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Le norme dell'unione europea




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LE NORME DELL'UNIONE EUROPEA

LE NORME CONVENZIONALI

Norme primarie del sistema giuridico dell'Unione sono le norme convenzionali contenute nei Trattati Istitutivi delle Comunità e negli accordi che successivamente sono stati stipulati per modificare o integrare tali Trattati. Norme primarie il Trattato sull'Unione europea ed il Trattato sul funzionamento dell'Unione europea.

Sullo stesso piano di norme primarie vanno considerati gli Atti del Consiglio che abbisognano di procedure costituzionali recettizie (ratifica).

Queste norme primarie, congiuntamente ai principi generali di diritto internazionale di fonte consuetudinaria sono state riferite alla nozione di Costituzione della Comunità Europea.

Quale che sia l'espressione usata tali norme regolano in via primaria la vita di relazione all'interno dell'Unione creando situazioni giuridiche soggettive in capo agli Stati membri, alle Istituzioni europee, ai singoli.

Le stesse norme primarie attribuiscono portata normativa agli atti delle istituzioni (ex 249, oggi 288 TUE) che, ponendosi al secondo livello, formano il diritto europeo derivato.

Principali normative convenzionali che si sono susseguite nel tempo sono:

A.    CECA:Trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell'acciaio (1952) : Obiettivo: creare tra i paesi membri un'interdipendenza nel settore del carbone e dell'acciaio

B.    Trattati di Roma - trattati CEE e EURATOM (1958) Obiettivo: istituire la Comunità economica europea (CEE) e la Comunità europea dell'energia atomica (Euratom). Principali novità: estensione dell'integrazione europea alla cooperazione economica generale

C.    Trattato di fusione - trattato di Bruxelles (1967) Principali novità: creazione di un'unica Commissione e di un unico Consiglio per le tre Comunità europee (CEE, Euratom, CECA). È stato abrogato dal trattato di Amsterdam.

D.    Atto unico europeo (1986) obiettivo accelerare il processo decisionale in vista della realizzazione del mercato unico.

E.     Trattato sull'Unione europea - trattato di Maastricht (1993) Obiettivo: preparare la creazione dell'Unione monetaria europea e gettare le basi per un'unione politica (cittadinanza, politica estera e di sicurezza comune). Principali novità istituzione dell'Unione europea e introduzione della procedura di codecisione, che conferisce al Parlamento maggiori poteri nel processo decisionale. Nuove forme di cooperazione tra i governi dell'UE, ad esempio in materia di giustizia e affari interni.

F.     Trattato di Amsterdam (1999) Principali novità: modifica, rinumerazione e consolidamento dei trattati UE e CE. Processo decisionale più trasparente (più ampio ricorso alla procedura di codecisione

G.    Trattato di Nizza (2003) Principali novità: metodi per modificare la composizione della Commissione e ridefinizione del sistema di voto in seno al Consiglio.

H.    Trattato di Lisbona (2009) Principali novità: maggiori poteri per il Parlamento europeo, modifica delle procedure di voto del Consiglio, iniziativa dei cittadini , un presidente permanente del Consiglio europeo, l'istituzione di un alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e di un servizio diplomatico dell'UE.


Ne deriva che i criteri ermeneutici ed il regime giuridico sono quelli usati per i normali accordi internazionali.

Tuttavia i Trattati dell'Unione rivelano caratteristiche specifiche ed ulteriori rispetto al genus cui appartengono:

  • In primo luogo: contengono la definizione di un complesso istituzionale destinato ad esercitare le competenze attribuite all'ente;
  • In secondo luogo:pur definendo l'Unione quale organismo sovranazionale a finalità non universale ma con competenza di attribuzione, l'ampiezza e l'incisività delle competenze, cosi come le modalità e i mezzi attribuiti per il loro esercizio, vanno senza dubbio ad di là del modello tradizionale di organizzazione internazionale. Invero i Trattati contenevano sin dall'origine un potenziale di sviluppo verso un complesso integrato di Stati capaci di realizzare scopi ambiziosi. Tali scopi si sono consolidati con l'Atto unico del 1986 e con il Trattato di Maastricht con la prefigurazione, insieme con il mercato unico e l'unione economica e monetaria anche di un'Unione Europea.
  • In terzo luogo: le norme primarie convenzionali e quelle derivate hanno forza ed incidenza diretta sulla situazione giuridica soggettiva, oltre che della stessa Unione e degli Stati membri anche dei singoli.
  • In quarto luogo: hanno dotato l'Unione di un meccanismo di controllo giurisdizionale imperniato sulla Corte di Giustizia che ha competenza non solo sulla legittimità dell'esercizio delle competenze attribuite, ma anche sull'armonia del sistema giuridico complessivo composto da norme internazionali, norme dell'Unione e norme nazionali.

Tutto ciò comporta che le norme dell'Unione vanno interpretate teleologicamente nel senso più favorevole al perseguimento dei processi di integrazione.

La lettura deve cioè ispirarsi alla reale volontà sottesa alle norme ed allo scopo da queste perseguito.

La sfera di applicazione del diritto dell'Unione coincide con quella dell'insieme dei diritti nazionali.

Va precisato che l'art. 355 TFUE non esclude che le norme possano produrre effetti anche fuori del territorio dell'Unione.

REVISIONE DEI TRATTATI E DIRITTO DI RECESSO

La revisione dei trattati dell'Unione è disciplinata dall'art. 48 del TUE che prevede una procedura ordinaria e due semplificate:

  1. Procedura di revisione ordinaria: può essere attivata da uno Stato membro, dal Parlamento o dalla Commissione. I progetti presentati possono essere diretti ad accrescere o ridurre le competenze attribuite.
    1. I progetti sono trasmessi al Consiglio Europeo e trasmessi ai parlamenti nazionali, consultati il Parlamento Europeo, all'occorrenza la commissione o la BCE nel settore monetario.
    2. Il Presidente del Consiglio Europeo, qualora la Istituzione che presiede abbia adottato a maggioranza semplice una decisione favorevole convoca una <<convenzione>>  dei rappresentati dei Parlamenti Nazionali, dei Capi di Stato o governo, del Parlamento Europeo e della Commissione
    3. Il Consiglio Europeo può, nondimeno, decidere di non convocare la convenzione;
    4. La convenzione è tenuta ad esaminare i progetti ed ad adottare una raccomandazione che invia ad una conferenza dei rappresentati degli Stati.
    5. La conferenza  ha lo scopo di stabilire di <<comune accordo>> le modifiche da apportare ai trattati che dovranno poi essere ratificati dai Parlamenti nazionali.
  2. le procedure semplificate attribuiscono un ruolo preminente al Consiglio Europeo ed escludono la convocazione della convenzione e della conferenza:
    1. la prima procedura semplificata è prevista solo per la modifica della parte terza del TFUE, essa contempla solo l'ipotesi di riduzione delle competenze in tale parte contenute;
    2. la seconda procedura semplificata contempla a sua volta due ipotesi, attivabili per iniziativa del Consiglio Europeo con delibera unanime e previa approvazione del Parlamento Europeo:

i. la prima ipotesi concerne la possibilità che il Consiglio adotti a maggioranza qualificata al posto dell'unanimità richiesta nelle decisioni della parte V del TUE o per il TFUE;

ii. la seconda ipotesi riguarda la possibilità per il Consiglio di adottare atti legislativi secondo la procedura ordinaria e non secondo procedura legislativa speciale.

Le procedure di revisione dei Trattati dell'Unione sono caratterizzate da una dialettica complessa tra le Istituzioni, esse, peraltro, confermano la normale natura internazionale dei Trattati.

La natura internazionalistica dei Trattati è confermata anche dal diritto di recesso, disciplinato dall'art. 50 TUE che prevede una procedura dettagliata.

Si apre con un negoziato volto a definire le modalità del recesso e si conclude con la procedura di cui all'art. 218 TFUE, laddove però lo Stato recedente non parteciperà ai negoziati dalla parte dell'UE.

RIPARTIZIONE DI COMPETENZA TRA L'UNIONE E GLI STATI MEMBRI: PRINCIPIO DELLE COMPETENZE DI ATTRIBUZIONE, DI SUSSIDIARIETA' E DI PROPORZIONALITA'

I trattati istitutivi non avevano previsto una ripartizione di competenze tra Comunità e Stati membri.

Erano le norme materiali che stabilivano se nel settore da esse disciplinato godevano di competenza esclusiva tale da precludere l'intervento dello Stato membro.

Nel Trattato di Lisbona il Titolo I della Parte I del TFUE è dedicato espressamente alle <<Categorie e settori di competenza dell'Unione>>.

Principio delle competenze di attribuzione

a.      l'art. 5, 1° comma delimita l'esercizio delle competenze sul principio di attribuzione, vincolando l'esercizio di tali attribuzioni ai principi di proporzionalità e sussidiarietà

b.     l'art. 5, 2° comma ribadisce che l'Unione agisce nel rispetto dei limiti e delle competenze ed essa attribuite dagli Stati; norma che da un lato ribadisce la volontà degli Stati membri di definire che spetta ad essi soltanto attribuire poteri all'Unione, dall'altro opera come norma di rinvio a tutti i trattati stipulati.

c.      L'art. 352 - norma di chiusura o clausola di flessibilità- tuttavia amplia implicitamente la sfera di azione dell'Unione fornendo una base giuridica al formale ampliamento delle competenze seppure non espressamente previste. Questa norma attribuisce al Consiglio il potere di deliberare all'unanimità, su proposta della Commissione e previa approvazione del parlamento, le disposizioni del caso quando un'azione, pure non prevista, si renda necessaria per raggiungere obiettivi fissati dai trattati.

La norma in esame sembra riecheggiare la dottrina dei poteri impliciti in base alla quale uno Stato federale si vede riconosciuta l'attribuzione di nuove competenze nella misura necessaria al raggiungimento dei fini statutari.

Ma, al contrario, l'art. 352 TFUE prevede espressamente una formale procedura per l'integrazione dei trattati.

Pertanto l'ambito di azione dell'Unione non è illimitato.

Inoltre l'ultima parte dell'art. 5, 2° comma. prevede  che <<Qualsiasi competenza non attribuita all'Unione dai Trattati appartiene agli Stati membri>>.

Ai sensi dell'art. 2 TFUE le competenze dell'Unione si distinguono in esclusive e concorrenti:

Nei settori di competenza esclusiva è stabilito che solo l'Unione europea può emanare atti giuridicamente vincolanti, ma è specificato che gli Stati membri, previa autorizzazione, possono legiferare autonomamente oppure dare attuazione agli atti dell'Unione. I settori di competenza esclusiva sono espressamente elencati <<unione doganale, definizione delle regole di concorrenza; politica monetaria dell'euro; politica commerciale comune>>, inoltre la competenza esclusiva si estende agli accordi internazionali contemplati in atti secondari.

Nei settori di competenza concorrente essi possono essere oggetto di attività legislativa sia da parte dell'Unione sia da parte degli Stati membri, nondimeno l'esercizio della competenza statale è costruito in termini residuali, in quanto è espressamente affermato che la competenza statale può essere esercitata solo qualora le istituzioni non abbiano fatto uso della propria. I settori di competenza concorrente sono <<mercato interno; politica sociale per quanto di competenza, coesione economica, agricoltura e pesca, ambiente, protezione dei consumatori.

Principio di sussidiarietà: l'enunciazione del principio si trova non a caso dopo quello di attribuzione a conferma della funzione di criterio flessibile attraverso il quale l'esercizio (non la competenza) di determinate competenze viene spostato in capo all'Unione o lasciato agli Stati membri. L'intervento dell'Unione nelle materie di competenza non esclusiva è costruito in termini negativi, vincolato cioè al verificarsi di due condizioni:

a.      Che l'azione dell'Unione sia più adeguata di quella realizzabile a livello Statale;

b.     Che gli obiettivi perseguiti non possano essere sufficientemente realizzati con azione singola degli Stati membri.

Principio di proporzionalità: impone di graduare, nell'esercizio delle competenze sia esclusive che concorrenti, i mezzi prescelti rispetto all'obiettivo. Il principio di proporzionalità impone che l'esercizio di una determinata competenza risponda a tre requisiti:

a.      Utilità e pertinenza: per la realizzazione dell'obiettivo;

b.     Necessari età ed indispensabilità: ovvero quando per il raggiungimento dello scopo possano essere utilizzati altri mezzi la competenza dovrà essere esercitata secondo il criterio della sostituibilità ( direttiva al posto di un regolamento);

c.      Nesso logico tra azione esercitata e obiettivo: è il cosiddetto criterio della casualità.

Il Trattato di Lisbona ha introdotto vincoli procedimentali in tema di principi di sussidiarietà e di proporzionalità.

Infatti il Protocollo aggiuntivo attribuisce ai Parlamenti nazionali un ruolo autonomo di controllo del rispetto del principio di sussidiarietà e proporzionalità ex ante ed ex post.

  1. ex ante: la Commissione è tenuta a trasmettere ogni sua proposta al Consiglio contemporaneamente al parlamento nazionale ed europeo, motivata alla luce dei principi di sussidiarietà e proporzionalità.

Ogni parlamento nazionale può, entro otto settimane, presentare un parere motivato ai Presidenti di Parlamento, Commissione e Consiglio, con ragioni per le quali la proposta è ritenuta non conforme al principio di sussidiarietà(allarme preventivo)

La commissione può tuttavia decidere, motivando, di non modificare la proposta.

  1. ex post: nell'ipotesi in cui l'atto venga adottato  il Parlamento nazionale, attraverso il suo Governo può presentare ricorso per violazione del principio di sussidiarietà realizzando così controllo successivo attraverso l'organo giurisdizionale dell'Unione.

I PRINCIPI DEL DIRITTO DELL'UNIONE

Nella prassi dell'Unione l'applicazione dei principi è di non poco rilievo.

A volte si tratta solo di criteri ermeneutici, ma il più delle volte sono utilizzati al fine di individuare i limiti dell'esercizio dei poteri o per determinare la legittimità di un atto o di un comportamento di una istituzione o di uno Stato membro.

In ogni caso si tratta di veri e propri parametri di legittimità, dunque, di norme idonee a creare diritti ed obblighi.

Le diverse espressioni utilizzate sembrano sminuire la portata di tali principi sottolineandone l'origine esterna al sistema giuridico dell'Unione.

Invece si tratta di principi propri del diritto dell'Unione a tutti gli effetti a titolo originario, l'unica distinzione possibile è semmai tra principi enunciati nei trattati e principi che sono il risultato della mera rilevazione del giudice.

Rilevante applicazione nella giurisprudenza della Corte hanno trovato alcuni principi specifici:

  1. certezza del diritto: il principale profilo riguarda la trasparenza dell'azione amministrativa, nel senso che la normativa dell'Unione deve essere chiara e la sua applicazione prevedibile. Lo stesso dicasi per l'attività richiesta alle amministrazioni degli Stati membri. A questo principio si è fatto riferimento anche in relazione al termine ragionevole (due mesi) dato alla Commissione per pronunciarsi sugli aiuti di Stato.
  2. legittimo affidamento: è un aspetto ulteriore del principio di certezza del diritto, utilizzabile come parametro di legittimità degli atti. In generale viene invocato nell'ipotesi di modificazione improvvisa di una disciplina , ovvero nel caso in cui l'amministrazione abbia fatto sorgere nell'interessato un aspettativa ragionevolmente fondata sulla congruità dei comportamenti.
  3. proporzionalità: consente di verificare la legittimità di un atto in base alla sua idoneità, necessità e logicità rispetto ai risultati che si vogliono conseguire.
  4. dell'effetto utile: è collegato a quello della proporzionalità, consente di valutare un atto relativamente all'effetto prodotto
  5. di precauzione: la Corte ha definito tale principio nel senso che esso deve informare gli atti della U.E. che debbono sempre prevedere l'adozione di misure atte a prevenire rischi per la sicurezza e la salute, oltre che per l'ambiente
  6. di leale collaborazione: è affermazione di principio molto ampia il cui uso frequente porta a diversi significati:
    1. leale collaborazioni degli Organi nazionali nei confronti delle Istituzioni UE: è il caso:

i. in primo luogo come obbligo di facilitare le istituzioni stesse nell'assolvimento dei loro compiti, ad esempio nelle obbligazioni connesse ad una direttiva, nell'esecuzione di una decisione o delle sentenze della corte, del dovere di astensione quando è iniziata una procedura;

ii. in secondo luogo del dovere di cooperazione delle autorità nazionali per la realizzazione di obiettivi del Trattato persino in carenza del legislatore dell'Unione;

iii. in terzo luogo il dovere di collaborazione degli Stati membri per garantire piena efficacia alla effettività del sistema giuridico dell'Unione

    1. leale collaborazione tra Stati membri sia per la soluzioni di problemi specifici sia come connotazione dei rapporti tra istituzioni e Stati membri: è stato utilizzato per affermare un obbligo di cooperazione tra Stati membri in funzione di una più corretta applicazione del diritto dell'Unione
    2. obbligo di cooperazione delle Istituzioni dell'Unione nei confronti degli Stati membri: la Corte ha rilevato l'obbligo per la Commissione di prestare la massima collaborazione agli Organi nazionali in quanto il dovere di leale collaborazione non è a senso unico, ma agisce in senso biunivoco.

Il Trattato di Lisbona richiamato espressamente il principio di leale collaborazione all'art.4 TUE.

PRINCIPIO DI UGUAGLIANZA

Il principio di uguaglianza trova riconoscimento nella forma di un divieto di discriminazione fondato sulla nazionalità (art. 18 TUE) con applicazioni specifiche riguardo alle 4 libertà sancite dal trattato: libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali.

Nel trattato originario il principio di eguaglianza trova riferimento solo in funzione degli obiettivi di integrazione economica.

È stata l'evoluzione giurisprudenziale successiva che ha radicalmente mutato il quadro.

Oggi l'affermazione del principio di uguaglianza rappresenta uno dei principi fondamentali del diritto dell'Unione, costante riferimento della giurisprudenza della Corte di Giustizia.

In proposito è significativo che in relazione alla Direttiva 2000/78/CE Consiglio 2000, con la quale si stabilisce un quadro generale di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, la Corte di giustizia abbia sottolineato che non è tale direttiva a sancire il principio di parità di trattamento, principio che invece trova la sua fonte originaria nelle varie convenzioni internazionali e nelle tradizioni costituzionali degli Stati membri.

Le conseguenze tratte dalla giurisprudenza sono due:

il principio di non discriminazione è principio generale del diritto dell'Unione, sancito anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell'UE, che, con il Trattato di Lisbona, assume lo stesso valore giuridico dei trattati.

Il principio è provvisto di effetto diretto e prescinde dalle condizioni di applicabilità della direttiva, tanto da imporre al giudice nazionale la sua applicazione in luogo di una legge nazionale configgente.

Nel merito il divieto di discriminazione impone che è vietata ogni disparità di trattamento arbitraria.

Pertanto è legittimo trattare in modo diverso situazioni diverse.

Sono illegittime, altresì, le violazioni palesi del principio di uguaglianza, e bensì quelle dissimulate o indirette.

Specificatamente la giurisprudenza europea si è soffermata sulla retribuzione di genere per affermare il principio della parità ( in condizioni uguali o paragonabili) come un generale principio di uguaglianza.

In definitiva la Corte ha inteso affermare, in materia di parità uomo - donna, un principio di uguaglianza sostanziale e non meramente formale. La giurisprudenza in materia di parità uomo-donna nella vicenda del rapporto di lavoro ne è la testimonianza più significativa.

6. LA TUTELA DEI DIRITTI E LA CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL'UNIONE EUROPEA

L'attenzione della giurisprudenza al principio di eguaglianza ed alla sua applicazione, scollegata da una espressione normativa, sempre più espressione del diritto fondamentale della persona è parte di una considerazione più ampia in materia di diritti e di libertà fondamentali.

I trattati dell'Unione non contenevano alcuna disposizione in materia, anzi le previsioni riconoscevano diritti all'individuo solo quale protagonista economico e non come persona.

Nei primi anni sessanta la Corte affermò la propria incompetenza a garantire il rispetto di norme interne in tema di diritti umani, anche quando queste avessero il vigore di norme costituzionali.

Successivamente la Corte cambia orientamento affermando il primato e l'inevitabile interferenza della normativa dell'Unione con i diritti umani.

La Corte afferma che i diritti fondamentali dell'uomo quali risultano dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri e dalla CEDU, fanno parte dei principi giuridici generali di essa è garante.

In sostanza la Corte si è riservata il compito di verificare il rispetto dei diritti fondamentali, beninteso nelle situazioni in cui rileva la disciplina dell'Unione.

Infatti il Controllo della Corte investe: gli atti dell'unione; gli atti o i comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell'Unione; le giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale.

Fra i diritti fondamentali che la Corte ha richiamato vanno ricordati: il diritto di proprietà; il diritto del libero esercizio di una attività economica; l'irretroattività di norme penali; il ne bis in idem; la previsione legale dei reati e pene; il rispetto del diritto della difesa ed il principio del contraddittorio; il diritto ad un processo equo e in tempi ragionevoli, ecc.

Un cenno specifico merita il riconoscimento del diritto alla tutela giurisdizionale piena ed effettiva come garantito dagli artt, 6 e 13 CEDU.

La giurisprudenza ha sviluppato il principio della effettività della tutela giurisdizionale facendone derivare;

A.    il principio di equivalenza: la tutela delle norme dell'Unione deve essere almeno pari a quella garantita dalle norme nazionali;

B.    il principio dell'effettività: il sistema nazionale dei rimedi giurisdizionale deve essere tale da non rendere impossibile o eccessivamente gravoso l'esercizio dei diritti attribuiti al singolo da norme dell'Unione.

Un punto di svolta è stato l'art. 6, n. 2 del Trattato di Maastricht in base al quale è affermato che l'Unione rispetta i diritti fondamentali quali garantiti dalla CEDU e quali risultano dalle tradizioni costituzionali degli stati membri.

La giurisprudenza ha compensato ampiamente sia la mancanza di una disposizione materiale, sia il fatto che l'Unione in quanto tale non era parte della CEDU.

Adesione dell'Unione alla Convenzione si sarebbe realizzata , secondo la Corte, solo attraverso una modifica del Trattato. Comunque la mancata adesione dell'Unione alla CEDU non ha comportato conseguenze di rilievo difatti non vi sono mai state divergenze rilevanti tra Corte di giustizia e Corte di Strasburgo riguardo alla valutazione dei diritti fondamentali.

Nel 1999 Consiglio europeo di Colonia delibera predisposizione di una "Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione europea". In occasione del Consiglio europeo di Nizza del 2000 la Carta è solennemente proclamata senza che ad essa sia conferito valore giuridico vincolante e deferendo decisione sul suo status alla successiva Conferenza.

La soluzione della questione arriva solo con il Trattato di Lisbona che attribuisce alla Carta di Nizza lo stesso valore giuridico dei Trattati. Essa resta autonoma, ha contribuito a rafforzare la solida giurisprudenza della Corte di giustizia e ha rappresentato un passo in avanti nel processo di integrazione.

IL DIRITTO DELL'UNIONE DERIVATO

Il sistema normativo dell'Unione comprende un ventaglio di atti giuridici adottati dalle Istituzioni dell'Unione, nei limiti delle competenze e con gli effetti che i Trattati sanciscono.

Questo insieme di atti si definisce diritto derivato, nel senso che essi derivano dai Trattati, dai quali traggono forza cogente.

È ovvio che essi non possono avere l'effetto di restringere o modificare la portata dei trattati da cui derivano o della giurisprudenza relativa.

Viene in luce l'art. 288 del TFUE  che sancisce la tipologia degli atti a mezzo dei quali le istituzioni dell'Unione esercitano le competenze loro attribuite: REGOLAMENTI, DECISIONI, DIRETTIVE, nonché RACCOMANDAZIONI e PARERI.

Il Trattato di Lisbona, all'art. 289 TFUE, introduce per regolamenti, direttive e decisioni una distinzione formale tra atti legislativi e atti non legislativi, distinzione che dipende esclusivamente dalla procedura con la quale sono adottati.

A.    Atti legislativi: (art. 289, c.1): regolamenti, direttive e decisioni sono adottati con procedura legislativa, sia essa ordinaria o speciale;

B.    Atti   delegati non legislativi: (art. 290, c.1) , regolamenti, direttive e decisioni sono adottati in base a delega contenuta nell'atto legislativo, che affida alla Commissione il potere di emanare questi atti delegati, non legislativi, ma di portata generale che integrano elementi dell'atto legislativo. Questi atti assumono l'attributo di delegati, per distinguerli da quelli che derivano da procedura legislativa. Gli atti delegati sono soggetti al potere di controllo di Parlamento e Consiglio che possono revocare la delega.

C.    Atti di esecuzione: (art. 291, c. 2) regolamenti direttive e decisioni assumono la denominazione <<di esecuzione>>. Si tratta di atti meramente esecutivi degli atti legislativi. Si distinguono dagli atti delegati perché:

a.      destinati ad operare all'interno degli Stati membri;

b.     il controllo sull'esercizio delle competenze di esecuzione è affidato agli Stati membri secondo modalità stabilite dal Parlamento europeo e dal Consiglio mediante atti adottati con procedura ordinaria(art. 291, c. 3)

GLI ATTI VINCOLANTI: REGOLAMENTI, DECISIONI E DIRETTIVE

Il Regolamento.

Esso rappresenta nell'Ordinamento dell'Unione l'equivalente della legge negli ordinamenti statali.

Portata generale: La natura normativa trova fondamento nei caratteri precipui che lo qualificano, al pari della legge il regolamento ha portata generale ed astratta, si rivolge a soggetti non determinati e limitati.

È statuito dall'art. 288, c.1 "Il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri ".

A nulla rileva se sia identificabile o meno il destinatario e se il regolamento sia suscettibile di applicazione solo uno o più stati, ciò che lo qualifica come atto legislativo è che i suoi effetti riguardino categorie astrattamente considerate.

Impugnabilità: Considerato che, ai sensi dell'art. 263, c.4, (ex 230 i singoli, persone fisiche o Giuridiche  possono impugnare solo atti regolamentari che " li riguardino direttamente e individualmente e non comportino alcuna misura di esecuzione", la portata generale è spesso sottoposta alla verifica della Corte di Giustizia sotto il profilo della sua impugnabilità da parte dei singoli medesimi.

La natura dell'atto deve essere valutata in relazione alla sostanza, non alla forma, cioè riguardo agli effetti.

Obbligatorietà: Altra caratteristica è data dall'obbligatorietà, ciò vuol dire che i destinatari sono tenuti a dare applicazione completa ed integrale al regolamento con conseguente illegittimità di una sua applicazione parziale.

Il carattere obbligatorio del regolamento preclude allo Stato la possibilità di formulare opposizioni o riserve.

Naturalmente proprio il carattere astratto e generale della norma comporta che il regolamento possa prevedere deleghe ai sensi dell'art. 290, c.1 alla Commissione di atti che lo completino.

Applicabilità: Il regolamento è "direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri".

Conoscibilità: Il regolamento deve essere pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell'Unione. La mancata pubblicazione non influisce sulla validità dell'atto, ma ne impedisce la produzione di effetti obbligatori sino a quando non venga pubblicato.

La decisione.

È, al pari del Regolamento, atto obbligatorio in tutti i suoi elementi.

Se designa i destinatari è obbligatorio solo nei confronti di questi.

Si differenzia per il fatto che esso il più delle volte si riferisce a specifici destinatari ed è dunque, privo di quella portata generale e astratta.

La decisione, nella similitudine con gli ordinamenti interni, corrisponde in sostanza all'atto amministrativo, strumento utilizzato dall'Unione quando chiamata ad applicare il diritto a singole fattispecie concrete che creano, estinguono o modificano situazioni giuridiche soggettive.

La decisione può avere quale destinatari tanto gli Stati, quanto persone fisiche o giuridiche.

Talvolta le decisioni hanno valenza generale, si tratta in questi casi di decisioni con le quali il Consiglio autorizza l'avvio di negoziati per accordi internazionali.

Impugnabilità: per gli effetti dell'art. 263, c. 4, non pone alcun problema, salvo verifica della sostanza.

Obblighi: quando impone obblighi di pagamento per i singoli assume le vesti di titolo esecutivo (art. 299). L'unica condizione è l'apposizione della formula esecutiva da parte dell'autorità nazionale che il governo ha destinato a tale funzione (in Italia è il Ministero degli Esteri).

La procedura esecutiva sarà a cura degli organi nazionali, così come il controllo di regolarità sarà dei giudici nazionali.

La sospensione dell'esecuzione potrà aver luogo solo per decisione della Corte di Giustizia.

Conoscibilità: la decisione deve essere notificata ai destinatari. È richiesta invece la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell'Unione per le decisioni che non designino i destinatari.

La direttiva.

Secondo l'art. 288, c.3 ° "La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi".

Anch'essa non ha portata generale, ma vincola solo lo Stato o gli Stati che ne sono destinatari.

Non diversamente da regolamento e decisioni, la direttiva produce effetti obbligatori, che cede in capo agli Stati membri.

L'obbligo è di risultato, ed è di adottare tutte le misure necessarie a conseguire gli obiettivo posti, investe lo Stato e tutti i suoi organi.

Dunque, la direttiva si limita a fissare il risultato, lasciando agli Organi dello Stato destinatario, la forma ed i mezzi per attuare l'obiettivo fissato.

Tuttavia questo non sta a significare che tali disposizioni siano meno cogenti delle altre due, né attenua la conseguenze sfavorevoli per lo Stato inadempiente.

La Corte di Giustizia ha stabilito che l'esatta e puntuale attuazione di una direttiva è tanto più importante in quanto le misure di attuazione sono lasciate alla discrezione degli Stati.

In questo contesto anche il termine per l'entrata in vigore degli obiettivi posti è tassativo.

Lo Stato che abbia difficoltà di attuazione ha un solo rimedio, chiedere all'Istituzioni una proroga del termine.

D'altro canto lo Stati può dare applicazione alla direttiva anticipatamente, ma questo non vincola gli altri destinatari, né costituisce termine per invocare il legittimo affidamento da parte di singoli soggetti quando altri Stati non abbiano adempiuto.

Nella prassi, la caratteristica della direttiva di fissare gli obiettivi lasciando allo Stato il solo obbligo di risultato è venuta meno e non pochi sono i casi di direttive che non lasciano spazio all'autonomia degli Stati.

Si parla di direttive dettagliate , la loro rilevanza si manifesta soprattutto nell'impatto con gli ordinamenti nazionali e la sfera giuridica dei singoli, in quanto possono assumere la stessa portata ed efficacia dei regolamenti.

In dottrina c'è chi parla di illegittimità della direttiva dettagliata, proprio a ragione della sua natura sostanzialmente regolamentare.


9. GLI ATTI NON VINCOLANTI: RACCOMANDAZIONI E PARERI

Previsti dall'art. 288 TFUE: potere di adottare tali atti, data natura non vincolante, è riconosciuto a tutte le istituzioni dell'Unione. Ruolo privilegiato alla Commissione che formula raccomandazioni o pareri quando il Trattato espressamente lo preveda oppure quando lo ritenga necessario la Comm. stessa.

Raccomandazioni e pareri non facilmente distinguibili: le prime normalmente diretta agli Stati membri e prevedono invito a conformarsi ad un certo comportamento, i pareri sono atto con cui le stesse istituzioni o altri organi dell'Unione fanno conoscere loro punto di vista su determinata materia.

Assenza di carattere vincolante non esclude comunque la produzione di effetti giuridici; i giudici nazionali devono tenerne conto ai fini dell'interpretazione di norme nazionali o di altri atti vincolanti dell'Unione.

Il Trattato non impone la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale ma normalmente comunque pubblicati per facilitarne conoscenza ed efficacia.

ELEMENTI COMUNI AGLI ATTI DELL'UNIONE: MOTIVAZIONE, BASE GIURIDICA, EFFICACIA NEL TEMPO

Motivazione.

Recita l'art. 296, c. 2° "Gli atti giuridici sono motivati e fanno riferimento alle proposte, iniziative, raccomandazioni, richieste o pareri previsti dai trattati".

Perché l'obbligo sia adempiuto è, dunque, necessario che l'atto contenga la specificazione degli elementi di fatto e di diritto sui quali l'istituzione si è fondata.

La mancanza di motivazione rende l'atto annullabile ex art. 263, 2° c. per "violazione delle forme sostanziali".

L'esigenza cui corrisponde l'obbligo in parola, è, da un lato, di far conoscere agli Stati membri ed ai singoli il modo in cui l'Istituzione ha applicato il trattato, dall'altro, di consentire alla Corte e al Tribunale di esercitare il proprio controllo giurisdizionale.

Quando si tratti di precetti che arrecano pregiudizi o danni personali, l'obbligo di motivazione si intende integrato da quello di comunicazione all'interessato, sicché questi possa eventualmente adire le tutele giurisdizionali.

L'indagine sulla congruità delle motivazioni investe non solo il tenore letterale, ma anche il contesto normativo e fattuale nel quale si colloca, mentre non è necessario che siano specificati tutti gli elementi di fatto e di diritto.

L'obbligo di motivazione non richiede l'adozione di formule particolari, essendo sufficiente che dal tenore dell'atto si evincano le ragioni di fatto e di diritto che lo sostengono.

Così, ad esempio, in relazione al principio di sussidiarietà non è necessario che esso sia espressamente menzionato, essendo sufficiente che l'atto dia conto delle ragioni per le quali l'Istituzione dell'Unione ha ritenuta più efficace la propria azione rispetto a quella dei singoli Stati membri.

Il difetto e la carenza di motivazioni, sono vizi che si traducono nella violazione di forme sostanziali, sanzionata dall'art. 263, c. 2°.

Il vizio di motivazione deve essere sollevato d'ufficio integrando motivi di "ordine pubblico".

Base Giuridica.

È necessario che l'atto faccia espresso riferimento ad una o a più specifiche norme del trattato, norme primarie, cioè alla <<base giuridica>>.

La scelta deve essere operata in base agli elementi oggettivi e qualificanti dell'atto che siano suscettibili di controllo giurisdizionale.

Quando il provvedimento investe più settori, bisogna ricercare il c.d. <<centro gravitazionale>> per qualificare l'atto in termini di diritto.

Il richiamo ad una norma di diritto primario assume rilievo in base a tre distinti profili:

A.    1° profilo attiene alle competenze dell'Unione, che sono informate al principio delle competenze di attribuzione;

B.    2° profilo attiene al riparto delle competenze tra le diverse istituzioni. È evidente che ragione e certezza del diritto pretendono che non si degradi in una confusione dei ruoli.

C.    3° profilo è quello procedimentale, nella misura in cui la scelta dell'una o dell'altra base giuridica implichi una procedura di formazione del consenso e un diverso coinvolgimento del parlamento. Ne consegue la connotazione in senso più o meno democratico dell'esercizio della funzione normativa.

L'omissione della base giuridica, altresì, rileva sotto il profilo della categoria cui l'atto appartiene e persino della sua efficacia vincolante.

L'efficacia vincolante riveste importanza in sé , in quanto si tutela all'esigenza di certezza e tutela giurisdizionale, in quanto l'atto in cui sia omessa la base giuridica può rappresentare ai suoi destinatari una situazione non perfettamente chiara in relazione alla stessa obbligatorietà.

Efficacia nel tempo.

L'atto entra in vigore nella data dallo stesso specificata ovvero, in mancanza, dal ventesimo giorno della sua pubblicazione.

Il momento della effettiva diffusione della Gazzetta è diverso da quello formalmente indicato come data di pubblicazione; vale ad ogni effetto, in particolare sotto il profilo del termine per l'impugnazione, il momento della effettiva diffusione.

Certezza del diritto e legittimo affidamento pongono il divieto di retroattività dell'atto.

L'efficacia retroattiva è ipotizzabile solo in via eccezionale quando ciò sia imposto dall'obiettivo da realizzare, fermo la salvaguardia del legittimo affidamento degli interessati.

In questo caso la motivazione dovrà essere necessariamente integrata dalle ragioni che giustificano l'efficacia retroattiva.

Interpretazione.

Le versioni degli atti (23) dell'Unione fanno tutte egualmente fede.

Quando siano possibili più interpretazioni, va privilegiata quella che consente di salvaguardare l'effetto utile della norma.


12. DIRITTO DELL'UNIONE E DIRITTO INTERNO

- Le norme dei trattati istitutivi e tutte le modificazioni e integrazioni convenzionali  successive, hanno con il nostro ordinamento stesso impatto di ogni altra normativa internazionale pattizia. Per l'Italia, la prassi prevede la legge di autorizzazione del presidente della Repubblica alla ratifica e l'ordine di esecuzione, l'uno e l'altro normalmente oggetto di un unico testo legislativo, la legge di adattamento.

- viceversa per il diritto comunitario derivato non si richiede la procedura speciale di adattamento, ma che si pongano eventualmente in essere provvedimenti nazionali, leggi o atti amministrativi, che gli stessi atti comunitari prefigurano o impongono ai fini della loro puntuale e tempestiva attuazione.

Occorre verificare di volta in volta, in base alla forma e alla sostanza dell'atto comunitario, quale sia l'impatto sui sistemi giuridici nazionali e quali siano gli interventi formali eventualmente richiesti o imposti agli Stati membri.

- il regolamento è direttamente applicabile in ciascuno Stato membro. L'atto è destinato a produrre i suoi effetti senza che sia necessario un intervento formale di una qualche autorità nazionale, ove non richiesto dallo stesso regolamento. L'eventuale atto interno sarebbe contrario al trattato, perché può rappresentare un ostacolo o comunque ritardare l'applicazione del regolamento in modo uniforme in tutta la comunità.

La giurisprudenza non ha mancato di collegare il divieto per gli Stati di produrre l'atto comunitario anche alla competenza esclusiva della corte di giustizia quanto al controllo giurisdizionale dell'atto.

- Le direttive sono esse stesse ad imporre allo Stato membro di adottare gli atti necessari alla loro puntuale attuazione. In Italia il tema dell'attuazione legislativa e/o amministrativa è da sempre un tema dolente. Per ovviare almeno in parte a tale inconveniente è stata introdotta la legge comunitaria annuale , che riunisce tutte le misure occorrenti a dare attuazione ad atti comunitari e/o alle pronunce della Corte.

A tal fine entro il 31 gennaio di ogni anno il governo deve presentare un disegno di legge, indicando le misure che sono necessarie per adeguare l'ordinamento nazionale al diritto comunitario:

a) disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali vigenti in contrasto con gli obblighi comunitari

b) disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali oggetto di procedure d'infrazione avviate dalla commissione delle comunità europee nei confronti dell'Italia

c) disposizioni di attuazione di atti comunitari

d) disposizioni che autorizzano il governo ad attuare in via regolamentare le direttive

e) disposizioni necessarie a dare esecuzione trattati internazionali conclusi nel quadro delle relazioni esterne dell'unione europea

f) disposizioni che individuano i principi fondamentali nel rispetto dei quali le regioni e le province esercitano propria competenza normativa

g) disposizioni che, nelle materie di competenza legislativa delle regioni, conferiscono delega al governo per l'emanazione dei decreti legislativi

h) disposizioni emanate nell'esercizio del potere sostitutivo statale in caso di inadempienza delle regioni.

EFFETTO DIRETTO DELLE NORME DELL'UNIONE

I due caratteri fondamentali del diritto comunitario, che soprattutto ne qualificano il rapporto con il diritto nazionale sono: l'effetto diretto ed il primato.

L'effetto diretto è l'idoneità della norma comunitaria[primaria, ovvero derivata e completa] a creare diritti ed obblighi in capo ai singoli, persone fisiche e giuridiche, senza che lo Stato eserciti la funzione diaframmatica consistente nel porre in essere una qualche procedura formale. In termini pratici l'effetto diretto si risolve:

    1. nella possibilità per il singolo di far valere direttamente davanti al giudice nazionale la posizione giuridica soggettiva vantata in forza della norma comunitaria;
    2. per l'amministrazione di far si che il singolo adempia agli obblighi sanciti dalla norma comunitaria, ovvero goda direttamente dei diritti in essa sanciti

Dell'effetto diretto sono provviste tutte le disposizioni comunitarie sufficientemente chiare e precise e la cui applicazione non richieda ulteriori atti, comunitari o nazionali, di esecuzione o comunque di integrazione.

Non è necessario, perché l'effetto si produca in capo ai singoli, che le norme siano ad essi formalmente destinate.

Sono provviste di effetti diretto anche le norme indirizzate agli Stati che impongono ad essi obblighi di fare o non fare. Ad esempio, sono provviste di effetto diretto le norme del Trattato che hanno realizzato il mercato comune imponendo agli Stati l'abolizione delle barriere alla libera circolazione di merci, capitali e persone.

La giurisprudenza sull'effetto diretto è nata con riguardo ad una norma, oggi art. 30 TFUE, che era rivolta esplicitamente ai soli Stati membri, nella celebre sentenza Van Gend en Loos, laddove la Corte rilevò che il Trattato non si è limitato alla creazione di obblighi reciproci degli Stati, ma ha inteso realizzare un <<ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini>>.

Ebbene, all'epoca non erano molti coloro che intravedevano un diritto dei singoli dietro una norma internazionale  che nella sua formulazione originaria, art. 12 TCE(poi 25), si limitava ad obbligare esplicitamente i soli gli Stati membri dall'astenersi dall'imporre vincoli doganali. Singoli che, peraltro, non erano neppure menzionati nella norma.

Il singolo, dunque, può far valere il suo diritto derivante da una norma comunitaria davanti al giudice nazionale.

È appena il caso di chiarire che la norma comunitaria provvista di effetto diretto obbliga alla sua applicazione non solo il giudice nazionale, ma anche tutti gli organi dell'amministrazione.

Come più volte sancito dalla Corte di Giustizia e dalla Corte Costituzionale, sarebbe contraddittorio, ammettere la giustiziabilità delle norme comunitarie e non l'obbligo dell'amministrazione di darne applicazione.

I requisiti richiesti per l'effetto diretto sono quelli individuati nella pronuncia sull'art. 30 sentenza Van Gend en Loos, : la norma deve essere chiara, precisa, suscettibile di applicazione immediata.

Queste caratteristiche possono essere presenti:

a.      negli articoli dei Trattati;

b.     nei Regolamenti, quando regolino direttamente una fattispecie, senza che occorra alcun provvedimento ulteriore;

c.      nelle decisioni, sia quelle rivolte ai singoli, sia quelle rivolte agli Stati membri.

d. direttive: più complesso il problema quando si tratti delle disposizioni contenute in una direttiva.

Invero, nella prassi non mancano direttive che contengono disposizioni con le caratteristiche tipiche delle norme provviste di effetto diretto, cioè: precise e non condizionate per la loro applicabilità ad alcun intervento dell'autorità nazionale.

L'ipotesi non va identificata con le direttive c.d. dettagliate, in quanto per l'effetto diretto non rileva il grado di dettaglio, bensì che la norma non sia condizionata per la sua applicazione ad alcun atto dell'autorità nazionale.

Ovviamente il problema dell'effetto diretto si pone solo per quelle direttive che non siano state attuate nel tempo prescritto ovvero abbiano avuto attuazione non corretta.

L'attribuzione dell'effetto diretto a queste direttive si fonda sulle stesse argomentazioni utilizzate per le norme del trattato rivolte agli Stati membri:

A.    un preciso obbligo dello Stato cui corrisponde un diritto del singolo;

B.    l'art. 288 non esclude espressamente che atti diversi dal regolamento producano gli stessi effetti;

C.    la portata delle obbligazioni imposta allo Stato sarebbe ridotta se i singolo non potessero farne valere l'efficacia.

Ne consegue che, ancora una volta facendo prevalere la sostanza sulla forma, bisogna esaminare caso per caso, per verificare se la natura, lo spirito e la lettera della disposizione consentano di riconoscere l'effetto immediato.

Peraltro non si può trascurare un elemento che emerge dalla prassi, cioè che l'effetto diretto, più che come qualità intrinseca della direttiva, risulta collegato ad un intento pedagogico, addirittura sanzionatorio nei confronti dello Stato negligente o ritardatario.

In tale prospettiva, l'effetto diretto è stato concepito, e, di fatto, lo è, come una vera e propria sanzione per lo Stato inadempiente, nella misura in cui attribuisce al giudice nazionale, eventualmente coadiuvato da quello europeo, il compito sostitutivo del legislatore di realizzare comunque lo scopo della direttiva.

Ciò è ben chiaro quando si osservino le implicazioni dell'effetto diretto attribuito ad una direttiva incondizionata inattuata.

L'effetto diretto verticale:Le disposizioni provviste di effetto diretto di una direttiva non tempestivamente o correttamente trasposta possono essere fatte valere dal singolo solo nei confronti dello Stato non anche di altri individui, proprio perché l'effetto diretto è ricondotto non ad una qualità intrinseca dell'atto ma all'esigenza di impedire che lo Stato inadempiente possa opporre al singolo, giovandosene, il proprio inadempimento.

La stessa giurisprudenza ha invece escluso l'effetto diretto orizzontale, cioè la possibilità per il singolo di far valere la norma anche nei confronti di soggetti privati, siano essi persone fisiche o giuridiche.

L'argomento utilizzato dalla giurisprudenza è fondato sulla formulazione dell'art. 288 TFUE, in base al quale la direttiva vincola solo lo Stato cui è rivolta.

La Corte di Giustizia ha rilevato che estendere l'effetto diretto anche ai rapporti tra singoli significherebbe riconoscere in capo alla Comunità il potere di emanare norme che facciano sorgere con effetto immediato obblighi a carico dei singoli, mentre tale competenza le spetta solo laddove, per il principio della competenza di attribuzioni, sia attribuito il potere di adottare regolamenti.

L'effetto diretto verticale è, in via di principio, solo unilaterale, nel senso che al singolo che fa valere il proprio diritto lo Stato non può opporre la propria inadempienza.

Relativamente all'ipotesi di una direttiva che comporti un obbligo per il singolo, lo Stato non può opporlo al singolo prima della trasposizione, non potendo la direttiva, in base all'art. 288 TFUE, porre obblighi in capo ai singoli.

La costruzione che limita l'effetto diretto alla dimensione verticale è da sempre alquanto contestata. Le discriminazioni che esso suscettibile di produrre e di fatto produce sono evidenti. Nel caso ad esempio di un rapporto di lavoro, cui inerisca una direttiva comunitaria in parte provvista d'effetto diretto, sarà favorito, sotto il profilo della tutela giurisdizionale, dipendente dell'ente pubblico rispetto al dipendente di un'azienda privata poiché solo nei confronti del datore di lavoro pubblico potrà farsi valere la direttiva.

Solo a partire dal momento della sua corretta trasposizione il singolo sarà in grado di conoscere adeguatamente e con certezza la portata dei diritti che gli sono conferiti dalla direttiva e dunque di ricorrere o meno al giudice.

La giurisprudenza sull'effetto diretto solo verticale delle direttive pone qualche problema. Non mancano poi le pronunce della stessa corte di giustizia nelle quali di fatto è stato attribuito l'effetto diretto orizzontale ad una direttiva, ad esempio quella sulla parità uomo donna sull'accesso e le condizioni di lavoro.

Per quanto riguarda le norme comunitarie prive di effetto diretto: il problema non si pone per le norme dei trattati e convenzionali quando il loro vigore si collega all'adattamento in ciascun paese membro nè non si pone per i regolamenti e le decisioni.

Diverso il caso delle direttive. Se trasposta la direttiva un parametro di legittimità dell'atto di trasposizione utilizzabile anche dal singolo in giudizio. Quando viceversa la direttiva non sia stata trasposta essa non potrà essere utilizzata in quanto tale dal singolo, se non nei confronti dello Stato o di un ente pubblico. La direttiva non trasposta può costituire un parametro di legittimità del comportamento di uno Stato, nonché di una legge o di un atto amministrativo, come tale utilizzabile dalla Commissione e dalla Corte di giustizia nel contesto di una procedura d'infrazione.

In definitiva una direttiva, anche se sprovvista di effetto diretto, alla scadenza del termine stabilito e pur se non trasposta entro tale termine condiziona la normativa nazionale. Ne consegue che quella direttiva costituisce un parametro di legittimità della legge nazionale con essa contrastante rilevabile a mezzo di una procedura d'infrazione.

L'OBBLIGO D'INTERPRETAZIONE CONFORME AL DIRITTO DELL'UNIONE

Il mancato riconoscimento dell'effetto orizzontale delle direttive è stato in parte superato dalla giurisprudenza comunitaria che ha estrapolato il canone dell'obbligo di interpretazione conforme che impone a tutti gli organi nazionali, ma soprattutto al giudice, di interpretare la norma interna in modo quanto più possibile compatibile con le prescrizioni del diritto comunitario.

La Corte di Giustizia ha più volte dichiarato che spetta ai giudici nazionali interpretare <<il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest'ultima>>, ricostruendo l'obbligo cedente in capo allo Stato mediante lettura congiunta degli artt. 4, n. 3 [obbligo di leale collaborazione] e 288, 3° comma [vincolo per lo Stato della direttiva ].

Di conseguenza i giudici nazionali, sebbene non possano immediatamente applicare in una controversia tra privati le disposizioni di una direttiva, devono in ogni caso individuare, tra tutti i significati possibili della norma interna da applicare al caso, quello che appaia maggiormente conforme all'oggetto ed allo scopo della direttiva.

Essi debbono cioè utilizzare il metodo teleologico.

In tal modo si realizza un effetto orizzontale indiretto delle direttive, le cui disposizioni sono applicate ai rapporti tra privati attraverso l'interpretazione conforme della norma interna teleologicamente orientata alla realizzazione dei risultati prescritti dalla direttiva.

La Corte, inoltre, ha ampliato la portata dell'obbligo di interpretazione conforme a prescindere che si tratti di <<norme interne precedenti o successive alla direttiva>>, dichiarando, ancora, che l'obbligo teleologico riguarda di fatto tutto l'ordinamento.

Tuttavia sono stati individuati limiti all'applicazione generalizzata del principio in questione.

Innanzitutto resta l'impossibilità di far derivare un obbligo del singolo dall'interpretazione del diritto nazionale in modo conforme ad una direttiva non trasposta; nonché di determinare o aggravare la responsabilità penale dei singoli che la violano.

Quando non sia possibile l'interpretazione conforme resta aperto il problema delle direttive prive di effetto diretto e non ancora recepite.

Occorre considerare infatti che la direttiva non trasposta resta pur sempre un atto comunitario valido ed idoneo a produrre effetti giuridici, e può costituire parametro della compatibilità delle norme interne con la normativa comunitaria.

Questo ha trovato conferma nella Corte di Giustizia da sempre ancorata al testo dell'art. 288 del TFUE.

Proprio dalla previsione testuale dell'obbligo cedente sullo Stato si è fatto derivare la considerazione che la direttiva individua come destinatario tutti gli organi dello Stato unitariamente considerato, quindi, anche i giudici che, nell'ambito delle loro funzioni, dovrebbero contribuire alla realizzazione dell'effetto utile.

In particolare la Corte ha rilevato che la direttiva, pur se sprovvista di efficacia diretta, allo scadere dei termini di recepimento ha l'effetto di far entrare nell'ambito di applicazione del diritto dell'unione la normativa nazionale di cui trattasi nella causa principale che affronta una materia disciplinata dalla stessa direttiva.

In definitiva, l'alternativa alla disapplicazione della norma interna incompatibile è, nell'ordinamento italiano, il rinvio alla Corte costituzionale in quanto il contrasto tra la normativa interna e quella comunitaria è costruito come una questione di legittimità costituzionale.

In conclusione, nel caso in cui il risultato prescritto dalla direttiva non si possa conseguire con mezzi giudiziari, resta inalterato l'effetto verticale ed il diritto del singolo al risarcimento del danno.

IL PRIMATO DEL DIRITTO DELL'UNIONE EUROPEA SUL DIRITTO INTERNO

L'effetto diretto si collega strettamente al primato o prevalenza delle norme comunitarie sulle norme interne contrastanti con i diritto comunitario, sia precedenti che successive e quale ne sia il rango, anche costituzionale.

La conseguenza pratica è che la norma interna contrastante con quella comunitaria non può essere applicata, o, meglio, deve essere disapplicata.

È costante orientamento giurisprudenziale che il giudice nazionale ha l'obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario.

Non solo, la giurisprudenza comunitaria ha finanche affermato l'obbligo per l'amministrazione, ove consentito, di non dare seguito ad un atto amministrativo configgente con l'ordinamento comunitario.

Così riaffermando che il principio della preminenza del diritto comunitario impone non solo al giudice ma allo Stato membro inteso nel suo insieme di dare pieno effetto alla norma comunitaria.

La Corte di Giustizia è prevenuta abbastanza presto alla affermazione della prevalenza delle norme comunitarie su quelle nazionali quale riconoscimento complementare all'effetto diretto.

Non altrettanto si può dire di alcune giurisdizioni nazionali che a quel risultato sono perlopiù pervenute con grande travaglio intellettuale percorrendo strade anche diverse da quella segnata dalla corte: è il caso della Corte Costituzionale italiana.

Innanzitutto quando la legge comunitaria è successiva a quella nazionale con essa configgente, per il principio che da sempre disciplina la successione delle leggi nel tempo, lex posterior derogat priori, prevale rispetto alla norma interna.

Stesso rango norma interna e comunitaria: Il problema sorgeva per le norme nazionali successive alla norma comunitaria, in quanto, inizialmente il rango assegnato alla norma comunitaria era quello di legge ordinaria con la quale si ratificava il trattato. Ne scaturirono posizioni dialettiche tra Corte di Giustizia e Giudice delle leggi Italiano. Tale dialettica risale ai primi anni sessanta, quando la legge di nazionalizzazione dell'energia elettrica fu contestata avanti il giudice a quo sotto il profilo costituzionale e del conflitto con il diritto comunitario. La Corte costituzionale affermò che andava applicato il principio della successione delle leggi nel tempo. La Corte di Giustizia, invece, nella sentenza Costa, enunciava una posizione antitetica, ribadendo i principi e la prospettiva affermati nella sentenza Van Gend en Loos, in particolare che il Trattato ha istituito un ordinamento giuridico proprio, integrato da quello nazionale, e perciò non è possibile opporre ad una norma comunitaria una norma interna successiva. Il contrasto tra Corte di Giustizia e Corte Costituzionale era netto.

Questione di legittimità Costituzione della norma interna in conflitto con norma europea: In seguito la Corte costituzionale si è progressivamente avvicinata, se non proprio ai principi del primato assoluto della Corte di Giustizia, almeno al risultato, cioè quello dell'effetto diretto e del primato quali elementi intrinseci delle norme comunitarie. Infatti, se nella sentenza Costa la Corte Costituzionale aveva affermato la prevalenza della legge italiana successiva, dopo una decina di anni ebbe a stabilire con le sentenze:

A.    Frontini: sviluppando un ragionamento già contenuto in una sentenza del 1965, affermò la separazione tra i due ordinamenti, riconoscendoli autonomi e distinti. Ne consegue che dove c'è competenza in base al Trattato, lo Stato deve astenersi dal pregiudicare l'immediata applicazione dei regolamenti. Inoltre mentre individuava nell'art. 11 la fonte costituzionale che legittimava la parziale rinuncia alla sovranità, riconosceva la immediata vincolatività dei regolamenti ex 288 TFUE.

B.    Industrie chimiche : nella successiva sentenza il Giudice delle leggi affrontò il problema del conflitto tra un regolamento comunitario ed una legge interna posteriore con esso configgente. Considerandolo come problema di esercizio delle competenze e, dunque, riconducibile all'art. 11 Cost. la Corte ne trasse il convincimento che la legge interna dovesse superare il vaglio della legittimità costituzionale.

La soluzione Industrie chimiche non ebbe molti consensi, né dalla dottrina, né dalla giurisprudenza interna.

La reazione della Corte di Giustizia venne con la sentenza Simmenthal. La Corte di Giustizia fu adita in via pregiudiziale dal giudice italiano per sapere se l'obbligo di attivare previamente il giudizio di legittimità costituzionale di una norma successiva in conflitto con regolamento non ledesse a sua volta l'esigenza di dare immediata ed uniforme applicazione al regolamento stesso in tutti gli Stati membri.

La Corte di giustizia fornì una risposta chiara ed articolata, affermò:

A.    Che l'effetto diretto ed il primato impongono che sia data applicazione immediata;

B.    Che le norme interne successive incompatibili non si formano validamente;

C.    Che il sistema di controllo giurisdizionale fondato sulla cooperazione tra giudice comunitario e giudice costituzionale verrebbe meno se non ci fosse l'obbligo di dare immediata applicazione alle leggi comunitarie e si dovesse aspettare l'esito del procedimento di verifica costituzionale.

La Corte costituzionale nella sentenza Granital, 1984 rimeditò la propria posizione. Punto di partenza fu ancora una volta l'affermazione che i due ordinamenti sono distinti e tra loro autonomi anche se coordinati in quanto in forza dell'art. 11 Cost. sono state trasferite alle istituzioni comunitarie le competenze relative a materie determinate. L'attribuzione delle competenze all'Unione comporta che l'atto normativo europeo posto in essere nell'esercizio di quelle competenze attribuite ex art. 11 Cost. impedisce alla norma interna eventualmente contrastante(anteriore o successiva) di venire in rilievo ai fini della disciplina del rapporto sul quale si controverte. Ne consegue che il contrasto fa si che la norma interna non sia suscettibile di annullamento, ma semplicemente sia disapplicata. Dalla sentenza  derivano due conseguenze:

non ponendosi più una questione di costituzionalità, ma di irrilevanza della norma interna, il giudice applica direttamente la norma comunitaria provvista di effetto diretto, disapplicando la normativa nazionale;

il potere del giudice opera solo nell'ipotesi che la norma derivata sia completa e provvista di effetto diretto; quando si tratti, infatti, di norma derivata incompleta viene in rilievo per la disciplina del rapporto la disciplina interna e, se in conflitto, deve essere sottoposto al vaglio di legittimità costituzionale in relazione all'art. 11 Cost.

La Corte costituzionale ha lasciato che non si sottragga alla sua verifica due ipotesi:

- quella di un'eventuale conflitto della norma comunitaria, con i principi fondamentali del nostro ordinamento e con i diritti inalienabili della persona umana;

- quella di norme interne che si assumono dirette ad impedire o pregiudicare la perdurante osservanza del trattato o il nucleo essenziale dei suoi principi


In una successiva occasione di giudizio in via principale tra lo Stato e una Regione, la corte costituzionale ha precisato che nell'ipotesi di contrasto con la norma comunitaria provvista di effetto diretto, la soluzione dell'inammissibilità, potrebbe generare gravi incertezze applicative e un'evidente lesione del principio della certezza e della chiarezza normativa.

La sentenza Granital ha rappresentato una svolta nella riflessione sul complesso rapporto tra norme interne e norme comunitarie. Qualche divergenza di fondo è rimasta, ma prevalenza diritto comunitario è stata affermata in modo chiaro. Non si è mancato di rilevare il ruolo della Corte di giustizia dell'interpretazione e nell'applicazione del diritto comunitario. Si è rilevata l'immediata applicabilità, in luogo delle norme nazionali confliggenti, delle norme comunitarie così come interpretate nelle sentenze della corte pronunciate a seguito di rinvio pregiudiziale, nonché all'esito di una procedura d'infrazione.

Da ricordare la giurisprudenza della corte costituzionale che ha limitato l'ammissibilità del referendum abrogativo delle norme che si collegano ad impegni comunitari, escludendola in relazione alla legge di adattamento e poi anche in relazione a tutte quelle leggi che direttamente o indirettamente segnano l'adempimento del paese ad obblighi comunitari.

La posizione della Corte di giustizia è stata riaffermata in numerose occasioni. Tra quelle più significative la sentenza Factortame dove ha puntualmente affermato che la norma interna che sia di ostacolo alla protezione giurisdizionale effettiva di un diritto che il singolo vanta in forza del diritto comunitario deve essere disapplicata dal giudice nazionale.


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