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Euripide opere, stile, e cuba, cassandra




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La vita



Secondo alcune dicerie, Euripide sarebbe nato nella regione o nell'isola di Salamina, nel 480, l'anno e il giorno stesso della famosa battaglia, e sarebbe vissuto per la maggior parte della sua vita ad Atene. Ma più probabilmente la nascita del tragediografo è da collocarsi nel 485/484, sebbene alcuni considerino dubbia anche questa data.

Gli aneddoti e le maldicenze formulate dai suoi avversari hanno contribuito all'incertezza generale riguardo alla sua vita: vengono trasformati, per esempio, in un'erbivendola e in un bottegaio, sua madre Clito, di origine nobile, e suo padre Mnesarco, ricco proprietario terriero, che fondavano invece la fortuna della famiglia sul commercio. Anche la sua vita privata non fu risparmiata: stando alle voci maligne, avrebbe sposato Melito e poi Cherine, dalla quale ebbe tre figli, Mnesarchide, Mnesiloco ed Euripide il giovane, ma entrambi i matrimoni non furono felici, e ciò gli procurò l'accusa, del tutto infondata, di misoginia. Sembra che Euripide, adolescente, abbia esercitato uno sport, il pugilato, ma non è una notizia attendibile; si tiene per certo invece, che ricevette un'ottima istruzione, dedicandosi anche alla pittura e alla musica. Ebbe a quanto pare rapporti con i sofisti, dei quali si sente notevolmente l'influsso nelle sue opere; frequentò Socrate, e secondo la tradizione fu discepolo di Anassagora, Prodico e Protagora

Pur essendo molto riservato, fu per un certo tempo danzatore e torciere di Apollo Zosterio. Era un uomo dal carattere inquieto, e infatti non partecipò attivamente alla vita politica di Atene, a differenza di      Eschilo e Sofocle, e per questo non godette di molti appoggi politici nella sua città. Fu sempre molto critico e polemico nei confronti della realtà a lui contemporanea, fatto riscontrabile anche nelle sue tragedie, dove spesso accenna alla politica del suo tempo, e dove sono espresse in modo evidente le sue idee progressiste e democratiche.

Partecipò per la prima volta ad un agone tragico nel 455, dove arrivò terzo e ottenne solo il coro. La sua prima vittoria risale al 441, e a questa se ne aggiunsero solamente tre, o quattro, se si accetta quella, tramandata da alcune fonti, riportata dal figlio omonimo, Euripide il giovane, che dopo la sua morte si curò della rappresentazione dell'Ifigenia in Aulide, dell'Alcmeone a Corinto e delle Baccanti.

Stando a questi fatti, si percepisce una notevole ostilità del pubblico ateniese nei confronti del tragediografo (anche se alcuni studiosi affermano che si tratti solo di un pregiudizio, in quanto la stessa città di Atene non gli aveva mai negato un coro per rappresentare le sue opere), dovuta, pare, all'accusa di empietà mossagli da Cleone, ma anche questa non è una notizia attendibile. In ogni caso, il successo di Euripide fu grande in tutta la Magna Grecia, e soprattutto presso i Siciliani, come affermano Satiro e Plutarco.

Per dare un inquadramento storico, si può affermare che la vita e lo sviluppo culturale e poetico di Euripide si inseriscono nel periodo di massimo splendore dello stato ateniese e della successiva fase di sfaldamento e di crisi, ossia nell' arco di tempo compreso fra l'età di Pericle e la guerra del Peloponneso. Euripide, così come Aristofane, odiava quella guerra e i danni che provocava, come si può per altro notare nella requisitoria contro i guerrieri, nella sua tragedia  Troiane, requisitoria incompleta, ma pur sempre molto efficace.

Quasi alla fine della sua vita, nel 408, dopo aver fatto rappresentare l'Oreste ad Atene, abbandonò la città. Rimase per qualche anno a Magnesia, in Tessaglia, quindi si ritirò a Pella, presso la corte del re Archelao di Macedonia, dietro invito dello stesso sovrano che amava circondarsi di alti ingegni. Qui morì ad ottant'anni, nel 406, in circostanze non chiare e avvolte dalla leggenda: secondo alcuni sarebbe stato sbranato dai cani molossi del re, mentre rincasava ad ora tarda, come punizione per la sua irreligiosità e empietà, delle quali si credeva di trovare numerose e palesi prove nelle sue tragedie.

Il cadavere fu seppellito a Pella, o nella valle di Aretusa, e la notizia della sua morte sconvolse e fece lacrimare Atene.


OPERE




Euripide scrisse quasi esclusivamente opere drammatiche, tranne un epitaffio (iscrizione funebre), per i caduti Ateniesi nella spedizione della Sicilia, e un epinicio (componimento per celebrare il vincitore), per Alcibiade.

Ci sono pervenute diciotto sue opere, di cui diciassette sono tragedie, più una considerata spuria, e un dramma satiresco (il Ciclope, 420-415 a.C.). Delle altre opere ci sono giunti il titolo e numerosi frammenti.

Gli anni di composizione delle opere non sono noti con certezza (probabilmente compresi tra il 455 ed il 406 a.C.). Le tragedie a noi giunte sono: Alcesti (438 a.C.), Medea (431 a.C.), Ippolito (428 a.C.), Eraclidi (427), Eracle, Andromaca, Ecuba (ca. 420), Supplici (ca. 421), Troiane (ca. 415 a.C.), Elettra (413 a.C.), Elena e Ione (412 a.C.), Fenicie, Ifigenia in Tauride e Oreste (408 a.C.), Ifigenia in Aulide e Baccanti (rappresentate postume nel 406 a.C.), Reso, della cui autenticità si dubita.


STILE





Il linguaggio usato da Euripide si allontana dal linguaggio elegante e ricercato dei suoi predecessori, per arrivare ad una quotidianità in cui l'uomo possa riconoscersi.

Mentre Eschilo e Sofocle scrivevano secondo dogmi stabiliti, Euripide li contestava trovandoli privi di senso. Il suo modo di esprimersi è chiaro, coerente, rigoroso; anche il lessico è tratto dall'uso quotidiano; il coro assume un ruolo diverso: è un accompagnamento lirico che esprime compartecipazione al dolore dei personaggi, non ha più il compito di analizzare la vicenda e sostituisce il più delle volte i canti degli attori.

Nel teatro di Euripide la trasformazione rispetto al passato è sostanziale: la struttura della tragedia non subisce alcuna modificazione, ma, mentre l'evento mitico era al centro del teatro di Eschilo e Sofocle, senza alcuna modificazione rispetto alle versioni tramandate dalla tradizione, egli considera il mito un'elaborazione dei poeti, non più parte fondamentale della religiosità greca (basti ricordare che la rappresentazione stessa era un rito sacro). Il mito viene quindi utilizzato come mezzo per rappresentare i problemi e le tematiche su cui l'autore vuole riflettere, ed è permessa l'introduzione di elementi di pura invenzione. Sempre a differenza di Eschilo e di Sofocle, che amano ripetere gli schemi delle loro tragedie, nella drammaturgia euripidea si privilegiano gli intrecci complessi ed elaborati, con ripetuti colpi di scena, si creano schemi sempre nuovi e l'azione diviene sempre più intricata. Euripide attua il tentativo di adeguare l'evento tragico alla contemporaneità e all'evoluzione dei tempi, che ponevano nuove problematiche e sollecitavano nuove sperimentazioni formali, ma egli venne visto come sovvertitore della tragedia, piuttosto che come innovatore.

Egli adopera, soprattutto nelle sue ultime tragedie, due mezzi tecnici, che hanno il preciso scopo di ricondurre la tragedia al mito: il prologo e il deus ex machina.

Il deus ex machina instaura un collegamento tra mito e tragedia, dal quale l'autore non può prescindere, ma non porta ad un finale risolutivo: per Euripide infatti il conflitto tragico è ineliminabile.


I prologhi diventano espositivi: un personaggio, solitamente una divinità (in questo punto infatti è confinata l'azione del dio), racconta l'antefatto, la situazione, e la conclusione della vicenda: in questo modo si fanno conoscere agli spettatori le modifiche al mito, e si distoglie l'attenzione del pubblico dal susseguirsi dei fatti, per concentrarla sui problemi e le questioni affrontate, con abbondanza di dibattiti.

Con l'espansione dello stato ateniese, erano venuti in primo piano i problemi che riguardano i rapporti tra gli uomini, piuttosto che il rapporto tra l'uomo e la divinità, che era stato al centro delle opere di Eschilo e di Sofocle. La triste condizione della donna e degli stranieri, il ruolo dell'intellettuale nella società, erano gli argomenti che monopolizzavano l'attenzione dell'opinione pubblica. L'analisi psicologica diviene, così, l'elemento portante della tragedia: si scontrano il pessimismo, derivante dalla consapevolezza della miseria umana, e l'ottimismo derivante dalla fiducia nella ragione.

La curiosità scientifica spingeva il tragediografo alla ricerca di cause naturali per fenomeni considerati soprannaturali: lo scetticismo di Euripide, che si manifesta per la sua tendenza a mettere tutto in discussione, non poteva ammettere a lungo l'idea che gli dei mantenessero l'ordine nell'universo, e se anche fosse stato così, non c'era certo da rallegrarsi. Le credenze che gli ateniesi accettavano senza            discussione, non erano invece accettate da Euripide, che riteneva che gli dei dell'Olimpo si mostrassero crudeli e mossi da desideri che in un essere umano sarebbero stati vergognosi.
A suo parere gli dei erano meno nobili di un uomo o di una donna di qualità.

Gli dei sono ugualmente presenti nelle sue opere, ma rappresentano metaforicamente le            istituzioni sociali che l'uomo si è dato, e come tali sono messi in discussione, essendo la ragione umana lo strumento più idoneo per correggere le disfunzioni sociali. Euripide intende affrontare i problemi dell'uomo esclusivamente in termini umani, ma essendo la tragedia una rappresentazione religiosa, non poteva non coinvolgere del tutto il dio, ed è per questo che l'autore confinava questa figura nel prologo, o nell' esordio, facendo in modo che la vicenda si svolgesse senza il suo intervento.

Euripide però, a differenza di quanto può sembrare, non è ateo, ma alla ricerca del divino: vorrebbe credere in un dio buono e giusto, ma il male è dilagante nel mondo, e il pensiero dell'esistenza della divinità non è sufficiente ad esorcizzarlo.

L'attitudine dei suoi personaggi a filosofeggiare, deriva forse dai suoi contatti con i sofisti.

Proprio nei personaggi, troviamo tutta la grandezza dell'opera di Euripide: l'interesse continuo per l'umanità e per i suoi comportamenti conferisce alle sue tragedie una forza che sfida l'usura del tempo. L'autore si interessa dell'interiorità dei suoi protagonisti, che non si identifica con la loro integrità morale, come nel teatro di Sofocle, ma è caratterizzata da un conflitto tra la ragione e la componente irrazionale. Questo conflitto è l'elemento di tragedia che è insito nell' uomo: ci si domanda se l'uomo sia causa di ciò che fa, o piuttosto vittima delle sue azioni. La componente dominante resta quella irrazionale: la ragione arriva a comprendere gli errori, ma non è in grado di evitarli. Gli eroi vengono rappresentati con i conflitti interiori e le passioni proprie di tutti gli uomini: il suicidio non è più considerato come affermazione di sé, ma come via di fuga. È assente l' idea di giustizia, di un dio che intercede in favore del più debole: la vicenda umana è regolata dal caso; tutti gli uomini, in quanto uomini, sono accomunati  da un destino che condividono.



Euripide si dimostra inizialmente fiducioso nella ragione umana, ma poi questa fiducia va sempre più incrinandosi, fino ad approdare ad una visione pessimistica della vita. Da questo il suo giudicare vana tutta l'esistenza, al contrario di Sofocle, che cerca conforto nella fede.

Impossibile che questa visione non si riversi nelle sue rappresentazioni: egli predilige le giovani vite stroncate da una morte prematura e le sue eroine sono creature profondamente deboli, che acquistano per un attimo la forza che non ebbero nella loro triste e breve vita. L'opera di Euripide mira quindi alla commozione del pubblico, motivata da una profonda intuizione del dolore umano, espressa in un lirismo dalla forza poetica irresistibile.

È l'alba sul campo dei greci, tra le tende si odono i lamenti e i gemiti delle troiane.

Ecuba è distesa a terra, col capo chino, dolendosi delle sue sventure.

L'alta rocca di Troia si staglia contro il cielo, ormai deserta. Non si ode più nessun suono, a parte il rumore del pianto, che crea un senso di desolazione tutto intorno.

D'un tratto appare Poseidone, invisibile per gli occhi di Ecuba.

Il dio del mare è appena giunto dall'Egeo, patria delle aggraziate ninfe marine, le danzanti Nereidi: sarà lui a raccontare come è stata conquistata la città di Troia, dalla parte della quale egli si era schierato durante tutta la lunga guerra.

Il suo appoggio non era mai mancato ai troiani, fin da quando il dio aveva eretto con Apollo le mura attorno alla loro città. Era stata Atena, a suggerire a Epeo Focese il modo per espugnare la rocca. Così era stato costruito il famoso cavallo di legno, con il ventre pieno di soldati armati, che era stato accettato dai frigi come un dono, ed era invece stato la causa della loro rovina. Lo stesso Priamo, era stato ucciso, morto per mano del figlio di Achille, sull'altare di Zeus. Gli achei saccheggiano la città ormai priva di difese, e trasportano il bottino alle navi, in attesa del vento favorevole per poter salpare, e fare finalmente ritorno, dopo dieci lunghissimi anni, alle loro case, dove li attendono mogli e figli.

Il dio del mare, dopo essere stato sconfitto dall'astuzia di Era e di Atena, si appresta ad abbandonare per sempre Troia, come tutti gli altri dei che, quando la desolazione si impossessa di una città, vanno lontano, perché sui loro altari non sarà fatto più nessun sacrificio. Già il fiume Scamandro riecheggia dei pianti funebri delle donne troiane, che hanno perso i loro mariti, e ora saranno fatte schiave dai greci, con i loro figli, e condotte in una terra sconosciuta, fra gente a loro sconosciuta. Rinchiuse nelle tende, aspettano di sapere a chi sono andate in sorte, a quale dei principi achei. E là, sulla spiaggia, davanti all'accampamento, giace Ecuba, distrutta dal dolore, per aver perso tutti i suoi figli, e il suo sposo, e ancora non sa che sua figlia Polissena è stata sacrificata sulla tomba di Achille, che, prima di morire, innamoratosi della fanciulla, aveva espresso questo desiderio. E Cassandra, la vergine invasata di Apollo, a forza e in segreto sarà trascinata sul letto da Agamennone, sprezzante del dio e del sacro.

Così Poseidone dà l'addio alla città, una volta fortunata, e cinta da mura superbe, che sarebbero ancora in piedi, senza l'intervento di Atena.

Come evocata dalle parole del dio, appare Pallade, che, irata, sostiene di aver subito un oltraggio da parte di Aiace, eroe greco, che nel suo tempio aveva trascinato via Cassandra e insieme anche il suo simulacro, senza subire rimproveri da parte degli achei. Per questo chiede al dio del mare di aiutarla a vendicarsi di chi un tempo aveva appoggiato.

Quando da Troia navigheranno verso le proprie case, i greci saranno colpiti da tempeste di pioggia, grandine e vento, mandate da Zeus, che aveva anche promesso ad Atena di farle colpire gli Achei con il fuoco del fulmine, per incendiare le loro navi. Poseidone ha in questo modo la possibilità di vendicare a sua volta la distruzione di Troia, sconvolgendo la distesa del mar Egeo con onde e vortici marini, e scagliando i corpi privi di vita dei greci sugli scogli e sulle rive.

Dopo essersi messa d'accordo con Poseidone, Atena si avvia verso l'Olimpo, mentre l'altro dio scompare, tornando alla sua reggia nei mari.

La spiaggia è di nuovo deserta. Ecuba si riscuote, sollevando lo sguardo.

Leva alti lamenti, come se, per la prima volta, si fosse resa conto di aver perso ogni cosa. Troia è stata sconfitta, Priamo, suo sposo, è morto, e lei, ormai vecchia, non ha più la forza per sopportare tante sciagure. Tutto è accaduto a causa di Elena, disonore per il marito Menelao, e per tutta Sparta: per lei Ecuba, nonostante la sua età, sarà trascinata via come schiava, così come tutte le spose dei troiani.

Ed ecco che, tutto intorno, si alza piano un grido, un canto.

Da alcune tende escono le donne troiane, che hanno udito il lamento di Ecuba.

Non sanno ancora qual è il loro destino, e si appoggiano alla vecchia regina, come ad una madre: ma anche Ecuba non sa nulla, come le altre schiave non ha ricevuto nessuna notizia. Così, le troiane invitano le compagne rimaste sotto le tende ad unirsi a loro, anche se Ecuba non vorrebbe rivedere sua figlia Cassandra, per non doversi dolere della sua pazzia.

Le altre prigioniere escono dalle tende, chiedendo se sia giunto l'araldo dei danai, se sia già stato stabilito a chi dovranno andare in sorte: nessuno sa ancora dove saranno portate, nessuno sa che destino le attende; la stessa Ecuba teme di dover custodire le porte, o di dover essere nutrice di bimbi; le donne saranno separate dai figli, destinate a servire in casa o ad attingere l'acqua ai pozzi.

Ma ecco che arriva l'araldo, Taltibio, a portare notizie.

Già molte volte egli si era recato a Troia come ambasciatore degli achei, e per questo Ecuba lo conosceva. Il messaggero si pronuncia: le donne sono state date in sorte, ciascuna ad un uomo diverso. Cassandra, per prima, è stata scelta da Agamennone, colpito da amore per la fanciulla ispirata dal dio. L'anziana donna ingiunge alla figlia di gettare via le sacre chiavi e i divini ornamenti delle bende, chiedendo poi quale sorte sia toccata a Polissena, appena portata via. Ma Taltibio, non volendo rivelare che la fanciulla è morta, riesce a convincere la donna che sua figlia sia ancora viva. Ecuba viene poi a sapere che Andromaca, la sposa di Ettore, è stata scelta dal figlio di Achille, Neottolemo.

Nell'udire poi, che la sorte l'ha destinata alla casa di Odisseo, Ecuba si dispera percuotendosi il capo e graffiandosi il viso: andrà in schiava ad un uomo abominevole e infido, e per questo le donne la compiangono, comprendendo in quale infelice sorteggio sia incorsa; subito però, Taltibio ferma i lamenti, ingiungendo ai servi di prendere Cassandra dalle tenda per consegnarla ad Agamennone; in seguito saranno condotte anche agli altri le prigioniere assegnate.

Dietro la tenda si accende un fuoco improvviso, come se le troiane, sul punto di essere condotte via dalla loro terra, si dessero fuoco con delle torce: si tratta invece di Cassandra, che irrompe nel gruppo con le sue insegne di sacerdotessa, e, brandendo la fiaccola, canta e danza in delirio e, come se guidasse un gioioso corteo nuziale, invoca Imeneo, dio del matrimonio, affinché consacri le sue nozze e renda felice lei stessa e il suo futuro sposo; poi invita sua madre ad abbandonare il pianto e a danzare con lei e incita le altre troiane a festeggiare e a cantare. Ma le donne vorrebbero poter fermare la sua pazzia, che le riempie di vergogna, e per questo si rivolgono alla loro regina. Ecuba tenta di placare la figlia, si fa consegnare da lei la fiaccola e ingiunge alle troiane di rispondere con pianti ai suoi canti nuziali. Cassandra insiste nel voler festeggiare: Agamennone con lei troverà la morte, lei stessa lo ucciderà e devasterà la sua casa vendicando i suoi fratelli e suo padre, lei stessa dovrà morire, ma insieme con lei sarà distrutta la casa di Atreo.

Per colpa di Elena gli Atridi fecero perire innumerevoli uomini: lo stesso Agamennone, per poter partire, aveva sacrificato sua figlia, per riprendere una donna che non era stata rapita con la forza, ma consenziente. Molti erano morti senza rivedere i loro figli e le loro mogli, sepolti in terra straniera, e ora le loro spose morivano vedove e i padri senza i loro figli, che avevano allevato per altri. I troiani invece, morivano in difesa della loro patria, la gloria più bella. Coloro che morivano, venivano seppelliti dai loro cari, e quanti non morivano in battaglia, ogni giorno tornavano dai figli e dalle spose, gioia che gli achei non conobbero. Per Cassandra non è doloroso il destino di Ettore, che è morto da eroe grazie ai nemici: se infatti questi fossero rimasti nella loro patria, non si sarebbe saputo niente di lui; anche Paride, sposando la figlia di Zeus, è divenuto famoso. Certo la guerra deve essere evitata da chi è assennato, ma se dovesse arrivare, bisogna accettare una morte gloriosa, e per questo non è necessario versare tante lacrime.

Le giovani troiane non dimostrano, però, di essere convinte dalle pretese di Cassandra, ma anzi credono che le sue parole siano vane e buttate al vento. Anche Taltibio la giudica pazza, e ritiene che sia solo per questo che le sue maledizioni resteranno impunite: sembra a tutti così strano che Agamennone abbia scelto proprio lei, ma non spetta a loro il compito di dover giudicare le sue scelte, e il messo invita Cassandra a seguirlo fino alle navi e, rivolgendosi a Ecuba le ingiunge di seguire Odisseo, quando riceverà l'ordine di andare, perché è destinata ad essere la serva di Penelope, donna onesta e assennata.

Interviene Cassandra smentendolo ancora una volta: secondo gli oracoli di Apollo, Ecuba morirà a Troia, e quanto a Odisseo, egli non sa ancora quali sventure lo attendano.

Giungerà nella sua patria solo dopo altri dieci anni, ma prima dovrà passare presso la dimora di Cariddi, incontrerà il Ciclope carnivoro, che vaga per le montagne, e Circe che trasforma in porci, e incorrerà in numerosi naufragi; lo prenderà il desiderio del loto, che fa dimenticare, vedrà le vacche sacre del Sole, e scenderà vivo nell'Ade, e, scampato all'acqua del mare, troverà innumerevoli mali nella sua casa. Cassandra inveisce contro Agamennone: il sovrano dei danai sarà sepolto nella notte, e non durante il giorno; lei stessa, sacerdotessa di Apollo sarà data in pasto alle belve. Perciò deve dare l'addio alle sue bende e ai suoi ornamenti sacri, affidandoli al vento perché li porti ad Apollo, e deve abbandonare le feste, di cui prima era fiera. Ora vuole andare alle navi, via dalla sua terra, con Agamennone, per poi raggiungere il padre e i fratelli nell'oltretomba, per annunciare loro la rovina degli atridi.

Ecuba cade al suolo, in silenzio. Qualcuno invita a sollevarla da terra e a sostenerla. Ma la donna si rifiuta, vuole restare distesa, soffre troppo per potersi rialzare, su di lei si sono abbattute disgrazie causate dagli dei. Le è caro cantare i beni di una volta: era regina e sposa di re; aveva generato figli forti, i migliori dei frigi, nessun'altra donna poteva vantare figli tali. Ma li aveva visti morire, e sulle loro tombe aveva tagliato i propri capelli; aveva visto cadere Priamo con i suoi occhi, sgozzato presso il sacro focolare, e la città presa; aveva allevato le sue figlie, perché onorassero i loro mariti: le erano state strappate dalle braccia, non le avrebbe più riviste; infine, come schiava, così vecchia, sarebbe partita per la Grecia, sarebbe diventata custode della reggia di Odisseo, lei, la madre di Ettore, avrebbe impastato farina per il pane, avrebbe dormito sul suolo, portando cenci sul corpo lacero, lei, che aveva dormito su letti regali.

Mani pietose la sollevano, ma cade di nuovo senza nessuna speranza.

Non ritenete felice nessuno di quelli che sono fortunati, prima che sia morto.

Le donne troiane intonano un canto, piangendo, un canto per Troia, che risuona alto.

Tutto era iniziato quando gli achei avevano lasciato davanti alle porte il cavallo dalle redini dorate, alto fino al cielo. Dalla rocca qualcuno aveva gridato di far salire l'idolo sacro ad Atena, e tutti erano usciti dalle proprie case: le ragazze accorrevano per vedere, i vecchi si affacciavano sulla porta, tutti cantavano allegre canzoni, e tendevano lieti le mani alla sciagura. Tutti i frigi accorrevano per vedere il dono d'abete, che nascondeva l'agguato degli argivi, mentre veniva trascinato in alto, sulla rocca, con lunghe funi, e posto davanti al tempio di Pallade, come lo scafo nero di una nave. E quando sulla fatica e sulla gioia calarono le tenebre della notte, si udì il suono dei flauti, di melodie frigie, mentre le fanciulle allegre danzavano, intonando grida di gioia.

Sorse la luna, e nelle case, accanto alle  fiamme spendenti dei fuochi, tutti furono vinti dal sonno. D'improvviso un grido sanguinoso risuonò per tutta la città, riempiendo la rocca di Ilio. I bimbi, sorpresi, tendevano le mani afferrandosi alle vesti materne. L'idolo di Atena vomitava soldati. E ci furono stragi dei frigi intorno agli altari, teste mozzate nei letti in solitudine. Così furono fatti la gloria dell'Ellade e il dolore della patria dei frigi.

Ecuba si rialza, vedendo giungere Andromaca sul carro con il piccolo Astianatte.

Le troiane le chiedono da lontano dove mai la stiano portando; il carro si ferma: gli achei portano via Andromaca. Ecuba geme per la sorte della donna, lamenta la fine di Troia, la fine della felicità, la morte dei suoi figli, la sua sorte, i suoi mali. Andromaca invoca il ritorno di Ettore, perché la protegga come una volta, ed Ecuba le fa eco invocando Priamo perché la porti con sé a dormire nell'Ade. La causa di tutto è  Paride, la rovina e la sventura si erano abbattute su Ilio, dopo che lui era sfuggito alla morte, lui, che per il suo amore aveva distrutto le rocche di Troia. A causa sua i cadaveri stanno distesi nel sangue, pasto per gli avvoltoi, lui ha preparato la schiavitù per la città. Le donne si accingono ad abbandonare la patria, la casa dove hanno vissuto e della quale hanno visto la fine, versano lacrime amare, cercano di dimenticare per non piangere, ma è dolce il pianto, è dolce il canto del dolore per chi soffre.

Gli dei ora innalzano l'uomo, ora lo atterrano.

Mutevole è il destino: Andromaca era stata nobile un giorno, ora era schiava, e con lei suo figlio; ad Ecuba era stata strappata via sua figlia Cassandra, d'improvviso, e questo non era l'ultimo dei suoi mali: ora Andromaca le svela la morte di Polissena, offerta alla tomba di Achille, regalo per un cadavere. Ecuba si lamenta infelice, solo ora comprende l'enigma di Taltibio, che fino a poco prima, le era sembrato oscuro. Andromaca l'ha vista, l'ha avvolta in un peplo, si è percossa il petto e ha pianto sul suo gelido corpo: forse, ammette, è più felice il destino della morta, piuttosto che il suo; ma non per Ecuba.

Essere morti non è come vedere la luce: la morte è il nulla, vivere è sperare.

Certo, le parole di Ecuba sono molto belle, ma Andromaca vuole ugualmente replicare. Morire è come non essere mai nati: è meglio morire che vivere nel dolore. Chi è morto non può soffrire, poiché non percepisce i suoi mali, ma chi è stato felice e piomba nella disgrazia, soffre al pensiero del bene perduto. Polissena è morta, è come se non avesse mai visto il giorno, nulla può sapere, nulla può soffrire nel buio remoto delle cose. Ma Andromaca è viva, lei ha provato la felicità e l'onore, ed ora ha perduto tutto. Le virtù che una donna può vantare, le aveva realizzate tutte con sacrificio, in casa di Ettore. Stava sempre rinchiusa, mai si mostrava alla gente, perché questo porta biasimo alle donne, meritato o meno. Nelle sue stanze non lasciava entrare le chiacchiere di donne maliziose, si accontentava del suo buon senso. Si mostrava al suo sposo in silenzio, e con lo sguardo calmo: sapeva quando vincerlo e quando cedere a lui. Ma, proprio le sue virtù, la cui fama era giunta all'esercito acheo, l'avevano rovinata, perché, dopo che fu catturata, il figlio di Achille la volle come sua sposa. Ora, allontanando il suo amore per Ettore e aprendo il cuore al nuovo marito, sarebbe sembrata per molti crudele e spregevole, ma se avesse detestato Neottolemo, allora sarebbe stata invisa ai padroni.

Era Ettore l'uomo che la rendeva felice, grande per ingegno, nobiltà, valore, ricchezza e coraggio. Ma ora Ettore era morto, e lei doveva partire sul mare, come schiava.

Ecco che la morte di Polissena appariva subito meno grave di fronte ai suoi mali: a lei ormai mancava la speranza, l'ultimo conforto, l'ultimo rifugio dei mortali.

La sua stessa sventura soffrivano le altre troiane.

Ecuba non è mai salita su una nave, ma ha visto e sentito i pericoli corsi dai marinai, per avere visto dipinti e per averne sentito parlare.

Quando li assale la bufera, essi tentano di resistere con ogni sforzo: chi va al timone, chi va alle vele, chi toglie l'acqua dalla nave. Ma se il mare si ingrossa e li travolge, allora cedono alla sorte e si abbandonano all'impeto delle onde.

Così lei stessa, in silenzio, cede all'onda della sua sventura, ai flutti sollevati dagli dei.

Ma Andromaca è ancora giovane, può ancora sperare, può lasciar perdere la sorte di Ettore: rendendo onore al suo nuovo signore, potrà aiutare i suoi cari e allevare suo figlio, in modo che Troia ne tragga vantaggio, in modo che i suoi nipoti rialzino le mura di Ilio.

Ecco che giunge qualcuno, arriva Taltibio nunzio degli achei portando nuove notizie.

Egli si rivolge ad Andromaca, contro voglia le annuncerà i nuovi ordini dei pelopidi, e Andromaca sente che le sue parole sono il preludio ad altre sciagure.

Taltibio non sa come spiegarsi, è indeciso, non riesce a riferire la tremenda notizia. Andromaca teme di essere separata dal suo bambino, ma l'araldo smentisce: nessuno degli achei sarà mai suo padrone, né resterà nella terra dei frigi, ma sarà ucciso.

Andromaca lancia un grido, sconvolta, niente immaginava di così tremendo, non hanno misura i mali che soffre. Odisseo è la causa di tutto: è stato lui a dire di non far crescere il figlio di un padre tanto valoroso, ma di gettarlo giù dalle torri, e così deve essere fatto. Andromaca non può tenerlo con sé, non può essere forte, non si può opporre. Morta è la città, e con essa il suo sposo, e lei è una donna sola. Non deve cercare lo scontro, né scagliare contro gli achei le sue maledizioni, o sarà per sempre odiata, e il suo bambino non avrà sepoltura. Ma se tacerà, e accetterà la sua sorte, il suo destino, allora gli achei le saranno favorevoli, allora potrà piangere il suo bambino sulla tomba.

Andromaca sembra non ascoltare, il dolore la tormenta, il suo bambino, conforto dei suoi giorni, morirà, lasciandola, sola, nella sventura. Per mano dei nemici morirà, e per la nobiltà di suo padre. Lei era entrata nella casa di Ettore, non per generare una vittima per i danai, ma un re d'Asia. E ora il suo bambino piange, si accorge dei suoi mali, guarda la madre, afferra le sue vesti con le mani e si tiene stretto a lei, come un pulcino si affida alle sue ali. Ma questa volta non verrà suo padre, non verrà Ettore a portarlo in salvo, con la sua lancia. Con un orrendo salto, precipitando giù dalle alte mura, sarà spezzato il suo respiro.

E il bimbo abbraccia sua madre, e lei sente sulla sua pelle il suo dolce respiro: invano lo ha nutrito e allevato da quando era in fasce, invano lo ha cresciuto con amore: i greci, inventori di barbare torture, lo uccideranno, lui, un bambino senza colpe. Ed Elena, lei non può essere figlia di Zeus, è figlia del Male, dell'Odio, dell'Invidia, della Morte, di tutti gli orrori che nutre la terra. Lei, rovina di barbari e greci, distruttrice delle pianure dei frigi.

Andromaca si rivolge ai greci perché prendano il suo bambino, lo trascinino via, lo gettino giù dalla rocca se così è deciso, lo divorino anche se possono. Per volontà degli dei è giunta la fine di Troia, non potrà allontanare la morte da suo figlio.

E dopo avrebbero dovuto nascondere il suo corpo, e gettarlo sulle navi: dopo aver perduto suo figlio si recava a nozze ben felici.

Taltibio prende con sé il bambino, perché vada con lui alle torri, dove cesserà il soffio della sua vita, dove abbandonerà per sempre l'abbraccio di sua madre. Tali cose dovrebbe annunciarle un uomo più duro e spietato.

Ciò detto Taltibio va via, seguito dai soldati, portando con sé il piccolo Astianatte.

Anche Andromaca se ne va, portata via dal carro con il quale era giunta.

Rimane Ecuba. Ora non ha più nessuno, e non può offrire altro che il suo pianto e il suo dolore percuotendosi il petto e la testa. Sembra che non possa mancarle nulla per piombare nel baratro della rovina.

Le altre troiane intonano un canto.

E cantano della prima distruzione di Troia, quando Telamone, re di Salamina si recò con Eracle a distruggere Ilio.

Eracle, sdegnato con Laomedonte, allora re di Troia, che non aveva mantenuto la promessa di dargli i suoi velocissimi cavalli, come ricompensa per la salvezza della figlia da un mostro marino inviato da Poseidone, aveva deciso di distruggere Troia per vendetta. Laomedonte fu ucciso da un freccia dell'arco di Eracle, e suo figlio Ganimede fu rapito in cielo da Zeus, perché fosse coppiere degli dei.

Ma questi sembrava indifferente al destino della città che lo aveva generato, e mentre Ilio veniva distrutta dalle lance dei greci, egli continuava a servire incurante il trono di Zeus.

Ormai l'amore degli dei per Troia non c'era più.            

Le troiane tacciono all'arrivo di Menelao.

È un giorno splendido per il condottiero, finalmente potrà vedere Elena, la moglie traditrice. Dice però di non essere giunto a Troia per lei, come tutti credono, ma per un uomo, lo stesso che aveva rapito sua moglie dalla sua casa, tradendo la sua ospitalità, ma pagò il suo gesto con la sua terra, caduta sotto le lance dei greci. Ora Menelao riprenderà Elena, che è stata messa tra le prigioniere, tra le donne troiane. I greci, che hanno patito per dieci lunghi anni, l'hanno resa a lui, perché la uccidesse, o perché la portasse via ad Argo, e la desse da uccidere, come vendetta, a coloro i cui cari erano morti a Ilio.

Egli ordina ai suoi soldati di trascinarla per i capelli fuori dalle tende: sarà riportata in Grecia con il primo vento propizio.

Si ode allora la preghiera di Ecuba, preghiera a Zeus, che ha sede sopra la terra, dio indecifrabile e inconoscibile, insito nella natura o forse nella mente dei mortali, colui che guida secondo giustizia le cose degli uomini. Menelao è sorpreso da questa nuova e insolita preghiera. Ecuba si spiega: meglio non guardare Elena, meglio farla uccidere, perché cattura gli sguardi degli uomini, distrugge le città, incendia le case.

Ma la donna è interrotta dall'ingresso della stessa Elena, che vuole sapere qual è il destino che l'attende. E Menelao, rivolgendosi a lei, parla con asprezza: sul suo destino non c'è mai stato dubbio, lei morirà per mano delle vittime della sua ingiustizia. Elena vuole replicare, ma Menelao vorrebbe ucciderla, non vorrebbe starla a sentire, se Ecuba non lo  pregasse di concedere poi a lei stessa il diritto di ribattere al discorso di Elena, schiacciandola con le sue accuse. Ed egli concede all'anziana donna questo favore.

Elena inizia a parlare.

Il principio dei mali è Ecuba, che generò Paride. In secondo luogo, la causa della rovina di Troia, e della stessa Elena, fu il pastore al quale Priamo aveva affidato l'incarico di abbandonare il neonato sul monte Ida, dopo che Ecuba aveva sognato di partorire una fiaccola accesa, presagio di rovina. Una volta cresciuto, Paride aveva giudicato le tre dee: ognuna di esse, per essere scelta, gli aveva offerto un dono: Pallade gli promise il dominio dell'Ellade, Era il dominio dell'Asia e dell' Europa, Afrodite la bellezza di Elena. Vinse Afrodite, a quanto pare a favore della Grecia, che non cadde sotto il dominio dei barbari. Ma Elena fu rovinata: Paride era giunto a Sparta con Afrodite, e mentre Menelao si trovava a Creta, l'aveva rapita, con l'aiuto di Afrodite, al potere della quale è sottomesso lo stesso Zeus.

Certo, quando Paride morì, Elena avrebbe dovuto andare alle navi degli argivi, ma l'aveva presa come moglie Deifobo, conto il volere dei frigi, e la teneva con la forza, perciò non poteva fuggire e, nonostante avesse provato più volte, era sempre stata sorpresa. Dunque non merita di morire, perché sono stati gli dei a volere per lei quel destino, e non si possono superare gli dei, il solo desiderio di ciò è stolto.

Elena finisce di parlare, e le troiane esortano Ecuba a difendere i suoi figli, a difendere la sua patria, a discolparsi da accuse infamanti.

Ecuba non crede che Era e Atena siano giunte alla stoltezza di vendere ai barbari, l'una Argo, l'altra Atene, solo per vincere una gara di bellezza.

Era senza dubbio non aveva motivi per avere questi desideri, visto che non poteva di certo avere uno sposo migliore del suo, e nemmeno Atena, che non si sarebbe mai sposata, e che rifuggiva dal letto nuziale. Inoltre Afrodite avrebbe potuto portare Elena a Ilio, rimanendo seduta in cielo, senza bisogno di andare con Paride a Sparta. La colpa fu dunque solo di Elena, che, vedendo Paride, si innamorò di lui, e volle seguirlo nella città piena d'oro dei frigi, perché non le bastava più il palazzo di Menelao per la sua smania di lusso. Si tradiva poi, nell'affermare che era stata condotta via con la forza: nessuno infatti l'aveva udita gridare. E quando era giunta a Troia, e gli argivi, seguendola, avevano portato la guerra, si divertiva a lodare Menelao, qualora vincessero i greci, se invece avevano buona sorte i troiani, si schierava con questi. Si accompagnava al successo, non ai meriti della virtù. Di certo non era neanche vero che aveva tentato di fuggire da Ilio, infatti nessuno l'aveva mai sorpresa mentre cercava di impiccarsi, o di suicidarsi con una spada, come avrebbe fatto una nobile donna, presa dal rimpianto per il precedente marito. Aveva anche osato presentarsi, più bella che mai, piena d'ornamenti, al cospetto di Menelao, mentre avrebbe dovuto mostrarsi vestita di stracci, misera e tremante, con la testa rasata, umile, memore delle sue colpe. Ecuba conclude il suo discorso chiedendo a Menelao di uccidere Elena, come monito per le altre donne. E la cosa viene ripresa dalle troiane, che invitano Menelao a punire Elena per l'onore suo e della sua casa.

Menelao è d'accordo con Ecuba: Elena deve essere punita perché ha tradito il marito, seguendo un altro uomo.

Elena si getta in ginocchio, pregando Menelao di non ucciderla, ma Ecuba continua a insistere, e Menelao decide di far portare sua moglie sulle navi, perché sia giustiziata ad Argo, ma non salirà sulla sua stessa nave. Ciò detto Menelao ingiunge ai soldati di prendere Elena e poi si allontana.

Le troiane intonano un canto.

Zeus consegnò agli achei l'altare profumato di incenso, la fiamma delle offerte rituali, il fumo della mirra alto nell'aria, la rocca di Ilio, le valli dell'Ida coronate di edera e di neve e la cima colpita per prima dai raggi del sole.

Non ci sono più sacrifici per gli dei, sono solo un ricordo ormai le litanie dei cori, nelle feste notturne al chiaro di luna, fra statue dorate di dei.

Chissà se Zeus , seduto sul trono del cielo, pensa alla città dissolta nell'impeto ardente del fuoco. I morti errano senza tomba, insepolti. Le navi alate porteranno le donne ad Argo, fra le mura di pietra dei ciclopi. Presso le porte stanno bambini in lacrime. Ogni donna sta sola, lontano dalla madre, lontano dai suo occhi, sulla nave scura e leggera. Si abbatta il fulmine sulla nave di Menelao, quando da Troia porterà via le donne dalla loro terra, mentre Elena incurante di ogni cosa, si ammira in specchi dorati. Mai possa giungere in terra spartana Menelao, con la sua sposa malvagia, vergogna per la grande Ellade, sofferenza per le correnti del Simoenta.

Giunge Astianatte cadavere, che i danai hanno ucciso, lanciandolo crudelmente dalle rocche. Il canto tace, mentre entra Taltibio, seguito dai soldati, che portano su uno scudo il cadavere del bimbo.

L'araldo si rivolge ad Ecuba: ormai è rimasta solo una nave a riva, ma è pronta a salpare. Neottolemo è partito, e Andromaca con lui, versando molte lacrime mentre si allontanava da Ilio, levando gemiti per la sua patria e salutando la tomba di Ettore. Ha chiesto e ottenuto di dar sepoltura al misero piccolo corpo di suo figlio, prole di Ettore. Il suo scudo di bronzo, terrore degli achei, non sarà mai trofeo nella casa di Neottolomo, lo avrà Astianatte come suo sepolcro, anziché una bara di cedro. Ella chiese di seppellire il figlio avvolto in veli e di consegnarlo nelle braccia di Ecuba, affinché questo suo desiderio fosse esaudito, dal momento che lei non aveva potuto consegnare il figlio alla tomba, a causa della fretta del suo padrone. Dunque, dopo averlo composto, sarà coperto di terra, e sarà levata l'ancora. Al più presto Ecuba dovrà compire ciò che le è stato ordinato, il corpo del bimbo è già stato lavato nello Scamandro, e le sue ferite deterse.

Taltibio va via, per scavare una fossa profonda e poter finalmente partire.

Ecuba fa deporre a terra lo scudo, orrendo spettacolo di dolore.

Furono gli achei a compiere l'atroce delitto, gli achei che ora sono partiti, e lo fecero temendo che un giorno egli avrebbe risollevato Troia caduta. Nemmeno Ettore, con le sue schiere di soldati , poté frenare la rovina. Sul bimbo piombò un'orribile morte: se fosse morto per la città, dopo aver ottenuto giovinezza, nozze e potere, sarebbe stato felice.

Le stesse mura di Ilio avevano squarciato la sua breve vita, le stesse mura alzate un giorno da Febo, e il sangue era uscito dalle ossa spezzate.

Le piccole mani, così simili a quelle del padre, ora giacevano fredde; la piccola bocca, un giorno piena di grida di bambino, ora era muta. Di certo mentiva quando diceva alla nonna che l'avrebbe accompagnata alla tomba, per darle l'estremo saluto, e una folta ciocca di riccioli. E ora lei, vecchia, curva e stanca, senza più patria, senza più figli, seppelliva il suo giovane corpo dilaniato. Un poeta avrebbe potuto scrivere sulla sua tomba che era stato ucciso un giorno dagli achei, per paura: parole vergognose per l'Ellade.

Di suo padre non restava che lo scudo, che lo avrebbe protetto e custodito nel riposo. La sorte non aveva concesso ad Ecuba di potergli dare un ricco funerale. Ecco le donne portano un ornamento di spoglie frigie; i beni che un giorno erano suoi, Elena li aveva portati via insieme con la vita.

Ecco la veste che avrebbe dovuto indossare il giorno delle nozze, e così con lo scudo del padre sarebbe stato sepolto, scudo più degno d'onore delle armi malvagie di Odisseo.

Le donne lanciano in alto i loro gridi, si innalzano amari lamenti, mentre la terra nera accoglie il corpo esanime del bimbo; si ode il canto dei morti, e il dolore crudele, e le donne si percuotono il capo e il petto. Ecuba grida: nella mente degli dei c'era solo la sua fine, non volevano altro. Odiavano Troia più di ogni altra città, erano vani i sacrifici, inutili le preghiere. Ma se il dio non avesse portato la distruzione, gli altri mortali non avrebbero saputo nulla di loro, non sarebbero stati celebrati.

Tutte si recano a seppellire il morto, e a fare le offerte votive, anche se per i morti fa poca differenza ricevere o no ricche offerte, vano orgoglio dei vivi. Le donne intonano: misera colei che ha visto il figlio spezzato e spezzate le grandi speranze della sua vita. Era felice, era invidiato, perché nato da nobili padri, ma ora è morto di morte tremenda.

Si vedono fiaccole, in lontananza: per Troia sta per giungere una nuova sciagura.

Arriva Taltbio, e insieme con lui uomini armati, che portano torce accese.

È stato dato l'ordine di incendiare la città di Priamo, di appiccare il fuoco, di raderla al suolo, dopo di ché gli achei partiranno lieti verso la loro patria.

Le donne troiane andranno verso le navi dei greci al primo squillo di tromba, ed Ecuba le seguirà: il destino l'ha resa schiava di Odisseo, lontano dalla patria.

Ecuba piange, sta per partire dalla città in fiamme, via dalla patria un tempo grande, ora privata del suo nome glorioso. Invoca gli dei, ma loro non l'ascolteranno, come mai l'hanno ascoltata. Vorrebbe correre al rogo: la cosa più bella per lei è morire con la patria che brucia. Ma i soldati la fermano, deve essere consegnata ad Odisseo, a lui deve andare in sorte. E la donna invoca Zeus: la città di Troia, da lui generata, che è ormai perita, non è più.

Risplende Ilio, e ali nere di fumo si innalzano dalla città; la rocca è incenerita dal fuoco, va in rovina la terra dei frigi, crollano le sue case, arde il palazzo, trafitto da lame di fuoco.

Ecuba si piega al suolo, percuotendo la terra con le mani tese, tutte le donne la imitano, posando a terra il ginocchio, invocando gli sposi infelici negli inferi: stanno per essere portate via, e gridano tutto il loro dolore, giungeranno schiave in terra straniera, lontano dalla patria. Ecuba invoca Priamo, morto, senza tomba, senza persone care, senza sapere nulla delle sciagure di sua moglie, con gli occhi velati dalla morte nera, a causa di un'empia uccisione. Le dimore degli dei, la cara città, sono devastate dalla fiamma omicida, presto cadranno a terra senza più un nome; la polvere, innalzandosi alta, celerà le rovine alla vista, il nome di Troia scomparirà, non c'è più la città infelice. Così crolla con rumore assordante, l'alta rocca, trema tutta la città, tutta la terra è scossa. Ecuba si avvia, con membra tremanti, verso il giorno di dura schiavitù della sua vita; sparirà senza nome, nel deserto invisibile del nulla; resterà solo l'eco del suo lamento, un flebile canto per quelli che verranno.                        






Già nella prima scena (vv. 1-47) delle Troiane, possiamo notare una delle novità strutturali apportate da Euripide alla tragedia: il deus ex machina. Questa funzione viene assunta da Poseidone e da Atena, che introducono la tragedia, e progettano una severa punizione per gli achei, colpevoli di non aver rispettato gli dei, e di aver distrutto la sacra rocca di Troia.

Come in altre tragedie di Euripide, la parte espositiva del prologo è resa dalla divinità, ma la presenza di Ecuba, prostrata sulla scena fin dall'inizio del dramma, e il quadro desolante della rovina di Troia, secondo molti documenti una delle scene di ambientazione più richieste per questa tragedia, conferiscono a questa introduzione un carattere insolito.

È da notare il fatto che Poseidone, nell'Iliade, appare come alleato dei greci, mentre qui si professa da sempre alleato dei frigi: la sua posizione comunque, è particolare anche nel poema, in quanto è lui a salvare Enea in un passo del XX canto, ed è sempre lui a sentire minacciata la sua fama, a causa del muro innalzato dai greci. Era stato infatti il dio del mare, insieme ad Apollo, a costruire le mura di Troia, per volere di Zeus, che aveva imposto ai due dei di servire, per un intero anno, il re Laomedonte.

Poseidone, nel suo discorso, ricorda anche come Ilio sia caduta grazie agli inganni di Afrodite, che aveva suggerito ad Epeo Focese, di fabbricare il cavallo di legno. Probabilmente, Euripide trae i riferimenti alla storia del cavallo di legno dai poemi del Ciclo, dove erano narrati più diffusamente.

Il dio riferisce anche della morte di Priamo, re di Troia, ucciso da Neottolemo, figlio di Achille, presso l'altare di Zeus posto al centro del palazzo; quest'uccisione è richiamata spesso nel corso della tragedia. Un altro episodio, qui citato, che ricorre spesso, è l'inimicizia delle due dee, Era ed Afrodite, nei confronti dei troiani. Inimicizia che risale al giudizio di Paride, che scelse Afrodite come la più bella fra le dee. Interessante anche il motivo dell'abbandono da parte degli dei della città saccheggiata.

Nel prologo, gli spettatori vengono anche informati di fatti che verranno svelati in seguito, durante  il corso della tragedia: la morte di Polissena, ad esempio, immolata sulla tomba di Achille, che l'aveva chiesta in sacrificio, apparendo dopo la sua morte.

Il discorso di Poseidone, è caratterizzato da una partecipazione emotiva alla vicenda tragica della fine di Troia: le informazioni fornite dal dio sono date con una tonalità molto espressiva. Così anche la presentazione di Ecuba e l'accusa ad Atena.

Nella seconda scena (vv. 48-97),  nel dialogo con la dea, irata per l'insulto subito dai greci, Poseidone alla fine assume un atteggiamento aggressivo. Sempre in questo dialogo, avviene la rappacificazione tra le due divinità: è probabile che un discorso così articolato sia invenzione di Euripide. In questo tratto sembra presente una critica agli dei e al loro mutevole comportamento nei confronti degli uomini. Gli ultimi versi infine, descrivono il comportamento empio dei greci, abbandonatisi al saccheggio di Troia, ma in realtà Euripide vuole rappresentare il comportamento degli ateniesi nei confronti delle città più deboli, durante la guerra del Peloponneso.

Una volta che i due dei si sono messi d'accordo sulla punizione da infliggere agli achei, si può aprire la terza scena (vv. 98-152), nella quale la protagonista è Ecuba.

Dopo l'uscita di scena delle divinità, Ecuba esprime il suo dolore intonando un lungo canto, nel quale lamenta l'amara sorte che l'ha colpita, portandole via tutto ciò che aveva.

Questo è solo il primo dei numerosi canti di Ecuba, ma già dalle sue parole traspare l'immenso dolore che dilania il suo animo nel profondo. Dolore reso con arte, attraverso le bellissime metafore, le successioni di domande e i passi di alta poesia.

A questo punto faceva il suo ingresso il coro composto da donne troiane, uscendo da una delle tende che dovevano essere poste sullo scenario per rappresentare l'accampamento acheo. Si apre così la quarta scena (vv. 153-234), nella quale Euripide adotta la particolare scelta di introdurre il coro, dividendolo in due semicori, che entrano in momenti successivi: il primo semicoro si affretta ad arrivare perché ha udito il grido lamentoso di Ecuba, e dopo un breve dialogo con questa, chiama fuori dalle tende il secondo semicoro.

Durante il dialogo fra Ecuba e il primo semicoro, Euripide fa emergere le paure delle donne troiane per la loro sorte: non sanno né cosa le attende, né, se saranno schiave, a chi saranno assegnate. Qui si fa anche menzione, per la prima volta, di Cassandra, che viene chiamata dalla madre (v. 172) "vergogna per gli argivi", si può notare quindi, il sentimento di disagio che nutre Ecuba verso la sua particolare figlia. La donna arriva al punto di non volerla vedere, per non "aggiungere dolore al suo dolore": si tratta di una formula tipica in tragedia, è invece atipico che si chieda la non entrata di un personaggio.

Dal dialogo con il secondo semicoro, si comprende come le donne troiane uscite dalle tende per ultime, abbiano sentito le parole del primo semicoro, che erano dirette a loro. Non hanno invece sentito nei particolari il dialogo tra Ecuba e il primo semicoro, cosicché si aggiungono altre domande a quelle che sono già state rivolte all'anziana donna. Ecuba poi, esprime la sua paura di divenire schiava, e di dover custodire le porte, o fare da nutrice per i bambini. Il coro si riunisce in un canto, con il quale l'autore propone il tema del lamento sulla sorte dei propri cari, l'incertezza del destino di schiavitù che attende le donne, in un paese straniero, e la menzione di Atene. Un altro motivo tipico del nuovo stile della lirica euripidea, ripreso anche nelle tragedie più tarde, è il vagheggiamento di terre lontane, nell'espressione del desiderio, da parte delle donne del coro, di protendersi verso un mondo distante, diverso da quello presente. Dopo questo passo di grande lirismo, viene annunciato l'ingresso di Taltibio, che si affretta a portare nuove notizie da parte degli achei sulla sorte delle troiane. Così si apre la quinta scena (vv. 235- 307).

Comincia qui un dialogo drammatico, fra l'araldo, che comunica la sorte delle troiane, ed Ecuba che, in versi lirici, pone ansiose domande, sfogando poi il suo dolore, a conclusione del duetto, in un breve ma toccante monologo. Durante il dialogo verrà riferito ad Ecuba il destino di sua figlia Cassandra, che è stata scelta da Agamennone come schiava per la moglie Clitemnestra, e come amante: la profezia fatta in seguito da Cassandra svelerà quale sorte la attende realmente. Taltibio rivela anche la sorte triste di Polissena: "Alla tomba di Achille le è stato imposto di servire" (v. 263), affermazione piuttosto ambigua, che cela la reale fine della fanciulla, morta in sacrificio sulla tomba del condottiero, ma la verità sarà compresa da Ecuba solo nel corso del dialogo con Andromaca. La notizia che però sconvolge l'anziana donna, è che Odisseo l'ha ottenuta in sorte come schiava. Per comprendere i sentimenti della donna sono fondamentali i versi che delineano la valenza negativa del personaggi di Odisseo, versi che evidenziano in particolar modo un attacco alla sua abilità oratoria, che costituisce un tratto peculiare della personalità dell'eroe. La conclusione di questa sequenza avviene in modo brusco, con l'improvvisa apparizione di un bagliore dietro le tende, come se fosse stato acceso un fuoco, ma si scoprirà presto di cosa si tratta in realtà. Qui comincia la sesta scena (vv. 308- 510) 

Cassandra irrompe sulla scena, portando una torcia, e canta e balla in modo sfrenato, animata da una felicità che nel contesto appare piuttosto forzata, quasi grottesca. È un personaggio in netto contrasto con il resto, con la dolorosa situazione reale, e questo fa sì che la rappresentazione della sua pazzia riesca perfettamente, fino al punto che lo stesso spettatore trova difficile prenderla sul serio. Subito dopo l'inno cantato da Cassandra, si ha un monologo di Ecuba, che evidenzia il rapporto di dissociazione esistente tra le due: i due monologhi sono messi uno di seguito all'altro proprio per sottolineare i loro atteggiamenti contrapposti.

Cassandra chiede ad Ecuba di danzare, ciò che Ecuba non vuole, e soprattutto, data la sua tarda età, non è in grado di fare. È significativo il fatto che Ecuba inizi il monologo seguente non rivolgendosi direttamente a Cassandra, ma con un'esortazione ad Efesto, e solo in un secondo momento parla direttamente alla figlia, con una breve espressione di rimpianto, a cui segue il tentativo di placare Cassandra, e poi un'osservazione, molto accorata, di rimprovero nei confronti della figlia: in realtà non esiste un vero e proprio dialogo fra le due, non c'è risposta di Ecuba al lungo discorso che fa Cassandra, la madre resta in silenzio finché la figlia è sulla scena, né c'è tra di loro un saluto nel momento in cui Cassandra lascia la scena. Certo non è in discussione un rapporto affettivo tra madre e figlia: il crollare a terra senza voce di Ecuba, all'uscita di Cassandra, è indubbio segno di dolore, ma è anche uno strumento di cui l'autore si serve per evitare il dialogo fra le due.

C'è un momento in cui Cassandra recupera, dopo il delirio, le proprie facoltà mentali e, dopo aver predetto le sciagure che incombono sulla casa di Agamennone, dimostra in cosa a suo parere, i troiani siano più felici degli achei: Euripide rappresenta Cassandra come una profetessa che non solo rivela il futuro, ma pronuncia anche un pezzo argomentativo, dove riflette su questioni già note agli spettatori, non utilizza quindi le sue arti profetiche; singolare è il procedimento per cui dichiara di volersi tenere fuori, per un certo periodo di tempo, dal delirio. La profetessa scaglia accuse pesanti contro i greci, colpevoli di aver scatenato la guerra, uccidendo innumerevoli uomini a causa di una sola donna, Elena, che a suo parere era anche stata consenziente nel seguire Paride. L'atto di accusa contro i greci, con ogni probabilità presuppone il punto di vista di Euripide, contrario alla spedizione degli ateniesi contro l'isola di Melo. Cassandra sostiene in sostanza che è meglio morire in difesa della patria, fra i propri cari, piuttosto che in terra straniera

La donna sembra rientrare nel suo personaggio profetizzando la morte della madre, e rievocando in rapida sintesi alcune delle peripezie che dovrà affrontare Odisseo, senza seguire l'ordine del racconto omerico. Vengono ricordati: il passaggio nello stretto di Messina, tra Scilla e Cariddi; l'avventura con il ciclope Polifemo e la maga Circe; i lotofagi, presso i quali molti compagni di Odisseo persero la memoria e il desiderio di tornare in patria; il terribile banchetto con le vacche sacre del Sole, che un giorno emetteranno suoni dalle loro carni; si allude poi alla discesa agli Inferi, alla contesa con i Proci ad Itaca e allo scontro con i parenti degli uccisi. Cassandra, volendo concludere con un tratto ad effetto, esagera di molto le difficoltà che Odisseo troverà a casa.

a donna profetizza nuovamente la sua stessa morte e quella di Agamennone e, con grande effetto teatrale, getta via le bende sacre ad Apollo, prima di affrettarsi verso il suo destino, e verso la morte. Non appena Cassandra esce di scena, Ecuba, distrutta dal dolore, cade al suolo, e sfoga le sue sofferenze in un monologo toccante e commovente, con cui piange tutto ciò che ha perduto: i figli, il marito, la patria e la libertà.

La settima scena (vv. 511 - 567) corrisponde ad uno splendido canto del coro.

La distruzione di Troia viene cantata attraverso immagini metaforiche, suggestive, di forte impatto emotivo. Le troiane in lacrime raccontano il giorno nefasto in cui fu portato l'enorme cavallo di legno sulla rocca di Ilio, e di come in quel giorno, tutte loro furono prese come preda di guerra degli argivi.

I troiani, ignari, festeggiavano la fine della guerra e delle sofferenze; le giovani e i vecchi uscivano dalle case in festa, non sapendo che per loro si preparava la rovina, e tutti osservavano ammirati quello che per loro sarebbe stato uno strumento di morte. E mentre piano scendeva la notte e tutti si avviavano felici, insonnoliti a causa dei bagliori dei fuochi, a dormire sogni tranquilli nelle proprie case, si levò un alto grido, terribile, sanguinoso, lungo la città, e tutti sgomenti si voltavano verso la rocca, mentre si compiva l'inganno di Atena. Ecuba si rialza, vedendo arrivare Andromaca su un carro, con Astianatte, e inizia l'ottava scena (vv. 568 - 708).

Il carro si ferma e inizia un dialogo fra Andromaca ed Ecuba, nel quale rievocano ancora una volta i loro mali e le loro sofferenze. Le due donne invocano gli sposi: per prima Andromaca chiede ad Ettore di venirla a salvare, giungendo dall'Ade; Ecuba invece, ponendosi su un diverso livello espressivo, chiede a Priamo di portarla con sé negli Inferi.

Segue un'accusa a Paride, ed è la prima volta che nella tragedia vengono date a lui le colpe delle sciagure dei frigi: Andromaca si dimostra abbastanza brutale, dispiacendosi, di fronte ad Ecuba, del fatto che Paride non sia morto prima di causare tanto dolore e sofferenza al suo popolo, ma d'altra parte, la stessa Ecuba non può non riconoscere il destino di morte legato a suo figlio Paride.

Il tema globale dl dialogo resta comunque quello del lamento: Ecuba afferma, come poco prima, che sia preferibile morire, piuttosto che dover soffrire tante amarezze:

" Lacrima da lacrima sgorga, e solo chi è morto dimentica i dolori " (v. 605).

Eppure le lacrime sono così dolci per coloro che stanno male, e i lamenti sono come poesia.

Qui Ecuba, parlando degli dei, che innalzano o abbattono gli uomini a loro piacimento, esprime l'opinione che Euripide aveva degli dei mitici, raffigurati dalla tradizione come figure antropomorfe con passioni e vizi peggiori di quelli degli uomini, e comportamenti di certo non consoni per divinità giuste e sapienti.

È in questi versi che Ecuba apprende la morte di sua figlia Polissena, e così le risulta chiara l'enigmatica affermazione di Taltibio, che l'aveva definita serva della tomba di Achille.

È contraddittoria, rispetto alle parole usate da Ecuba nel dialogo precedente, la posizione che viene ad assumere ora, riguardo alla morte: quando Andromaca afferma che Polissena, da morta, ha avuto un destino migliore del suo, Ecuba ribatte dicendo che il vivere è meglio del morire, perché nel primo ci sono speranze, ma nel secondo c'è solo il nulla. Qui Andromaca comincia un discorso nel quale esalta l'assenza di dolore, e di ogni altra sensazione, che caratterizza la morte: di certo è preferibile morire e dimenticare, piuttosto che vivere e soffrire. Nello stesso monologo si trova un passo molto interessante che descrive quali erano gli obblighi di una donna, e qual era il modello di virtù femminile da imitare: Andromaca stessa dice di essersi sempre attenuta a questo modello, ma la sua fama di donna virtuosa, giungendo all'esercito Acheo, aveva causato la sua rovina, dal momento che era stata scelta come amante da Neottolemo, il figlio di Achille, ovvero il figlio di colui che era stato l'assassino di Ettore, suo sposo.

Interviene nuovamente, a questo punto, Ecuba, che cerca di rincuorare la nuora, che a differenza sua è ancora giovane e bella, e può continuare a vivere e a sperare, mentre a lei, ormai vecchia e stanca, dopo tanti dolori resta un'unica speranza: una morte serena, che la strappi alle insidie della vita. Può ben permettersi alla sua età, di lasciarsi trascinare dalla corrente dell'esistenza, e dagli atroci scherzi del destino crudele.

In verità le donne credono di poter ancora confidare sulla speranza che Troia possa un giorno a rivivere, speranza riposta nel piccolo Astianatte, e speranza, come ancora le donne non sanno, destinata purtroppo a soccombere, insieme alla sua giovane vita.

A portare loro la ferale notizia, sarà ancora una volta Taltibio, il cui arrivo, annunciato da Ecuba, dà inizio alla nona scena (vv.709-798).

Subito l'araldo si rivolge ad Andromaca, e già dall'inizio del discorso si comprende che non è latore di buone notizie, cosa della quale è presaga la stessa donna. Taltibio è incerto, e qui si consuma il suo piccolo dramma: non è uomo dal carattere abbastanza forte da poter recare simili annunci. Andromaca certo non immagina cosa è stato deciso per suo figlio, non è conscia del fatto che le restano molti mali da soffrire, non può arrivare al pensiero che i greci, per quanto odiosi, siano capaci di simili atrocità: dopotutto essi stessi si ritengono il popolo più civile sulla terra. Così, quando finalmente comprende, tutta la sua vita viene distrutta in poche parole, come quando una tempesta sconvolge un mare già percorso da onde. La donna si chiude nel dolore, è come se non sentisse più le parole rivoltele da Taltibio, che tenta invano di consolarla, con modi a dire il vero bruschi: Andromaca non sente più niente, se non il suo dolore. E la sofferenza prorompe fuori dalla sua bocca, in un torrente di parole, urla e lamenti che lasciano i sensi sconvolti, per non sentir più parlare nessuno, per restare sola con se stessa e con le proprie lacrime, sfogo penetrante di una madre distrutta. Solo posando gli occhi sul figlio, così piccolo, così indifeso, stretto alle sue vesti, si abbandona, come se insieme alle lacrime fosse uscita dal corpo la sua stessa anima, come se le fosse stata tolta la sua stessa vita, come se il suo corpo dovesse essere lanciato dalle mura insieme a quello del figlio, abbandonato senza speranza alla caduta e al vento.

E la madre lascia il suo bambino nelle mani dei suoi carnefici, dopo averlo stretto a sé, dopo averlo abbracciato, dopo aver sentito per l'ultima volta il contatto della sua pelle, il profumo del suo respiro, su di sé. Taltibio sembra riluttante a condurlo via, a separarlo per sempre da sua madre, a sacrificare alla guerra un'altra vittima innocente. Il lamento di Ecuba, rimasta ormai sola e senza una ragione di vita, chiude questo brano drammatico, e un altro magnifico canto si alza, andando a formare la decima scena (vv. 799-859).    

Il coro di giovani troiane canta della prima distruzione di Troia, così lontana nel tempo. Sembra apparentemente una divagazione senza nessuna attinenza con l'intreccio della tragedia, ma Euripide si serve di questo spazio per staccare l'attenzione dello spettatore dagli eventi, inducendolo a sostare, a riflettere, e a prendere una pausa, aumentando contemporaneamente la tensione, data la piega cruciale che stanno prendendo le vicende.

Questo canto serve inoltre a rimarcare la crudeltà degli dei, che non si curano della situazione tragica dei frigi e della stessa Ilio, e abbandonano a sé stesse le donne che un tempo avevano offerto loro tanti doni.

Dopo la dolce poesia e la grazia che caratterizzano questo passo, si torna alla situazione reale, con l'ingresso in scena di Menelao, che apre l'undicesima scena (vv. 860-1059)

Egli non vuole ammettere che la guerra di Troia sia stata scatenata per causa di una sola donna, e dunque afferma di essere giunto con gli altri Achei, per punire un traditore dell'ospitalità, che non viene nominato, ma è chiaro a tutti che si tratta di Paride. Il motivo addotto da Menelao è comunque piuttosto futile, e probabilmente serve a rimarcare l'opinione di Eschilo, secondo il quale ogni guerra era da considerare inutile, e soprattutto dannosa. Il discorso di Menelao, fa da introduzione al suo incontro con Elena, che viene trascinata sulla scena dai soldati, perché venga giustiziata.

Sembra però che Menelao non intenda compiere quello che dovrebbe essere il suo dovere, per riguardo almeno verso le vittime della guerra, di entrambe le parti, che hanno sofferto ingiustamente per causa di sua moglie. Il giudizio viene così rimandato: Elena sarà giustiziata, almeno così viene detto, quando si giungerà ad Argo.

La parte più significativa di questa scena, è senza dubbio quella dei due monologhi di Elena ed Ecuba, efficacemente contrapposti dall'autore, che li colloca uno di seguito all'altro.

Il primo è quello di Elena, che tenta, assurdamente, di dimostrare la propria innocenza. Ma già il fatto che sia posto per primo, indica che sarà più facilmente smontato.

Preso da solo, il ragionamento sembra filare: la rovina di Troia è Ecuba, perché è da lei che Paride è nato. Ma poiché i suoi genitori intendevano ucciderlo, fu solo per volere degli dei che continuò a vivere, perché fosse adempiuto il destino di Troia. Poi, fu sempre il destino a far si che Paride, giudicando le tre dee, scegliesse il dono di Afrodite, che aveva promesso al giovane l'amore di Elena, pur di essere scelta come dea più bella. Così la donna, si era ritrovata a dover seguire Paride, pur senza volerlo, e poi, una volta giunta a Troia, dopo che si era scatenata la guerra, aveva tentato più volte di fuggire, per fermare quel massacro, ma non era mai riuscita nel suo intento.

Ecuba a questo punto, con il suo brillante discorso, riesce a distruggere le tesi sostenute da Elena, rivelando, dietro alle parole suadenti dell'avversaria, delle argomentazioni poco valide, perché basate sull'affidamento al mito, e quindi al pregiudizio, segno di una mentalità antiquata, incapace di ragionare con la propria testa. L'autore rivela in questo modo il suo pensiero, ribaltando il mito, confutando la tradizione con l'ausilio della ragione. Se gli dei, così potenti, avessero voluto distruggere Troia, l'avrebbero potuto fare senza bisogno di scatenare una guerra così violenta, la colpa non era dunque da scaricare sulla divinità, ma doveva essere ricercata in comportamenti sbagliati degli uomini. Elena, prima di tutto, avrebbe dovuto restare fedele al marito, e non seguire Paride. Era indubbio anche il fatto che fosse stata rapita, dato che nessuno l'aveva sentita gridare. Non era vero che aveva tentato la fuga da Troia, Ecuba infatti aveva proposto più volte di aiutarla, ma lei non aveva mai accettato, perché non voleva andar via.

Alla fine lo stesso Menalao dà ragione alla donna, ma non di meno non punisce ancora Elena. Il brano si chiude così, con Menelao che si allontana insieme ai suoi soldati, che trascinano Elena alle navi, e si apre la dodicesima scena (vv 1060 - 1122) .

Inizia un altro canto che, come gli altri inni di questa tragedia, è incentrato intorno al destino di Troia: in questo caso è notevole la rievocazione nostalgica della felicità di un tempo che si contrappone allo stato di desolazione attuale. Tutto è perduto, tutto è caduto in mano ai nemici, gli altari di Ilio non riceveranno più offerte per gli dei, né si sentirà più il profumo dell'incenso o il canto dei cori durante le feste. È morta la città, dissolta dal fuoco, e sembra che gli dei non si curino della sua sorte. È possibile sentire in queste parole la disperazione delle donne rimaste sole, senza mariti, ormai schiave; e delle giovani, lontane dalle madri, perse in terre straniere. Amaro è l'augurio di un naufragio per le navi di Menelao, portatore della guerra. E il canto si conclude tra note dolenti, con l'arrivo dei soldati che trasportano il corpicino morto di Astianatte. Qui comincia la tredicesima scena (vv. 1123 - 1249 ).

Giunge Taltibio, e con lui i soldati che portano Astianatte. L'araldo si rivolge ad Ecuba, come sempre in modo brusco, ma dà prova di compassione ricordando il pianto di Andromaca mentre partiva dalla patria: l'ultimo desiderio della donna era stato quello di dar sepoltura al suo povero bambino, prole di Ettore. Andromaca ha chiesto di consegnare il corpo nelle mani di Ecuba, perché sa che in questo modo i suoi desideri saranno esauditi. Una volta che Taltibio è uscito di scena, Ecuba fa deporre a terra lo scudo di Ettore sul quale era stato sistemato il piccolo Astianatte. Così commovente il pianto della nonna, che vorrebbe dare al bambino almeno un bel funerale, ma non è in grado di fare neanche questo, così, sola, senza nessuno che l'aiuti. Il figlio di Ettore non aveva potuto neanche provare cosa fosse la felicità, non aveva potuto ottenere una giovinezza spensierata, le stesse mura dei padri lo avevano ucciso. Nessun dolore poteva essere più grande di quello della donna che, dopo tante sofferenze patite, ora era costretta, vecchia e stanca, a seppellire suo nipote, morto nel fiore degli anni. Il corpo viene rivestito con i vestiti che dovevano servire ad Astianatte il giorno del matrimonio.

Lamentosi si elevano al cielo i canti funebri delle donne, intrecciati a quello di Ecuba, ancora più alto. Tutte si gettano a terra, battendo le mani al suolo, percuotendosi i capi e i petti, con grande dolore; infine Ecuba ingiunge ai soldati di portar via il cadavere sullo scudo, unico dono del padre, e di seppellirlo.

Le donne troiane vedono giungere qualcuno, e scorgono bagliori di torce. Per Troia sta per giungere una nuova sciagura: si apre la quattordicesima scena (vv. 1260 - 1332).

Arriva l'ultima, tremenda notizia per le troiane: Ilio sarà rasa al suolo, con l'alta rocca: alle sue mura saranno appiccate le fiamme distruttrici. È l'estremo, il culmine di tutti i mali di Ecuba: va via dalla patria, Troia sarà scomparsa per sempre.

È sublime la bellezza della città, che risplende tra le fiamme, mentre il fumo si innalza coprendola pian piano alla vista: Troia svanisce tra la polvere, con rumore assordante; trema la terra, tremano i corpi delle donne che si avviano miseramente alle navi.








Ecuba è il personaggio principale di questa tragedia. È lei che rappresenta il dolore di tutte le donne troiane, e la personificazione della tragedia di Troia.

Era la moglie di Priamo, era regina, aveva conosciuto tutte le gioie della vita. Aveva generato un'immensa prole di figli, "non solo per forza, ma anche per numero, i migliori dei frigi, nessun'altra donna può vantarne di eguali." ( vv. 475 -478 ), aveva amato e cresciuto le sue figlie, per poi, d'improvviso, perdere tutto.

Durante la Tragedia, i suoi mali vengono svelati poco a poco, uno dopo l'altro, dando quasi l'impressione che la donna debba soffrire sciagure infinite, ed è lei stessa ad affermare più volte che ai suoi mali si sommano continuamente altri mali, fino a che, con la distruzione di Troia, si raggiunge il culmine.

Ecuba è davvero una donna distrutta dalla vita, annientata dal peso del dolore, eppure, in lei, si nasconde una grande forza d'animo: nonostante sia sola, nonostante sia ormai anziana, e stia per diventare serva dell'uomo che ha distrutto la città sulla quale un tempo regnava, riesce comunque ad apprezzare quello che le rimane: la sua vita, e la speranza di viverla.

In questo il personaggio di Ecuba è fortemente contrapposto a quello di Andromaca, fatto che risulta evidente dal dialogo (vv. 630 - 705 ) nel quale Andromaca sostiene che sia preferibile la sorte dei morti rispetto alla sua, perché questi essendo morti, non possono più sentire il dolore, ed è come se non fossero mai nati, mentre Ecuba replica che nella morte c'è il nulla, mentre nel vivere ci sono ancora speranze.

Nelle battute di Ecuba è evidente una grande capacità espressiva, che connota la sua figura di personaggio pensante, caratterizzato da una solida razionalità, utilizzando la quale riesce a controbattere agli argomenti tradizionali, soprattutto quelli dei miti, che riscuotevano maggior consenso anche tra gli spettatori.

Un esempio lampante di questa sua prerogativa, è data dalla sua replica al discorso di Elena (vv. 969-1032), nel quale dimostra di non lasciarsi ingannare dall'abilità oratoria, né dalla voce suadente della figlia di Zeus (e per questo alcuni critici la considerano portavoce del pensiero di Euripide), smascherando l'incantesimo della parola, rovesciando e analizzando la vicenda epica e invalidando la sua abilità retorica. In questo modo vengono alla luce delle inesattezze nel ragionamento di Elena: gli argomenti portati sono superati, e pieni di pregiudizi, senza contare che la colpa della sventura dei troiani viene data agli dei, affermazione che evidenzia una mentalità antiquata, e quindi facilmente contestabile.

Tuttavia, questa capacità di contestazione di Ecuba, non è sempre manifesta.

La maggior parte delle sue battute è costituita da lamenti per i mali vissuti e per il bene perduto, o invocazioni agli dei e ai suoi cari scomparsi, Priamo primo fra tutti.

Il suo personaggio è sempre presente sulla scena, come se non volesse abbandonare fino all'ultimo la sua patria, per seguire il proprio destino. È significativo a questo proposito il passo (vv. 1282-1283) nel quale la donna, vedendo alzarsi le fiamme su Troia, vorrebbe correre verso il rogo, per bruciare come brucia la sua città. Interessante è anche la tradizione mitica secondo cui Ecuba muore a Troia, senza aver mai abbandonato la sua città.

Lo stesso dramma si conclude quando la donna, che si può quindi considerare vero e proprio simbolo delle sofferenze di Troia, fa la sua prima, ed ultima, uscita.









La figura di Cassandra è molto singolare.

Figlia di Ecuba, era anche sacerdotessa di Apollo, che si era invaghito di lei, e le aveva dato in dono l'arte profetica, ma poi, quando lei aveva rifiutato di concedersi al dio, questi l'aveva punita facendo in modo che non fosse mai creduta da nessuno.

E in effetti doveva risultare difficile credere alle profezie vaneggianti della figura descritta da Euripide. Infatti, già dal suo ingresso, o meglio dalla sua irruzione sulla scena, Cassandra appare come un personaggio grottesco, quasi comico, ma forse e in questo che sta la sua tragedia. Danza e balla in circolo, brandendo la fiaccola come un arma, con il rischio di far del male a qualcuno, o di farsene lei stessa, finché la madre, disperata per il comportamento di sua figlia, fin quasi a provarne vergogna, riesce a farsi consegnare la torcia.

Il rapporto tra Ecuba e Cassandra è distaccato, la madre si comporta con la figlia come con una bambina, alla quale bisogna sempre dar ragione, e far capire con garbo ciò che è giusto o sbagliato. Eppure l'amore verso la figlia è evidente, quando la donna piange per il destino che le è toccato, o si dispera quando la portano via.

Questo è anche un personaggio pieno di apparenti contraddizioni: inizialmente sembra essere felice per essere stata scelta da Agamennone, ma poi ammette di portare rancore all'atride, e afferma che cadrà per mano sua, forse perché si identifica nella mano che lo colpirà, quella di Clitemnestra, oppure perché senza di lei non si potrà avverare la profezia.

Cassandra, oltre a prevedere la morte di Agamennone, fa altre due previsioni, che si riveleranno esatte, ma dette in maniera così confusa, che come al solito nessuno le presterà attenzione: la morte della madre, e il destino di Odisseo.

Bisognerebbe domandarsi perché Euripide abbia rappresentato Cassandra in questo modo:

forse fu indotto a pensare che Apollo, per far sì che non fosse creduta, l'avesse resa folle, oppure, che la sua follia fosse nata proprio dal fatto di non essere creduta, o ancora si potrebbe semplicemente trattare di delirio profetico, ma è anomalo il fatto che questo delirio perduri anche quando la donna non profetizza.

Il dubbio nasce dal fatto che effettivamente c'è un punto nella tragedia (vv. 366 e segg. ), nel quale Cassandra si tiene fuori dal delirio, volontariamente, nonostante, dice, sia posseduta dal dio, e in questo spazio dimostra come per lei siano stati più felici i troiani, combattendo per la patria, rispetto ai greci, che erano morti lontano dalle loro famiglie.






Nelle Troiane, il personaggio di Elena, è quello dell'antagonista per eccellenza.

Su di lei si sfogano le ire di tutte le donne, ingiustamente fatte schiave per causa sua.

Anche i suoi tentativi di difesa vengono brillantemente smontati da Ecuba, che la fa apparire ancora più infida e meschina, vergogna per il suo sposo, Menelao, e per i suoi fratelli, i di oscuri, Castore e Polluce (anche se nella tragedia viene nominato direttamente solo il primo, il gemello divino): per Ecuba non può essere vero che una donna come Elena sia figlia di Zeus.

Il suo personaggio è di difficile interpretazione, a causa di quello che da molti critici è definito il "problema della colpa". Il dubbio sta nel considerare Elena innocente, quindi non colpevole delle disgrazie dei troiani, oppure al contrario causa della rovina di Troia.

Il tema viene affrontato anche da Euripide, soprattutto nel dibattito (vv. 914-1032) tra Elena ed Ecuba, dal quale quest'ultima sembra uscire vincitrice.

Sembra quindi che Euripide si schieri contro Elena, giudicandola colpevole, smontando la tesi secondo la quale la colpa doveva essere attribuita alle divinità.

Il discorso e le parole seducenti di Elena, le argomentazioni addotte, indiscutibili per molti, perché riferite al mito, cadono di fronte all'uso della ragione, che sconfigge l'abilità oratoria.

Euripide non rivela quale sarà la fine di Elena, ma ci informa esclusivamente delle intenzioni di Menelao, di portarla in patria per ucciderla.

Proprio come vorrebbero tutte le troiane, Ecuba soprattutto, che la giudica una donna immorale e falsa, sia per il suo modo di presentarsi al marito, "più bella che mai", anziché in atteggiamento penitente, (vv. 1022 e segg.), sia per il fatto che non vuole assumersi le colpe della rovina di Troia.





Anche ad Andromaca, la moglie di Ettore, i fati non riservano una sorte benevola.

La donna viene presa in moglie da Neottolemo, figlio di Achille, uccisore del suo sposo.

Da lui è stata scelta per le sue grandi virtù, la fama delle quali era arrivata fino all'esercito acheo: ciò per cui un tempo era stata lodata, ora era la sua rovina.

C'è un passo (vv. 645 e segg), a questo punto, molto singolare, in cui Andromaca descrive quale comportamento doveva tenere una donna virtuosa: non uscire di casa, non spettegolare con le altre, sapere "in che cosa vincere lo sposo, e in che cosa lasciare a lui la vittoria". La donna con queste parole si vanta, in un certo senso, di essere la donna ideale, ma si lamenta subito dopo, che fu proprio questo a causarle tanti dolori.

Dopo aver perso ciò che aveva, la sua casa, il marito, perde alla fine anche l'unica sua fonte di gioia, il suo unico figlio, Astianatte, che secondo Odisseo doveva essere ucciso, perché non diventasse un grande condottiero come il padre..

Andromaca però si dimostra più fragile di Ecuba, perde ogni speranza, non riesce a sostenere il peso del dolore. La notizia portata da Taltibio la sconvolge, si sente carica di dolori, la più misera di tutte, non rendendosi conto che è ben più grande il dolore di Ecuba, che ha perso molto di più. Certo le sue sventure sono sempre gravi, e difficili da sopportare: Astianatte è tutto ciò che le rimane di Ettore, tutto ciò che la lega ancora a Troia, e la morte orribile che gli viene riservata è per lei un colpo di grazia.

Il suo canto (vv. 740-779) per la morte del figlio è un passo di grande commozione, il più sentito dell'intera tragedia, nel quale si mostra tutto il dolore di una madre, tutta l'angoscia e la profonda disperazione. La drammaticità tocca il punto più alto nel momento in cui la donna posa lo sguardo sul figlio, che si stringe alle sue vesti con le piccole manine, in lacrime, come un "pulcino sotto le ali della madre", e lei lo prende tra le braccia e lo stringe a sé per l'ultima volta.


















Taltibio, araldo dell'esercito acheo, è con Menelao l'unico personaggio maschile presente nella tragedia, e con lui il rappresentante e il tramite tra i vincitori e le Troiane sconfitte.

Per quanto occupi un ruolo subalterno rispetto alle donne, incontrastate protagoniste dell'opera, anche la figura del messaggero viene da Euripide delineata in modo impareggiabile, con pochi ma precisi tratti. Non sfugge allo spettatore l'assenza, in Taltibio, di qualsiasi forma di arroganza che ci si attenderebbe da un vincitore: il tono un po' brusco con cui talvolta egli si rivolge alle sue interlocutrici tradisce un modo di fare sbrigativo più che un'effettiva malvagità d'animo; e la sua risposta violenta a Cassandra: "Se non fosse Apollo a sconvolgerti la mente, non rimarrebbero impunite le parole di augurio con cui accompagni la partenza dei miei signori." (vv.408-410) è una naturale reazione alle frasi enigmatiche, e quindi temibili, e agli oltraggi pronunciati dalla sacerdotessa di Apollo contro i capi dell'esercito acheo, suoi diretti superiori. Per il resto, Taltibio ha comprensione e compassione per le prigioniere: forse perché, nella sua condizione di schiavo, è ben consapevole della tristezza e dello squallore insiti nella mancanza di libertà.





In questa tragedia, dominata quasi esclusivamente da figure femminili, il personaggio di Menelao è presentato con tratti che possono addirittura essere definiti comici: tale è la battuta con cui egli replica alla preghiera di Ecuba: "Strane preghiere rivolgi agli dei" (v.889). Così pure, quando Ecuba gli raccomanda di non far salire sulla sua stessa nave Elena per non essere di nuovo travolto dall'amore per lei, la sua risposta. "Temi che sarebbe troppo pesante?" (v. 1050), oltre che indizio di debolezza d'animo, induce indubbiamente al sorriso. Lo connota inoltre un carattere assolutamente poco coraggioso: per quanto egli non rinneghi mai, in presenza di Ecuba, la propria ferma intenzione di uccidere la moglie infedele una volta giunto ad Argo, il mito attesta che mai egli portò a termine il proposito, ma anzi che perdonò Elena e continuò a vivere insieme con lei; e se non le sue parole, di certo il suo atteggiamento, permette di cogliere una scarsa determinazione nella sua completa condiscendenza alle richieste delle donne.














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