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Søren Kierkegaard: la paralisi del possibile




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Søren Kierkegaard:
la paralisi del possibile





































1. La vita

Søren Kierkegaard nasce a Copenaghen il 5 maggio 1813 da Michael Pedersen, un ricco commerciante, e dalla sua seconda moglie Ane Lund. Fu l'ultimo di sette figli, dei quali ne vide cinque morire quando ebbe solo vent'anni. Questo, unitamente alla rigida educazione pietista ricevuta dai suoi genitori, fece di lui un ragazzo molto introspettivo, nonché orientato al pessimismo. La sua vita ruota attorno a tre momenti principali:

il rapporto con il padre

Come abbiamo detto, l'infanzia di Kierkegaard fu triste. Il padre era un pastore protestante, di rigida moralità. A 30 anni non poté più lavorare per malattia. Gli morì la prima moglie e rimase senza figli. Pochi mesi dopo il funerale si risposò con la domestica (Ane Lund, la madre di Kierkegaard). La figura del padre per Kierkegaard fu sempre quella di un vegliardo. A lui non rimprovererà mai la mancanza di affetto. In nessuna occasione ruppe il rapporto con lui, tranne che per una breve lite all'età di 20 anni. Durante gli studi universitari si dedicò a una vita gaudente (impiegò dieci anni per laurearsi in teologia). Un avvenimento lo segnò profondamente: il padre, morente, gli confessò una grave colpa, che costituirà la sua «scheggia nelle carni» e che custodirà sempre nel segreto. Nessuno sa di che genere di colpa si trattasse: ciò che sappiamo è che dopo la confessione del padre la sua vita cambiò totalmente. Decise di sposarsi, poiché su di lui sentì gravare una responsabilità; spese la propria vita per espiare il peccato del padre.

«Ci sono uomini il cui destino deve essere sacrificato per gli altri, in un modo o nell'altro, per esprimere un'idea, ed io con la mia croce particolare fui uno di questi»

S. Kierkegaard

Fidanzamento con Regina Olsen



Nel 1840 si fidanza con Regina Olsen, ma dopo circa un anno interrompe il rapporto senza spiegare il motivo. Alcuni studiosi suppongono che avvertisse una chiamata alla vita religiosa, tuttavia molti di più sono coloro che ritengono tale decisione dettata, come tutte le altre, dal peso ossessivo della colpa del padre e dalla conseguente necessità di espiazione. Fece il possibile per apparire disgustoso a Regina, la quale si diceva disposta a tutto pur di sposarlo. Nella sua vita futura proverà grande rimpianto per questa decisione.



Apologia del Cristianesimo

Con la sua vita e la sua filosofia tentò di recuperare il vero significato del cristianesimo. Rimase atterrito dalla superficialità dei cristiani del suo tempo.

Nella sua vita non si decise mai per nulla: scelse di vivere in una sorta di "punto zero", mostrando l'aspetto paralizzante della possibilità. Muore l'11 Novembre 1855 per un ictus, mentre camminava per le strade di Copenaghen, città nella quale trascorse quasi tutta la sua esistenza.


2. Le opere

Riportiamo le sue opere principali:

Enten-Eller (tradotto come Aut-Aut - 1843), nel quale evidenzia che la dialettica non è opposizione (l' et-et di Hegel), ma conseguenza;

I Diari, opera autobiografica di cui esistono più di cinquemila pagine;

il Diario di un seduttore (1843);

Timore e tremore

Il concetto dell'angoscia


3. Il pensiero

Non a torto Kierkegaard viene definito il padre dell'esistenzialismo: è il primo filosofo a incentrare la sua indagine sulle domande di senso e sulla possibilità di scegliere e, soprattutto, è il primo a vivere l'esistenzialismo in modo consapevole (la sua vita è lo specchio della sua incapacità di scegliere). Riflette sui limiti della realtà. Il momento drammatico è quello che segue la scelta: ogni possibilità implica la minaccia di scegliere male; ogni possibilità-che-si è accompagnata dalla possibilità-che-non. L'uomo non può protendere al si o al no, ma al forse. È impossibile stabilire l'oggettività. La conseguenza di un atto di libertà è quindi l'angoscia. Si sofferma molto a parlare dell'angoscia: in Il concetto dell'angoscia scrive che «l'angoscia è la vertigine della libertà». A differenza della paura, che ha un oggetto (è sempre "paura di."), l'angoscia è caratterizzata dall'indeterminatezza (non c'è qualcosa di cui essere angosciati; si è angosciati e basta).

Kierkegaard si oppone alla mentalità ottimistica della dialettica hegeliana. La vita non è un "et.et", ma un "aut.aut": dobbiamo vivere la nostra vita consapevoli che ad essa esistono tante altre alternative a cui abbiamo rinunciato nel momento in cui abbiamo operato la nostra scelta. Ad Hegel rimprovera anche di aver "polverizzato" l'uomo: se nell'idealismo è il genere a prevalere sul singolo (es. nello Stato di Hegel non conta l'individuo), Kierkegaard replica che è il singolo a prevalere sul genere. L'essenza profonda della verità è la soggettività, perché ciascuno è singolo: non esiste la verità, ma la verità per me. La vera verità consiste dunque nell'appropriazione della verità. Ciascun uomo è solo, unico e irripetibile. La filosofia personalistica parlerà a questo riguardo di irriducibilità della specie. Altro elemento non condiviso dell'idealismo hegeliano è il panteismo idealistico (Uomo = Dio). Per Kierkegaard c'è assoluta differenza fra Dio e l'uomo. L'unica accettazione di questa idea la opera nella fede: nel cristianesimo, paradossalmente, Dio si fa uomo. La fede è un elemento fondamentale per Kierkegaard: è quell'assurdo che trova nell'angoscia il prezzo da pagare affinché possa esprimersi. Ogni scelta è del singolo, non può coinvolgere altri. L'esistenza implica un'assunzione di responsabilità personale (e che quindi prescinde anche quella coniugale).  Il singolo è un essere assolutamente unico e che come tale deve trovare una scelta di vita propria.

Kierkegaard rintraccia tre stadi dell'esistenza, delle scelte di vita non legate da una consequenzialità logica, ma da un salto, una rottura (ogni stadio prescinde dall'altro):



Vita estetica;

Vita etica;

Vita religiosa;

Ognuno di questi stadi ha un personaggio simbolico.

3.1 La vita estetica

L'esteta è colui che coglie l'attimo ("carpe diem" o, più precisamente, "carpe oram") e decide di vivere la propria vita scegliendo sempre delle avventure innovative. Ogni esperienza deve essere nuova e superiore alla precedente: non si accontenta del piacere, vuole il meglio del piacere ("il piacere del piacere"). L'esteta sceglie di non scegliere e proprio per questo non può innamorarsi. A lungo andare ricade in un movimento continuo che porta alla noia, perché comprende che in fondo al piacere c'è il nulla. È la noia la "molla", l'elemento che può permettere (un "può" che non implica un "deve") il salto alla vita etica. Il personaggio simbolo della vita estetica è il don Giovanni.

3.2 La vita etica

Nella vita etica avviene la scelta: l'assessore Guglielmo (personaggio-simbolo di questo stadio) si sposa. Ha delle regole morali e decide di legarsi ad un'altra persona, pur sapendo che a questa dovrà inevitabilmente rendere conto delle sue scelte. La molla che permette di operare il "salto di qualità", il passaggio alla vita religiosa, è il pentimento. L'uomo etico si pente della sua scelta perché sente che la sua esistenza ha un dovere verso tutti ed è destinata ad una dimensione più grande; sente di avere finitizzato l'aspirazione all'infinito e di essere quindi chiuso e bloccato.

3.3 La vita religiosa

Abramo è il simbolo della vita religiosa: costituisce l'elemento di congiunzione per cristiani (da Abramo deriverà Gesù Cristo), per gli ebrei e per i musulmani. L'aspetto più paradossale di Abramo è il suo comportamento nel sacrificio di Isacco. Isacco è il figlio della promessa: è legittimo (nasce infatti da Sara, sua moglie) e viene annunciato da un angelo («[.] attraverso Isacco da te prenderà nome una stirpe» Gen 21,12b). Tuttavia, Dio chiede ad Abramo di sacrificarlo. E Abramo? Decide di compiere il Suo volere. L'atteggiamento caratteristico della vita religiosa è la fede. Essere "eletti di Dio" non comporta la "rinuncia alla giovinezza" o la mera mortificazione del corpo e dell'anima: significa essenzialmente essere uomini di fede. La volontà di Dio, fin quando non si svela, è incomprensibile: con un miracolo si era realizzato l'assurdo, e ora, con un atto fondamentalmente immorale (quale l'omicidio), tutto deve essere distrutto. Tra la vita religiosa e la vita morale vi è una distanza abissale: la fede non implica, per Kierkegaard, la moralità. La fede è superiore alla stessa morale. La prova è resa ancora più dura dal fatto che il coltello non è nella mano di Dio, ma in quella di Abramo. Ma vediamo insieme il brano di Genesi 22, 1-14, in cui l'episodio è raccontato:

Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». 2 Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va' nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò». 3 Abramo si alzò di buon mattino, sellò l'asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l'olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato. 4 Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo. 5 Allora Abramo disse ai suoi servi: «Fermatevi qui con l'asino; io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi». 6 Abramo prese la legna dell'olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutt'e due insieme. 7 Isacco si rivolse al padre Abramo e disse: «Padre mio!». Rispose: «Eccomi, figlio mio». Riprese: «Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov'è l'agnello per l'olocausto?». 8 Abramo rispose: «Dio stesso provvederà l'agnello per l'olocausto, figlio mio!». Proseguirono tutt'e due insieme; 9 così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l'altare, collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sull'altare, sopra la legna. 10 Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. 11 Ma l'angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». 12 L'angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio». 13 Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l'ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. 14 Abramo chiamò quel luogo: «Il Signore provvede», perciò oggi si dice: «Sul monte il Signore provvede».

Quel giorno Abramo non disse nulla a nessuno. Quello che stava per fare era una cosa troppo irrazionale per poter essere compresa. Non era possibile spiegarla a nessuno, perché nessuno avrebbe capito. Dio parla ad ognuno di noi e chiede a ciascuno la sua risposta. Nel brano sembra che i singoli movimenti siano visti a rallentatore: questo artificio serve a evidenziare ancor di più la drammaticità dell'azione. Abramo non sapeva che era una tentazione, e di certo, non decise a cuor leggero. Sapeva, tuttavia, che nessun sacrificio sarebbe stato troppo grande, insieme a Dio. Se si fosse tirato indietro, il suo ritorno sarebbe stata una fuga. Il monte Moria non sarebbe stato l'Ararat, ma "il luogo in cui Abramo dubitò".

Il cristianesimo è un capovolgimento, e l'uomo deve scegliere capendo che la sua scelta spesso conduce all'assurdo. E il punto più alto dell'assurdo è, come già detto, la fede.


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