capitalistica; mentre fu appoggiata dai grandi latifondisti nelle regioni del sud, quelle più arretrate.

Il primo gravissimo problema che la destra storica dovette affrontare fu quello del brigantaggio.

Il brigantaggio cominciò ad esplodere in molte zone dell'Italia meridionale e della Sicilia nel 1861 e durò fino al 1865. Fu il prodotto di molti fattori intrecciati: l'esistenza di bande armate rimaste fedeli ai Borboni; l'avversione del clero al nuovo stato liberale; la presenza di bande di delinquenti, già prima dell'unità. Ciò che permise comunque al brigantaggio di sopravvivere fu la perenne rivolta dei contadini contro lo stato[5]: il nuovo stato venne visto come un'imposizione dall'alto.

A loro volta gli uomini della destra videro nel sud solo corruzione e camorra, senza comprendere la gravità sociale del problema del Meridione, condannato ad una secolare miseria da un secolare malgoverno.

Per combattere il brigantaggio, la destra trovò l'appoggio dei ceti sociali meridionali più conservatori, e fece ricorso ad una burocrazia autoritaria e all'esercito.

La destra combatté il brigantaggio senza individuare le cause di fondo.

La legge Pica (15 agosto 1863) stabilì la legge marziale su tutti i territori infestati dal brigantaggio. Ma derivò un massacro: tra il 1860 e il 1865 i briganti uccisi furono oltre 5000.

Nel 1865 la guerra contro i briganti fu vinta, ma il problema del meridione perdurava.

Dopo l'unificazione crebbero infatti le differenze tra nord e sud. I liberali pensavano che bastava inserire il Mezzogiorno nel mercato nazionale, abbattendo le barriere doganali, attuando la costruzione di ferrovie e di strade, unificando i carichi fiscali: ma si sbagliavano.

Gli scarsi nuclei industriali caddero sotto la concorrenza dei più forti industrie settentrionali; i prodotti agricoli del sud diminuirono di prezzo a vantaggio delle regioni più progredite; un pesante fiscalismo, che colpiva soprattutto l'agricoltura si abbatté sulla popolazione che finora era stato la meno tassata d'Italia.

Ma era inevitabile per il nuovo stato l'aggravamento delle tasse, sia perché aveva ereditato l'enorme debito pubblico degli stati preunitari, sia per le ingenti spese di guerra, sia per le enormi spese per la costruzione di opere pubbliche, come le ferrovie.

Lo sviluppo di queste ultime andò a vantaggio del settentrione, verso cui confluirono anche i mezzi finanziari raccolti dall'agricoltura dl meridione.

I primi governi di destra dovettero pure fronteggiare le pressioni del partito d'azione per la liberazione di Roma e Venezia.

Ricasoli appoggiò le correnti del cosiddetto clero nazionale, tendenti ad una riforma del clero e contrarie al potere temporale del papa.

Rattazzi fu simpatizzante dei garibaldini. Dopo essere stato costretto a sciogliere con la forza a Sarnico (1862) un concentramento di garibaldini pronto ad operare nel Veneto, fece intervenire le truppe regolari contro i garibaldini in Aspromonte (1862): il conflitto si concluse con il ferimento e la cattura di Garibaldi. Si giunse quindi alla Convenzione di Settembre (15 settembre 1864): Napoleone III accettava di ritirare le guarnigioni francesi in difesa di Roma, mentre l'Italia garantiva l'integrità di Roma. L'accordo risultava garantito da una clausola segreta che prevedeva il trasferimento della capitale da Torino a Firenze. Tale clausola fu interpretata da Napoleone come rinuncia a Roma come capitale, e dal governo italiano come avvicinamento all'agognata meta.

Quando la clausola fu resa nota, Torino si sentì tradita e declassata ed insorse in una vera rivolta, duramente repressa dalle truppe. Con rapidità ed efficienza la capitale fu trasferita a Firenze.

Tale trasferimento da molti fu visto come la fine del predominio piemontese.

Nel 1865, sotto il governo Lamarmora,vengono approvati i nuovi codici di legge e il nuovo ordinamento amministrativo.

Ma anche queste nuove leggi riflettono il carattere oligarchico dello stato, la preoccupazione di difendere i ceti proprietari, la delimitazione del diritto di voto ai ceti benestanti o comunque collegati al governo.




Erano state annesse, tramite plebiscito, l'Emilia, la Toscana, l'Italia meridionale, la Sicilia, le Marche e l'Umbria; mentre la Lombardia era stata acquisita dal Piemonte mediante l'armistizio di Villafranca, con cui si conclude la II guerra d'indipendenza.

Facevano parte della destra storica: i piemontesi Sella, Lanza, Rattazzi; i lombardi Jacini e Visconti Venosta; gli emiliani Minghetti e Farini; i toscani Peruzzi e Ricasoli; i meridionali Spaventa e Massari.

Uomini della Sinistra erano avversari di Cavour; erano molti garibaldini e mazziniani.

I governi della destra storica che seguirono la morte di Cavour furono: governo Ricasoli (1861-1862); il governo Rattizzi (1862); il governo Farini-Minghetti (1862-1864); governo Lamarmora (1864-1866).

I contadini distinguevano il nuovo stato dal precedente solo perché imponeva il servizio di leva e maggiori tasse.

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