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Il comico e la fiaba




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Il comico e la fiaba




Calvino era dotato di una spontanea curiosità per le forme narrative originarie, di una singolare disposizione ad abbandonarsi al fiabesco, a giocare con le situazioni del racconto, a trovare combinazioni di tipo comico o fantastico, e ciò lo spingeva già in quei primi anni lontano dagli orientamenti del neorealismo. Se nel Sentiero dei nidi di ragno l'impianto neorealistico si apre già a una prospettiva fiabesca, alcuni racconti scritti tra il '46 e il '48 (come Furto in pa­sticceria e Dollari e vecchie mondane) affrontano situazioni di vita popolare con un gusto comico-fiabesco fortemente marcato, che fa pensare al metodo del comico cinematografico; nel 1952,Il vtsconte dimezzato si impegna più risolutamente sulla via della invenzione fantastica; dieci racconti scritti tra il 1952 e il 1956, infine, trovano un originale intreccio di comico e di fiabesco le­gato alla rappresentazione del rapporto tra una famiglia di origine contadina e la difficile vita di una moderna città industriale.

Questi racconti hanno al centro la figura del manovale Marcovaldo e i membri della sua famiglia, che agiscono come figurine uscite da giornalini per ragazzi o da comiche del cinema muto: in mezzo agli artifici della vita cittadina, di fronte a un'organizzazione sociale disumana e totalizzante, che nei suoi ciechi meccanismi schiaccia indifferentemente i più deboli, i per­sonaggi si difendono con ingenuo coraggio, appoggiandosi su piccoli segni di spontanea vita naturale, stravolgendo gli oggetti del paesaggio industriale in mezzo ai quali sono costretti a muoversi, usandoli in modi surreali, tentando fughe impossibili e ridicole, facendo valere gli elementari diritti dei loro corpi.

L'interesse per il fiabesco aveva intanto condotto Calvino a un'indagine, assai impegnativa, sulla tradizione delle fiabe italiane: dopo due annidi ricerca aveva pubblicato, nel 1956, un'ampia raccolta di duecento Fiabe italiane, rica­vate dalle più diverse tradizioni regionali (grazie a "esplorazioni" sul campo e all'uso di diversi repertori folclorici) e trascritte in una lingua semplice e piana, che riduceva le connotazioni stilistiche troppo marcate, i registri troppo "bas­si" o troppo "alti", per rivolgersi a una "media" comunicazione nazionale, a un lettore comune, in grado di trasmetterle anche ai bambini. Pur se non desti­nato agli specialisti, il lavoro era molto importante anche dal punto di vista do­cumentario; si collegava al recente sviluppo della ricerca antropologica in Ita­lia e alla nuova attenzione della cultura di sinistra per la realtà e la cultura po­polari, evitando però ogni atteggiamento populistico: anticipava quell'interes­se per la fiaba che sarebbe stato più tardi al centro delle ricerche della narrato­logia. Nello stesso tempo il trascrittore arrivava a confrontare direttamente le sue doti di narratore con si­tuazioni, schemi, figure legate ai fondamenti stessi del narrare: e compiva un esercizio di stile, che faceva raggiungere alla sua lingua un'eccezionale capacità di combinare meccanismi narrativi, di isolarne le strutture essenziali, eliminan­do al massimo ridondanze, residui espressionistici, pause liriche o sentimenta­li. Nel loro insieme, queste fiabe, offrendo "una spiegazione generale della vi­ta, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi", rivelano allo scrittore "l'infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste".


Il Barone Rampante.

Il più ampio dei tre romanzi, Il barone rampante, è anche quello in cui più Il barone intenso appare il rapporto tra favola morale e invenzione narrativa. Esso è una rampante delle più affascinanti "parabole" della ragione che siano state composte nel nostro secolo: il libero gioco fantastico vi si salda strettamente a un intento pe­dagogico, facendone anche uno dei migliori libri "per ragazzi" della nostra letteratura. Un simile risultato è reso possibile dalla singolare invenzione del personaggio principale, il barone ligure Cosimo Piovasco di Rondò che, all'età di dodici anni, nel 1767, decide di salire su un'elce, e trascorre poi l'intera sua vita in cima agli alberi, attraversando tutte le essenziali esperienze storiche e culturali, fino agli anni della Restaurazione; nel suo mondo sospeso egli si orga­nizza con tutta una serie di strumenti pratici, in modo da vivere in rapporto con la realtà, pur rimanendo in un proprio ambito distante e separato: egli rifiuta le invenzioni della vita quotidiana, le regole e i costumi sociali, ma partecipa, dall'alto, alla sete di conoscenza del suo tempo, alla progettazione di un mondo giusto e civile, al lavoro rivolto a migliorare la vita sociale. L'impegno di Cosimo a non lasciare mai gli alberi crea una serie di felicissi­me invenzioni narrative: il racconto (messo in bocca a un testimone partecipe e distaccato, il fratello più giovane del protagonista) affascina per il modo in cui storno a Cosimo costruisce tutto un mondo concreto, fatto di invenzioni ed espedienti di ogni genere, che rendono agevole e possibile quella vita sugli alberi; il personaggio, suscitando la curiosità di viaggiatori e di potenti che pas­sano per le sue terre, incontrandosi con i fatti fondamentali della cultura con­temporanea, diventa una immagine trasparente dell'illuminista, dell'intellett­uale dello scrittore in genere, che partecipa alla storia, ma con distacco ironi­co che ha una forte passione per la vita associata, ma tende a fuggire da essa, che lotta per una società universale, ma non concorda mai fino in fondo con le posizioni dei suoi compagni di lotta. La storia che scorre davanti a Cosimo è,

d'altra parte, come un succedersi di maschere, di apparizioni sfuggenti e illuso­rie di propositi vani: e la sua fedeltà alla vita sugli alberi resta segno della vali­dità di un modello assoluto, naturale e razionale, frutto di una scelta, che può anche essere difficile motivare, che può avere un'origine oscura e paradossale, ma che va mantenuta e difesa fino in fondo. Questo orizzonte storico e morale si esprime qui con sorprendente leggerezza, attraverso il tessuto stesso dell'in­venzione: Cosimo mantiene un'attitudine ironica, che gli permette di ridurre il peso di tutto ciò che tocca, di eludere ogni rassicurante definizione politico - ­intellettuale. Assolutamente lontana quest'opera appare dalla serietà a tutti i costi, dal moralismo, dall'aggressività, dalla presunzione di tanta letteratura e di tanta riflessione intellettuale tra gli anni Cinquanta e Sessanta: il suo equili­brio "classico" e ironico ne fa qualcosa di assai distante non solo dalla cultura di quegli anni, ma anche da quella più recente.


Il Cavaliere Inesistente.

Il cavaliere inesistente si confronta direttamente con il romanzo cavalleresco. Siamo al tempo di Carlo Magno, in un mondo ariostesco. La storia è narra­ta dalla monaca Teodora e riguarda le avventure di un cavaliere, Agilulfo, di cui esiste solo l'armatura, che fascia vuoto e da sé si muove per il mondo: una trasparente immagine della razionalità astratta che non riesce a commisurarsi con la realtà. Ma attorno al cavaliere acquistano rilievo altri personaggi, come il giovane Rambaldo, che cerca l'amore di Bradamante e un angolo giusto per ca­pire la realtà. Più che nell'allegoria, l'interesse del romanzo sta però nell'esplorazione delle possibilità fornite dalla narrativa: le sue vicende comportano un continuo interrogarsi sui modi in cui la scrittura può ricostruire il senso dell'e­sperienza, può dar corpo alle passioni e ai desideri. Più volte la voce della nar­ratrice guarda alla coincidenza e alla distanza tra la pagina e la vita; la sua scrit­tura è guidata da un'ansia che la rende sempre più veloce, finché alla fine non si scopre che la monaca Teodora si identifica con Bradamante: chiamata da Rambaldo, ella esce dal convento, abbandona la scrittura, e si muove sul suo cavallo verso l'indecifrabile futuro. Nei toni di un immaginoso divertimento, Calvino esprime cosi un'ironica fiducia sul possibile rapporto tra scrittura e vita, sulle capacità di progettazione della letteratura.

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