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Relativismo dell'umana condizione. La piccolezza dell'uomo a confronto dell'immensità della natura




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Relativismo dell'umana condizione. La piccolezza dell'uomo a confronto dell'immensità della natura


G. Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto




La composizione poetica del 1836 chiude praticamente la produzione poetica leopardiana e consente di avere una nuova visione della sua personalità matura, alle soglie della morte, avvenuta l'anno dopo.

La riflessione sulla sua identità di uomo questa volta avviene attraverso un'oggettivizzazione ( un correlativo oggettivo direbbe Montale ): la ginestra, fiore fragile e luminoso preda della furia devastatrice del Vesuvio, il vulcano sterminatore, simbolo della crudele, cieca ed onnipotente violenza della natura.

L'identità, la condizione umana è inserita tra queste due condizioni: la bellezza e la fragilità tenace di un fiore, che continua a rinascere sulla lava del vulcano che lo ha annientato, l'infinita esiguità dell'essere umano, che si erge dignitosamente di fronte all'immensa potenza della natura, privo di illusioni ma anche positivamente orientato alla solidarietà verso i suoi simili.


Estrema fragilità dell'uomo da una parte e coraggio di vivere e di rinascere nel suo sforzo interrogante dall'altra: questi i messaggi conclusivi di Leopardi





La ginestra





G. Leopardi





Toma, L'eruzione del Vesuvio




Nella Ginestra c'è anche un'altra immagine suggestiva che richiama il dualismo di esiguità e onnipotenza, di debolezza e di forza, di grandezza e piccolezza: l'immagine del cielo stellato del golfo di Mergellina, di fronte al quale l'osservatore si chiede quale sia il posto dell'uomo nella scala dell'universo.

Uno spazio sterminato avvolge la terra. Il cielo stellato osservato dalle pendici del Vesuvio dà l'idea della distanza dei mondi, della relatività delle cose della fragilità dell'uomo. L'orgoglio umano, l'illusione ottimistica nella religione sono oggetto di riso o di pietà da parte del poeta. Il cielo stellato si specchia nel mare che brilla di mille luci. Le luci stellari, così piccole e distanti, ricordano la finitezza dell'uomo di fronte all'immensità dell'universo. La stirpe umana appare un nulla di fronte all'immensa volta celeste. Invece l'uomo si crede stoltamente dominatore della natura e pensa di essere prediletto dagli dei. Questo stupido ottimismo spinge al riso o piuttosto alla pietà.




Sovente in queste rive,

Che, desolate, a bruno

Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,

Seggo la notte; e su la mesta landa

In purissimo azzurro

Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,

Cui di lontan fa specchio

Il mare, e tutto di scintille in giro

Per lo vóto seren brillare il mondo.

E poi che gli occhi a quelle luci appunto,

Ch'a lor sembrano un punto,

E sono immense, in guisa

Che un punto a petto a lor son terra e mare

Veracemente; a cui

L'uomo non pur, ma questo

Globo ove l'uomo è nulla,

Sconosciuto è del tutto; e quando miro

Quegli ancor più senz'alcun fin remoti

Nodi quasi di stelle,

Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo

E non la terra sol, ma tutte in uno,

Del numero infinite e della mole,

Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle

O sono ignote, o così paion come

Essi alla terra, un punto

Di luce nebulosa; al pensier mio

Che sembri allora, o prole

Dell'uomo? E rimembrando

Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno

Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,

Che te signora e fine

Credi tu data al Tutto, e quante volte

Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,

Per tua cagion, dell'universe cose

Scender gli autori, e conversar sovente

Co' tuoi piacevolmente, e che i derisi

Sogni rinnovellando, ai saggi insulta

Fin la presente età, che in conoscenza

Ed in civil costume

Sembra tutte avanzar; qual moto allora,

Mortal prole infelice, o qual pensiero

Verso te finalmente il cor m'assale?

Non so se il riso o la pietà prevale.




E tu, lenta ginestra,

Che di selve odorate

Queste campagne dispogliate adorni,

Anche tu presto alla crudel possanza

Soccomberai del sotterraneo foco,

Che ritornando al loco

Già noto, stenderà l'avaro lembo

Su tue molli foreste. E piegherai

Sotto il fascio mortal non renitente

Il tuo capo innocente:

Ma non piegato insino allora indarno

Codardamente supplicando innanzi

Al futuro oppressor; ma non eretto

Con forsennato orgoglio inver le stelle,

Nè sul deserto, dove

E la sede e i natali

Non per voler ma per fortuna avesti;

Ma più saggia, ma tanto

Meno inferma dell'uom, quanto le frali

Tue stirpi non credesti

O dal fato o da te fatte immortali.

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