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L'italia repubblicana




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L'ITALIA REPUBBLICANA



CULTURA E SOCIETA'


Attraverso l'analisi della trasformazione dei comportamento sociali e dei modelli culturale è possibile tracciare un percorso della modernizzazione del paese nell'età repubblicana. L'editoriale di Elio Vittorini per il primo numero del 'Politecnico' testimonia le speranze degli intellettuali di sinistra del dopoguerra di poter avviare una profonda rigenerazione morale della società. Un ideale coltivato anche dai protagonisti del cinema 'neorealista', analizzato in un brano dello studioso Gian Piero Brunetti. Dopo le elezioni del 1948, muta il clima intellettuale: lo storico Ennio Di Nolfo sottolinea le motivazioni psicologiche che assicurano la vittoria elettorale dei democristiani e la diffusione di nuove aspettative tra gli italiani. Un'immagine diversa della vita nella penisola è offerta da un brano del giornalista e meridionalista Giovanni Russo, che descrive la povertà e l'immobilismo di una delle zone più arretrate del Mezzogiorno all'inizio degli anni Cinquanta. Il 'miracolo economico' inaugura nuovi comportamento sociali e modelli di consumo: lo storico Silvio Lanaro racconta le trasformazioni delle abitudini alimentari e degli stili di vita, mentre il demografo Antonio Golini descrive i mutamenti della famiglia e la progressiva emancipazione delle donne. Un brano del romanzo Memoriale di Paolo Volponi aiuta a comprendere la complessità del mito della fabbrica, simbolo di progresso e oppressione sociale


ELIO VITTORINI - UNA NUOVA CULTURA -


Nell'immediato dopoguerra Elio Vittorini (1908-1966), scrittore vicino al Partito Comunismo Italiano lancia uno sorta di appello ideale a tutti gli intellettuali di sinistra per impegnarsi nella costruzione di uno 'nuovo cultura'. Dalle pagine dei 'Politecnico', la rivisto da lui fondata nel 1945 che riprende il titolo della pubblicazione ottocentesca di Carlo Cattaneo, Vittorini sottolineo il fallimento della cultura occidentale che non è riuscita o evitare gli orrori della guerra e progetta uno grande trasformazione morale che garantisce maggiore influenza degli intellettuali sulla società. In questo editoriale scritto per il primo numero dei 'Politecnico', è bene evidenziato l'ideale pedagogico di poter educare e guidare i comportamenti sociali, eliminando sofferenze e ingiustizie attraverso un progetto culturale che trasformi la realtà. Ma le speranze degli intellettuali del dopoguerra sono rapidamente travolte dalle divisioni della guerra fredda. Il Partito Comunista si rifugia nei valori dell'ortodossia culturale marxista e il 'Politecnico' cessa la pubblicazione alle fine del 1947.


Non più una cultura che consoli nelle sofferenze ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini. Per un pezzo sarà difficile dire se qualcuno o qualcosa abbia vinto in questa guerra. Ma certo vi è tanto che ha perduto, e che si vede come abbia perduto. 1 morti, se li contiamo, sono più di bambini che di soldati; le macerie sono di città che avevano venticinque secoli di vita; di case e di biblioteche, di monumenti, di cattedrali, di tutte le forme per le quali è passato il progresso civile dell'uomo; e i campi su cui si è sparso più sangue si chiamano Mauthausen , Maidanek, Buchenwald, Dakau.

Di chi è la sconfitta più grave in tutto questo che è accaduto? Vi era bene qualcosa che, attraverso i secoli, ci aveva insegnato a considerare sacra l'esistenza dei bambini. Anche di ogni conquista civile dell'uomo ci aveva insegnato che era sacra; lo stesso del pane; lo stesso del lavoro. E se ora milioni di bambini sono stati uccisi, se tanto che era sacro è stato lo stesso colpito e distrutto, la sconfitta è anzitutto di questa 'cosa' che c'insegnava l'inviolabilità loro. Non è anzitutto di questa 'cosa' che ci insegnava l'inviolabilità loro?

Questa 'cosa', voglio subito dirlo, non è altro che la cultura: lei che è stata pensiero greco, ellenismo, romanesimo, cristianesimo latino, cristianesimo medioevale, umanesimo, riforma, illuminismo, liberalismo; ecc., e che oggi fa massa intorno ai nomi di Thomas Mann e Benedetto Croce, Benda, Huizinga, Dewey, Maritain, Bernanos e Unamuno, Lin Yutang e Santayana, Valéry, Gide e Berdiaev.

Non vi è delitto commesso dal fascismo che questa cultura non avesse insegnato ad esecrare già da tempo. E se il fascismo ha avuto modo di commettere tutti i delitti che questa cultura aveva insegnato ad esecrare già da tempo, non dobbiamo chiedere proprio a questa cultura come e perché il fascismo ha potuto commetterli?

Dubito che un paladino di questa cultura, alla quale anche noi apparteniamo, possa darci una risposta diversa da quella che possiamo darci noi stessi: e non riconoscere con noi che l'insegnamento di questa cultura non ha avuto che scarsa, forse nessuna, influenza civile sugli uomini.

Pure, ripetiamo, c'è Platone in questa cultura. E c'è Cristo. Dico: c'è Cristo. Non ha avuto che scarsa influenza Gesù Cristo? Tutt'altro. Egli molta ne ha avuta. Ma è stata influenza, la sua, e di tutta la cultura fino ad oggi, che ha generato mutamenti quasi solo nell'intelletto degli uomini, che ha generato e rigenerato dunque se stessa, e mai, o quasi mai, rigenerato, dentro alle possibilità di fare, anche l'uomo. Pensiero greco, pensiero latino, pensiero cristiano di ogni tempo, sembra non abbiano dato agli uomini che il modo di travestire e giustificare, o addirittura di render tecnica, la barbarie dei fatti loro. t qualità naturale della cultura di non poter influire sul fatti degli uomini?

Io lo nego. Se quasi mai (salvo in periodi isolati e oggi nell'Urss) la cultura ha potuto influire sui fatti degli uomini dipende solo dal modo in cui la cultura si è manifestata. Essa ha predicato, ha insegnato, ha elaborato princìpi e valori, ha scoperto continenti e costruito macchine, ma non si è identificata con la società, non ha governato con la società, non ha condotto eserciti per la società. Da che cosa la cultura trae motivo per elaborare i suoi principi e i suoi valori? Dallo spettacolo di ciò che l'uomo soffre nella società l'uomo ha sofferto nella società, l'uomo soffre. E che cosa fa la cultura per l'uomo che soffre? Cerca di consolarlo.

Per questo suo modo di consolatrice in cui si è manifestata fino ad oggi, la cultura non ha potuto impedire gli orrori del fascismo. Nessuna forza sociale era 'sua' in Italia o in Germania per impedire l'avvento al potere del fascismo, né erano 'suoi' i cannoni, gli aeroplani, i carri armati che avrebbero potuto impedire l'avventura d'Etiopia, l'intervento fascista in Spagna, l''Anschluss' o il patto di Monaco. Ma di chi se non di lei stessa è la colpa che le forze sociali non siano forze della cultura, e cannoni, gli aeroplani, i carri armati non siano 'suoi'?

La società non è cultura perché la cultura non è società. E la cultura non è società perché ha in sé l'eterna rinuncia del 'dare a Cesare' e perché i suoi principi sono soltanto consolatori, perché non sono tempestivamente rinnovatori ed efficacemente attuali, viventi con la società stessa come la società stessa vive. Potremo mai avere una cultura che sappia proteggere l'uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scongiuri, che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno, questa è la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura.

La cultura italiana è stata particolarmente provata nelle sue illusioni. Non vi è forse nessuno in Italia che ignori che cosa significhi la mortificazione dell'impotenza o un astratto furore. Continueremo, ciò malgrado, a seguire la strada che ancora oggi ci indicano i Thomas Mann e i Benedetto Croce? Io mi rivolgo a tutti gli intellettuali italiani che hanno conosciuto il fascismo. Non ai marxisti soltanto, ma anche agli idealisti, anche ai cattolici, anche al mistici. Vi sono ragioni dell'idealismo o del cattolicesimo che si oppongono alla trasformazione della cultura in una cultura capace di lottare contro la fame e le sofferenze?

Occuparsi del pane e del lavoro è ancora occuparsi dell''anima'. Mentre non volere occuparsi che dell'@<anima' lasciando a 'Cesare' di occuparsi come gli fa comodo del pane e del lavoro, è limitarsi ad avere una funzione intellettuale e dar modo a 'Cesare' (o a Donegani, a Pirelli, a Valletta di avere una funzione di dominio 'sull'anima' dell'uomo. Può il tentativo di far sorgere una nuova cultura che sia di difesa e non più di consolazione dell'uomo, interessare idealisti e i cattolici, meno di quanto interessi noi?


GIAN PIERO BRUNETTA - IL CINEMA NEOREALISTA


E' il primo grande fenomeno italiano di 'creatività collettivo', capace di superare i confini nazionali. Grazie al cinema neorealista l'Italia acquista grande prestigio culturale nel dopoguerra. I caratteri principali di questa gloriosa stagione artistica sono illustrati in queste pagine dallo storico del cinema Gian Piero Brunetta (n. 1942). Il 'neorealismo' è una rivoluzione nell'universo dei grande schermo: abbandonati i teatri di posa e la lingua letteraria, i nuovi registi e sceneggiatori cominciano trasportare le cineprese nelle strade, nelle piazze, tra le rovine di un paese sconvolto dalla guerra. Raccontando storie di vita quotidiana, fatte di grandi speranze e profonda miseria, il cinema si riappropria della realtà, allarga lo sguardo a personaggi e ambienti popolari esclusi dai film dell'epoca fascista.

Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Luchino Visconti diventano autori di capolavori apprezzati in tutto il mondo. E in questi anni l'arte cinematografica conquista dignità e autonomia, spez legami di dipendenza dal teatro e dalla letteratura.


Il cinema italiano del dopoguerra mette in opera anzitutto una serie di condizioni di riconoscibilità da parte dei destinatari e afferma, come prima condizione, l'esigenza comune di riappropriarsi dei poteri dello sguardo e muoversi senza limitazioni alla scoperta del visibile. Per tutti gli uomini del cinema la guerra segna uno spartiacque: un sistema produttivo e un modo di concepire e realizzare lo spettacolo cinematografico scompare, l'occhio dei registi e delle loro macchine da presa, assieme allo sguardo di sceneggiatori come Zavattini e Amidei, si dilata, diventa un iperocchio che cerca di estendere i suoi poteri stereoscopicamente o addirittura a 360 gradi, per poter mettere a fuoco dimensioni e zone del visibile finora negate o considerate tabù dal fascismo.

Rievocando, a qualche anno di distanza, la sensazione inebriante di vita che ricominciava, così Zavattini fa sentire il senso della grande speranza in un rinnovamento profondo della vita collettiva che riunisce masse di persone fino a poco prima estranee: 'In quel tempo, che sembra già remoto, scendevamo tutti come dal limbo e cominciavamo a guardarci intorno e avevamo dentro quella confusione mista a dolcezza e perfino angoscia di chi può fare tutto, dire tutto e si attarda, per un momento, davanti alle meraviglie del possibile'. L'occhio della cinepresa ha il dono di riflettere la vita e far riflettere sulla vita e l'individuo che se ne serve ritiene che il cinema sia un bene collettivo che va distribuito senza preclusioni o limitazioni.

Zavattini, padre e guida del movimento, più volte nei, suoi scritti mostra come la forza degli eventi abbia consentito una visione più netta del reale e una messa a fuoco contemporanea di tutti i piani del visibile, dal dettaglio all'infinito. Il cinema italiano scopre nel 1945, assieme a un prepotente desiderio di vedere, analizzare, una fame di realtà che finora nessuna cinematografia aveva manifestato in egual misura. E un'urgenza di tradurre subito quel poco di energia vitale esistente in energia culturale.

La sala cinematografica diventa uno dei luoghi per eccellenza della partecipazione civile, politica e morale.

Muovendo circolarmente l'occhio della macchina da presa i registi del primo dopoguerra si accorgono di dover rimisurare il mondo a partire da una nuova unità metrica, le macerie.

Dai resti di uno spazio distrutto, materialmente e moralmente, è necessario riprendere il cammino per redisporre, in base a nuovi criteri, le figure al suo interno e immaginare nuovi tipi di rapporto tra topologie individuali e collettive.

Gli uomini del cinema in quegli anni scoprono che, grazie a una coscienza sociale ritrovata anche a causa delle sofferenze della guerra, la realtà è fonte inesauribile di soggetti che hanno come eroi e protagonisti la gente comune ('Ogni momento - dirà ancora Zavattini - è indifferentemente ricco. La banalità non esiste').

Si riparte da zero. L'occhio della cinepresa pare ritornato al punto da cui hanno preso le mosse i fratelli Lumière.

Ripartire da zero significa riscoprire il mondo come se si presentasse per la prima volta di fronte agli occhi del regista.

Oltre alle superfici del visibile si dilatano contemporaneamente anche quelle del dicibile. Il cinema del fascismo era un cinema di discorsi fatici e di silenzi, quello del dopoguerra esalta il bisogno di comunicare, di giudicare, di interagire con gli altri.

Il cinema diventa - senza bisogno di alcuna azione diplomatica ulteriore - il mezzo più rapido per l'Italia vinta, lacerata, povera e priva di credibilità, per riguadagnarsi grandi crediti internazionali, il primo grande fenomeno di creatività collettiva, dopo il futurismo, capace di superare i confini nazionali e stabilire rapporti con tutti i paesi del mondo. 'Non c'è dubbio - scrive Georges Auriol nel 1946 sulla 'Révue du cinéma', la rivista che forse avrà più di ogni altra un peso determinante nel sostenere e far conoscere il nuovo cinema italiano - che oggi in Europa, se non nel mondo, è a Roma che il cinema ha la sua testa'. E non c'è alcun dubbio che, per alcuni anni, il cinema assume una leadership assoluta nel territorio della ricerca artistica italiana e mondiale.

La poetica del neorealismo non nasce comunque, e su questo esiste ormai un accordo storico-critico pressoché assoluto, da un progetto comune, ideato a tavolino, quanto dalla forza autorappresentativa, dalla constatazione della permeabilità totale tra spazio reale e spazio cinematografico, dalla voce, dal grido, dal pianto delle cose. I registi si sentono autorizzati, non tanto dalla critica, che tarda a prendere atto della novità del fenomeno, quanto dalla volontà congiunta delle cose e di un ipotetico destinatario, a vedere e a raccontare in nome di un Io collettivo. Si riscopre la partecipazione: i problemi del singolo diventano problemi di tutti. Dal suo primo film accanto a De Sica, Zavattini cerca di 'far vedere la reale durata del dolore dell'uomo e della sua presenza nel giorno: non un uomo metafisica, ma l'uomo che incontriamo all'angolo della nostra strada per cui a questa reale durata dovrà corrispondere un reale apporto della nostra solidarietà'. La maggior parte dell'azione di Roma città aperta si svolge a Trastevere, nel cuore della Roma popolare e mostra e misura la forza della partecipazione spontanea della popolazione civile alla lotta antifascista. In un dialogo tra Pina e Francesco si cerca di immaginare un mondo possibile di pace, nato grazie allo sforzo, al sacrificio e alla lotta collettiva: 'Pina: 'Ma quando finirà? Ci sono momenti che non ne posso più. St'inverno sembra che non debba finire mai Francesco: 'Finirà, Pina, finirà e tornerà pure la primavera e sarà più bella delle altre perché saremo liberi. Bisogna crederlo, bisogna volerlo. Noi lottiamo per una cosa che deve venire, che non può non venire. Forse la strada sarà lunga e difficile ma arriveremo e lo vedremo un mondo migliore! E soprattutto lo vedranno i nostri figli!'. Dai resti di un mondo sconvolto si tenta di far nascere e ipotizzare la crescita di un individuo capace di creare nuovi rapporti tra le persone e lo spazio in cui agiscono. Dalle macerie gran parte degli uomini del cinema italiano esce rigenerata, purificata e con un forte desiderio di muovere concordemente verso una medesima direzione. [ ] Lo sguardo neorealista è uno sguardo totalizzante e inclusivo che punta ad abbracciare il territorio italiano nella sua massima estensione fin dall'immediato dopoguerra (Paisà), a mostrare quanto più possibile la riduzione delle distanze e come tutto un popolo possa diventare protagonista di una gigantesca epopea i cui registri narrativi possano essere talora elevati, ora tragicomici, ma per lo più attestati su un piano di prosa e di sermo communis.

Con Rossellini, Germi, ma anche con Zavattini del soggetto di Italia mia, ci si sposta a e miniere siciliane alle risaie del vercellese, dalle foci del Po ai paesi della Ciociaria, dal rioni di Napoli alle borgate di Roma, si entra nelle case e si lascia che la macchina da presa incontri, senza mediazioni o distorsioni, la realtà. Lo sguardo di Zavattini è così potente che la sua Italia per qualche tempo coincide con quella immaginata dal cinema italiano. Si sogna di procedere per analogie e continuità di situazioni e di illuminare le sfaccettature di un mondo il cui cuore e la cui anima hanno vibrazioni e battiti omogenei. Si tratta anche di troncare ogni tipo di legame parassitario con la narrativa e il teatro e di iniziare finalmente uno svezzamento rispetto alla letteratura ('alle cui mammelle succhiano - dice ancora Zavattini - il 90% degli uomini di cinema') e di far trovare al cinema la piena autonomia e identificazione del sé.

Nel finale di Roma città aperta Rossellini ci mostra il gruppo di ragazzi che ha appena assistito alla fucilazione di Don Pietro riprendere a testa bassa, mano nella mano, lungo la via Nomentana il cammino verso la città. Tutte le successive strade visive del cinema italiano partono materialmente e idealmente da questo campo lungo', attraversato da un piccolo coro di figure silenziose, che camminano verso Roma in una luminosa mattina dell'estate del 1944. P, un cammino pieno di incertezze, ma il sacrificio di Don Pietro diventa una stazione necessaria della via Crucis di una nazione sconfitta per accedere al tempo della pace e della speranza. In un paese la cui unità morale è distrutta i ragazzi sono le uniche figure innocenti a cui si può affidare il compito di aprire nuove strade. In questa scena conclusiva, dopo aver creato una congruenza perfetta tra lo sguardo dei ragazzi e quello degli spettatori, Rossellini mette in prospettiva, lungo lo stesso asse visivo, gli spettatori, i protagonisti dell'azione e lo spazio urbano. [ ]

La piazza perde il suo ruolo di luogo geometrico e di punto privilegiato di polarizzazione delle speranze e degli sguardi collettivi, relegata ai margini della scena cinematografica che vuole cominciare a ricomporre i rapporti e i frammenti di un corpo sociale visto finora soltanto nella sua passività e subalternità.

Muovendo circolarmente l'occhio della macchina da presa, il cinema scopre che le case, i vicoli, le chiese, i teatri, le sale cinematografiche, le stazioni, i campi possono, in tutto e per tutto, sostituirsi naturalmente alle funzioni sociali e rituali assolte dalla piazza, luogo ormai compromesso.

Uno dei punti di forza del neorealismo è dato proprio dalla scoperta delle possibilità di ridistribuzione e reinvenzione delle funzioni di determinati spazi all'interno della città. Le periferie, i quartieri proletari, i nuovi complessi dell'edilizia popolare, i mercati rionali, la vita nel bassi e nel vicoli napoletani o nei piccoli paesi rurali (da Ladri di biciclette a Vita da cani, da Guardie e ladri a Napoletani a Milano, da Cani e gatti a Le infedeli, da Camilla a Le ragazze di Piazza di Spagna)' diventano i nuovi scenari naturali entro cui far muovere una folla di nuovi protagonisti sociali.

Anche lo spazio della casa si dilata e trasforma in misura identica, se non superiore, alle modifiche dello spazio urbanistico. Gli interni diventano termometri molto sensibili ai mutamenti degli standard di vita La casa è un microcosmo dove coesistono i valori del passato con i simboli della modernità e del benessere.

Mentre da una parte vengono ridefinite le coordinate visive, dall'altra, su un piano non meno importante, avviene un vero e proprio scardinamento dell'uso linguistico, una dilatazione lessicale, di scoperta delle possibilità di interazioni linguistiche e comunicative non paragonabile a quella del quindicennio precedente.

I personaggi dei primi film del neorealismo immettono nella comunicazione linguistica discorsi che finora non si erano mai sentiti. Le donne non usano solo linguaggi di tipo sentimentale-amoroso, ma parlano del costo della vita, di difficoltà del vivere quotidiano, di lotta contro il fascismo, di disoccupazione. 1 bambini - da Paisà a Sciuscià a Abbasso la miseria 'Come vivi', 'M'arangio'; 'Dove dormi?', 'Dove capita') - subiscono processi di crescita accelerata, sono obbligati a diventare precocemente uomini C'è nel film di Rossellini, De Sica, Comencini una straordinaria capacità di mostrare livelli complessi di comunicazione tra adulti e bambini, le imprevedibili competenze e acquisizioni dei linguaggi dei grandi da parte dei bambini come prima drammatica conseguenza dello sconvolgimento della guerra. Vi sono film come Ladri di biciclette in cui attraverso il parlato ma anche i silenzi e i gesti - è esplorata a tutto campo una gamma di rapporti tra uomo e bambino assolutamente inedita per il cinema anteriore.

In questo paesaggio sociolinguistico in ebollizione sono però le donne a far sentire, in modo più netto il mutamento di stato: per loro il percorso è ancora lungo, ma la guerra le ha trasformate e ha assegnato loro un ruolo primario in molti settori. La coscienza e lo spirito combattivo acquisiti nella lotta per la sopravvivenza le accompagna anche nel dopoguerra.

Dal 1945 le si vede combattere su più fronti: su quello esterno per acquisire una progressiva anche se parziale autonomia economica e sociale e su quello interno per mutare i rapporti interpersonali tra le pareti domestiche.

La spinta al sistema linguistico impressa da Rossellini e i successivi tentativi di estremizzazione d'uso dei dialetti - si pensi alla versione siciliana della Terra trema - fanno sì che per qualche tempo si abbia l'impressione di andare alla scoperta, con il cinema, dell'atlante dei dialetti italiani [ ]

In realtà assai presto il neorealismo comincia a produrre i propri stereotipi, a praticare un progressivo lavoro di riduzionismo lessicale e sintattico nei confronti della maggior parte dei dialetti. Con l'eccezione del napoletano e soprattutto del romanesco, che diventeranno la lingua franca del cinema italiano degli anni cinquanta. La gente veneta, o emiliano-romagnola, o toscana, o piemontese, o ligure - per non parlare di aree come quella calabra o pugliese - salvo che negli anni della ricostruzione, contribuisce in misura molto modesta a offrire un quadro reale della ricchezza e molteplicità dei dialetti italiani; il loro ruolo diventa quasi ininfluente sul piano dello sviluppo complessivo dell'assetto del parlato.

Il veneto appare come terra di preti, camerieri ed alpini, la Sicilia da subito attira l'attenzione per la presenza della mafia, anche se le regioni che richiamano a Sud Visconti o Rossellini sono di giungere a lambire, nei luoghi più significativi della realtà italiana, il nucleo profondo di realtà sociali, mitologiche ed essenziali. In Riso amaro le mondine che parlano veneto sono figure assorbite dallo sfondo e Marco, il personaggio interpretato da Raf Vallone, pur dichiarandosi veneto, come anche Francesca (Silvana Mangano), parla in italiano.

Dalla fine degli anni Quaranta l'uso dei dialetti servirà a misurare le distanze antropologiche e culturali tra una regione e l'altra.

Il viaggio attraverso l'Italia del Camminino della speranza e di altri film diventa un percorso lungo territori sconosciuti, usi e costumi misteriosi. [ ]

La nuova nazione, riunita sotto la bandiera della democrazia, di fatto appare composta da tante isole sociali, economiche e culturali distanti e non comunicanti tra loro.

Anche se i suoi abitanti cominciano a manifestare, alla fine del periodo della ricostruzione, un gran desiderio di muoversi, di abbandonare lo spazio placentare della casa, del quartiere e del paese, di inforcare la bicicletta o il motoscooter per spostarsi in massa alla conquista di spazi vicini e lontani alla portata di nuovi desideri e di maggiori possibilità economiche, non risulteranno mai facilmente integrabili e ricomponibili sotto un minimo comun denominatore o all'interno di uno spazio ideale o di valori accettati da tutti.


ENNIO DI NOLFO - DOPO IL 18 APRILE -


I risultati delle prime elezioni Parlamentari del 1948 rappresentano un momento fondamentale della vita politica italiana: viene sancita l'egemonia della Dc e l'esclusione del Pci dal governo.

Così, dopo una lunga ed accesa campagna elettorale, il paese entra stabilmente a far parte del consesso delle democrazie occidentali. In Le paure e le speranze degli Italiani, pubblicato nel 1986, Ennio Di Nolfo (n. 1930), specialista di storia delle relazioni internazionali e studioso della società italiana, ricostruisce la mentalità delle masse negli anni del dopoguerra. In queste pagine Di Nolfo, avvalendosi anche di fonti letterarie, descrive le motivazioni psicologiche dei successo democristiano e della sconfitta delle sinistre nelle elezioni del 1948. Da allora comincia un'epoca nuova per l'Italia, caratterizzata dall'abbandono delle speranze di rigenerazione sociale e da un atteggiamento più concreto e attento alle trasformazioni economiche. Di Nolfo individua le ragioni della vittoria elettorale dei democristiani nella paura di gran parte degli italiani, spaventati dal radicalismo dei partiti di sinistra.


La vittoria democristiana era il risultato della paura. Questa veniva dal profondo e sarebbe durata a lungo, poiché nel mesi che la precedettero furono messe in moto motivazioni elementari e fondamentali per la vita dell'uomo. Era una vittoria di tutti coloro che avevano avuto paura della fame, paura della miseria, paura dell'anticristo, paura di perdere la libertà, paura che le promesse delle sinistre fossero soltanto ingannevoli parole di potenziali dittatori: tutte paure fondate, giustificate o comunque comprensibili. Se la paura è una delle motivazioni elementari della psiche umana perché meravigliarsi che, una volta messo in moto il meccanismo, esso abbia un effetto così trascinante? Certo, accanto alle paure spiegabili, alle paure 'virili', vi erano anche paure più nascoste, talore inconsce, comunque più volgari, poiché legate a un'altra paura di base: quella di perdere i propri privilegi in una società più giusta. Ma le sinistre promettevano una società più giusta che davano poche garanzie di saper attuare. Sul piano psicologico ciò che provocò la loro sconfitta fu soprattutto l'incapacità di rendere credibile ciò che promettevano. Dall'Urss e dall'Europa orientale giungevano notizie terribili, che invano i comunisti cercavano di smentire. La storia si sarebbe incaricata, più tardi, di confermare che il terrore staliniano non era solo una invenzione della propaganda capitalistica. Il non essere riusciti a allontanare dalle proprie spalle l'immagine di questo terrore, il non aver saputo essere prima di tutto comunisti italiani spiegava in gran parte la sconfitta. [ ]

Cessava un'epoca e ne incominciava una nuova. Cessava l'epoca delle speranze di rigenerazione mediante una trasformazione dell'ordine sociale e ne incominciava un'altra: l'epoca in cui la rigenerazione non importava più, o importava di meno, e ciascuno cercava di collocarsi nel posto giusto per trarre profitto della grande trasformazione industriale che stava verificandosi. Certo mutava la qualità 'politica', in senso lato, delle motivazioni umane; si viveva a un livello di tensione morale più basso e di moralismo più pertinace e invadente. Non si esigevano più gli assoluti; si affermava il pragmatismo. Corrado Alvaro annotava nel suo diario: 'La società clericale si regge, malgrado tutto, sulle istituzioni, scuole, soccorsi, minestre dei poveri, istituti di beneficenza e sanitari ecc. La società laica italiana, se vuole contrastarvi, deve cominciare da queste cose'. Pareva ad Alvaro che stesse per affermarsi 'una civiltà sonnolenta in cui [era] inutile affannarsi'. Pensava: 'Avremo i preti per venticinque anni. Il popolo italiano si adatta facilmente al nuovo padrone, ne simula i modi e ne adotta le opinioni'.

Vi furono tra i letterati coloro che avvertirono con acutezza la profondità della svolta e il ricomporsi di vecchie situazioni. Nel 1952 Italo Calvino, che era già stato uno degli esponenti più maturi del neorealismo, approdava alla favola allegorica carica di significati contingenti. Il breve racconto dal titolo Il visconte dimezzato tocca, attraverso l'allucinata descrizione della crisi di identità di un giovane, la dilacerazione dell'essere umano dinanzi alle contraddizioni della società. Medardo, visconte di Terralba, non distingue i sentimenti: 'Era allora nella prima giovinezza: l'età in cui i sentimenti stanno tutti in uno slancio confuso, non distinti ancora in male e in bene; l'età in cui ogni nuova esperienza, anche macabra e inumana, è tutta trepida e calda d'amore per la vita'. Per lui 'le cose erano intere e indiscutibili, e tale era lui stesso. Sentiva il sangue [della] guerra crudele, sparso per mille rivi sulla terra, giungere fino a lui, e se ne lasciava lambire senza provare ne accanimento né pietà'. Pensava: 'Nulla piace agli uomini quanto avere dei nemici e poi vedere se sono proprio come ci si immagina'. In battaglia fu orrendamente mutilato; di lui rimasero due parti, perfettamente eguali, ma una tutta la somma del male che è nell'uomo; l'altra il concentrato del bene che è in esso. La parte malvagia governava con ferocia ineguagliata; la parte buona vive va, celata, della sua innocente bontà. Separatamente. Il malvagio credeva che l'essere dimezzato fosse un privilegio: 'Ero intero', diceva al nipote, 'e tutte le cose erano per me naturali e confuse, stupide come l'aria; credevo di veder tutto e non era che la scorza. Se mai tu diventerai metà di te stesso capirai cose al di là della comune intelligenza dei cervelli interi. Avrai perso metà di te e de mondo, ma la metà rimasta sarà più profonda e preziosa. E tu pure vorrai che tutto sia dimezzato e straziato a tua immagine, perché bellezza e sapienza e giustizia ci sono solo in ciò che è fatto a brani E il buono ribatteva, parlando alla sua donna: 'Questo è il bene dell'esser dimezzato: il capire d'ogni persona e cosa al mondo la pena che ognuno e ognuna ha per la propria incompletezza. lo ero intero e non capivo, e mi muovevo sordo e incomunicabile tra i dolori e le ferite seminate dovunque, là dove meno uno intero osa credere. Non 10 solo sono un essere spaccato e divelto, ma tu pure e tutti. Ecco ora io ho una fraternità che prima, da intero, non conoscevo: quella con tutte le mutilazioni e le mancanze del mondo'. La vita dei sudditi trascorreva tra carità e terrore; ma quando la metà buona apparve e agi, essa combinò più guai che cose giuste. Si incominciava a dire: 'Delle due metà è peggio la buona della grama'.

Così Calvino dimostrava la disumanità degli assolutismi, la inumanità dell'essere o pensare manicheo. E, sotto la sua allegoria, si intravvedeva la storia dell'Italia recente, dello scontro appena vissuto, della contrapposizione tra tutto il bene e tutto il male e l'ansia di superare la dicotomia. Medardo, il visconte dimezzato, fu ricomposto grazie a uno stratagemma, visse felice e la vita dei suoi sudditi mutò in meglio. Non fu l'epoca di 'felicità meravigliosa' che qualcuno s'era aspettato: 'Ma è chiaro che non basta un visconte completo perché diventi completo tutto il mondo', concludeva con sapienza storicistica il narratore. La vita era forse meno affascinante, e il 'fervore dell'interezza' originava tristezza e vuoto. Andarsene? Impossibile: 'Già le navi stanno scomparendo all'orizzonte e io rimasi qui, in questo nostro mondo pieno di responsabilità e di fuochi fatui'. Era la fine delle grandi illusioni, il ritorno alle proporzioni più meschine e più ridotte del quotidiano reale. Nella più tarda prefazione a Ultimo venne il corvo, Calvino spiega la fine delle grandi illusioni dell'uomo dimidiato e il cambiamento verificatosi con gli anni cinquanta: 'Pavese morto, Vittorini chiuso in un silenzio d'opposizione, Moravia che in un contesto diverso veniva acquistando un altro significato (non più esistenziale ma naturalistico) e il romanzo italiano prendeva il suo corso elegiaco-moderato sociologico in cui tutti finimmo per scavarci una nicchia più o meno comoda (o per trovare le nostre scappatoie)'.

Calvino alludeva al mondo dei narratori, ma la sua analisi poteva essere estesa a gran parte degli intellettuali italiani. La nuova Italia che stava nascendo non sarebbe stata nutrita da ardimenti ideologici, ma dal culto delle conquiste concrete. Si formava un modo di vivere senza grandi illusioni e con una durezza di rapporti sociali tipica delle età di trasformazione. Ma era una società che, se aveva smesso di dare, per il momento, grandi frutti artistici, dava frutti sempre più promettenti nell'economia, nella scoperta degli usi industriali della fantasia italiana.


GIOVANNI RUSSO - LA GERARCHIA DEL LATIFONDO -


L'immobilità e la povertà delle compagne, soffocate da improduttive colture estensive e opprimenti gerarchie sociali, sono uno degli aspetti più caratterizzanti dei ritardo economico delle regioni meridionali dello penisola. In un libro intitolato Baroni e contadini, vincitore del Premio Viareggio nel 1955, il giornalista esperto dei problemi dei Mezzogiorno Giovanni Russo (n. 1925) descrive efficacemente queste recitò di sottosviluppo, solo in parte trasformate dallo riforma agroria del 1950 e dalle successive politiche di intervento statale. In queste pagine Russo racconto l'organizzazione dei lavoro in un centro agricolo calabrese: dai rapporti tra proprietari e coltivatori alla tenace conservazione di tradizioni vessatorie, all'osservanza di rigide regole sociali incapaci di soddisfare i bisogni primari di una gran parte della popolazione. Un mondo lontano dai processi di moderniizzazione che trasformano le regioni settentrionali della penisola: pochi grondi latifondisti ostacolano l'adozione di innovativi e produttivi sistemi di coltivazione.


A Isola Capo Rizzuto è possibile cogliere l'articolazione sociale ed economica del latifondo calabrese, scrutare gli intricati rapporti che legano gli uomini alla terra. Qui la proprietà non ha subito nessuna di quelle frane che si sono verificate in altri paesi del crotonese, è ancora legata ai vecchi nomi baronali dei Barracco, dei Berlingieri, dei Galluccio, dei Gaetani, che continuano a governare da secoli con i loro scrivani, i loro tavoli tarlati, i vecchi registri polverosi. Isola Capo Rizzuto dista venti chilometri da Crotone, ma è come se fosse distante da ogni centro civile. 2 veramente un'isola in un mare di terra desolata, che si stende monotona allo sguardo, interrotta solo da rade piantagioni di olivi e da boschetti di alberi infruttiferi davanti a cui è posto un cartello: 'Divieto di caccia'. Queste tre parole sono le uniche scritte che si leggono insieme con le lettere DDTI marcate sulle porte delle case, per le strade che portano ai paesi del crotonese. I boschetti, come le grandi tenute di Oliveto della Portella del barone Galluccio o quella di Policoro del barone Berlingieri, sono riservati alla caccia. Presso Isola il barone Barracco possiede un bosco dove è ancora possibile incontrare dei daini. La caccia è, in realtà, l'unica passione della nobiltà calabrese.

Nel salotti delle poche case di baroni intraviste a Crotone, i quadri rappresentavano solo scene di caccia e i ninnoli cani o cinghiali feriti. Isola è un paese relativamente giovane, sorto negli ultimi cinquant'anni, ma le case sparse disordinatamente in mezzo alla pianura, come le pecore e le vacche che pascolano al loro margini, sembrano già decrepite, non si distinguono dalle vecchie case di Strongoli, di Cutro o di Melissa. Il colore del latifondo le ha rese uguali, un colore che nasce dal fango delle strade non pavimentate, dalla trascuratezza e dalla miseria. A Strongoli si osservava almeno un simulacro di vita civile, una piazza pavimentata, una chiesa, un palazzo municipale che testimoniano di una civiltà paesana. Isola invece è veramente figlia del latifondo: non esiste una vera piazza o una vera chiesa, solo larghi spiazzi e strade segnate dalle carreggiate dei carretti: è informe e indefinita come la terra che la circonda.

I contadini sono tutti nelle case, ché in questi giorni di pioggia non si lavora nelle terre. Solo per i pastori e i vaccari il lavoro non cessa. Qualche carrettiere gira per le strade insieme con i cani e i maiali. Un maniscalco sta mettendo i ferri a un asino in una baracca di legno dove ha l'officina. Un gruppo di contadini aspetta in una stanza a pianterreno, nel Comune, per presentare delle carte a un impiegato. Entro nella stanza per ripararmi dalla pioggia. Domando chi è il maggiore proprietario del paese. Questo, mi rispondono, è il regno di Barracco, uno dei maggiori latifondisti della Calabria (possiede 14.500 ettari di terreno nella Sila e nel crotonese) che è proprietario di 5460 ettari di terreno coltivato a grano e ad olivi e di migliaia di pecore e di bovini. Gli altri proprietari sono il conte Gaetani che possiede 2227 ettari, la baronessa Giuseppina Galluccio che ne ha 1300 e il barone Berlingieri che ne possiede 668. Vi sono poi una trentina di piccoli e medi proprietari che hanno, in tutto, cinque o seicento ettari e quattrocentotrentasette famiglie di contadini che sono proprietarie di 27 ettari, neppure un tomolo di terra a testa.

Il barone Barracco viene ad Isola solo per pochi giorni all'anno e non esce quasi mai per il paese. Abita in una grossa casa le cui persiane verdi sono ora ermeticamente chiuse e che ha fatto recintare di fasce di lamiera per non essere disturbato dagli sguardi dei contadini, che avevano l'abitudine, tornando dal lavoro, di fermarsi dinanzi ai cancelli a curiosare. Ora non lo vede nessuno. Soltanto qualche volta compare sul balcone, dopo il pranzo, quando è buon tempo. Non conosce nessuno dei suoi piccoli affittuari. 'E' più facile - mi dice un vecchio contadino - parlare con Dio che con il barone Barracco'. I contadini possono aver contatti solo con l'amministrazione che è tenuta da impiegati romani i quali vivono qui tutto l'anno. Ma anche costoro li ricevono quando fa loro comodo e spesso li cacciano via in malo modo.

Qui esiste ancora un rigido distacco e la forma di una gerarchia secolare. I contadini debbono seguire la via gerarchica. Il pastore non può rivolgere le sue lamentele che al caporale da cui direttamente dipende, il massaio al fattore e così via. Nell'amministrazione Barracco questa gerarchia è strettamente osservata. Il conte Gaetani e il barone Berlingieri sono invece meno rigidi. Il barone è il primo personaggio della società di Isola, un personaggio sempre presente nella vita e nei discorsi della gente, anche se egli viene ad Isola per pochi giorni. Qui ogni cosa porta il suo nome, il segno del suo diritto. Ma accanto a lui vi è un altro personaggio, il grosso affittuario. Di fronte al grosso affittuario e al barone stanno i terrageristi, gli operai fissi, i carrettieri e i pastori.

Quasi tutti i contadini di Isola (Isola conta 6400 abitanti) sono terrageristi. Giuseppe è un terragerista della baronessa Galluccio. Il terragerista coltiva la terra che il barone o il grosso affittuario non ha tenuto per sé perché poco feconda o posta in luogo disagiato. Si tratta di pochi tomoli che conduce per il periodo della coltura, pagando un canone in natura. Il contratto di terratico4 è un contratto tipico del latifondo. Non esiste altra forma di affitto ed è esclusa ogni forma di compartecipazione (come la mezzadria, ecc.) che potrebbe porre il contadino su un piano diverso da quello della dipendenza e permettergli di variare le colture e di pensare alla terra con una prospettiva più vasta. La vita del terragerista è misera. Egli riesce a stento a procurarsi il necessario per dar da mangiare a sé e ai suoi figli. Su poche decine di tomoli di terra vivono, a volte, due o tre famiglie. Giuseppe, per esempio, che ha dieci figli di cui tre sposati, vive con la sua famiglia e quella dei suoi figli coi proventi dei 42 tomoli di terra della baronessa Galluccio. Egli ricava dalla sua terra 100 quintali di grano all'anno, ma l'affitto, che nel 1945 era di 35 mila lire all'anno, è salito quest'anno a 225 mila lire, ché a tanto corrispondono i 44 quintali di grano che versa alla baronessa. Riesce a vivere perché possiede qualche vacca di cui vende i vitelli e il latte. Ma, per rinnovare l'affitto, due anni fa, egli ha dovuto riconoscere che quattro casupole, da lui costruite sul terreno per riparare il bestiame e ricoverare chi lavorava la terra, erano di proprietà della baronessa. 1 discorsi dei terrageristi sono tutti pieni di storie di piccoli e grandi soprusi, di miseria e di debiti. Quasi i sono affogati nel debiti che contraggono soprattutto per procurarsi il grano per la semina, che non viene loro anticipato dal padrone. E guai per chi non riesce a procurarsi una firma di garanzia per avere il danaro dalla banca. Cade nelle mani degli usurai (piccoli proprietari del posto) che gli prestano il danaro o il grano ad alto interesse. Deve restituire al tempo del raccolto pressocché il doppio di quello che ha avuto; e, una volta saldata la catena, non è più possibile liberarsene. La vita del terragerista è una continua lotta con il suo ciuco, la zappa e il piccolo aratro arrugginito, contro la fame.


SILVIO LANARO - I NUOVI CONSUMI -


Negli anni più ricchi del 'miracolo economico' avviene un'inarrestabile crescita e trasformazione dei consumi per milioni di italiani. In queste pagine, tratte dallo Storia dell'Italia repubblicana pubblicato nel 1992, lo storico Silvio Lanaro, studioso della culture e dello società italiano, racconta i principali cambiamenti nei comportamenti pubblici e privati avviati all'espansione economica. Dal cibo ci vestiti, ci modelli estetici, all'impiego del tempo libero, gran porte degli italiani trasformano le proprie abitudini e adottano nuovi stili di vita ispirati anche dalla crescente influenza dei mezzi di comunicazione di massa. Soprattutto nelle grandi metropoli dei Nord, ha inizio un processo di nazionalizzazione dei consumatori che, secondo Lonaro, trova un limite proprio nell'incapacità di fondarsi su soldi valori civili. Gli italiani possono godere di un generale miglioramento delle condizioni di vita ma l'assenza di una forte identità nazionale, fondata su princìpi etico-potitici, condiziono lo sviluppo della società.


Nel 1962 - quando la spesa per commestibili e bevande è ancora pari al 47,5% delle uscite complessive delle famiglie, e tocca il 51,4% se vi si aggiunge il tabacco - la tavola degli italiani è già imbandita in modo diverso da quello proprio di un passato anche recente: i cereali secondari (orzo, segala, mais, avena) sono praticamente spariti, ma in virtù del pane bianco e della pasta di grano duro il frumento rappresenta ancora il 38% dell'apporto calorico alla dieta giornaliera; i legumi - fagioli, piselli, fave, ceci, lenticchie, le cosiddette 'proteine dei poveri' - non troneggiano più come piatto-base ma vengono ricuperati sotto forma di piatto di contorno; i condimenti di grasso suino - in primo luogo il lardo e lo strutto - subiscono un ostracismo definitivo, ma le differenze fra l'area padana del burro e l'area mediterranea dell'olio permangono inalterate; si modificano i protocolli di cottura delle vivande - con la crescente abitudine di lessare anziché friggere - ma il vino continua a innaffiare i pranzi e le cene.

L'autentica 'rivoluzione' di questi anni è la comparsa quotidiana della carne, stimolata anche da una campagna delle autorità sanitarie che si preoccupano per le carenze emopoietiche e lo scarso sviluppo antropometrico della popolazione. Prende corpo così un menu-tipo composto da pasta asciutta, 'fettina' e ortaggi freschi (facilmente conservabili nei frigoriferi), che solo in seguito di tempo sarà scalzato dai cibi in scatola e che riproduce i riti gastronomici delle festività: non per nulla uno degli slogan pubblicitari più fortunati dell'epoca è 'Con pasta Barilla è sempre domenica'.

Il consumismo, com'è noto, esige una disponibilità discrezionale di reddito e un'accentuata omogeneità di gusti: per questo motivo, forse, nulla interpreta le leggi che lo governano meglio dell'abbigliamento e della moda, dove subito trionfano gli abiti confezionati e i prét-à-porter. Ma la moda, ora, non è più 'voga vestimentaria' che nasce dall'accostamento di tessuti, profili, tagli, colori, perché non mira a rinnovare la foggia degli indumenti bensì a sottolineare la struttura del corpo di chi li indossa; e poiché la più potente metafora del 'nuovo' è la gioventù, il corpo giovane dev'essere snello e flessuoso, elastico e asciutto, longilineo e sportivo.

Assecondato dal divismo cinematografico, si afferma anche sessualmente un nuovo ideale di donne: al posto di Silvana Pampanini e della Gina Lollobrigida del 'realismo rosa' rotonde e prosperose, furoreggia la Catherine Spaak della commedia all'italiana, delicata, filiforme, ancora intrisa di acerbità. Fenomeno inedito per la penisola, almeno su scala di massa, anche la moda maschile si accampa come moda del corpo: abiti stretti e affusolati per uomini magri e di alta statura. L'obesità diventa oggetto di dileggio: gli attori comici e i caratteristi dei film - che fino a poco tempo prima erano tipi segaligni con qualche difetto somatico, come un mento storto o un naso camuso - sono sempre più spesso grassoni flaccidi, piagnucolosi, importuni. Se il 'vestire giovane' presuppone l'uniformità dei gusti, tuttavia, nelle sue forme estreme influisce in senso opposto sulla stratificazione sociale. Quando esibiscono la maglietta, i blue-ieans e il giaccone di cuoio, i giovani diventano un gruppo, una classe, una categoria, indipendentemente dal ruolo che svolgono, dall'ambiente a cui appartengono e dal mezzi finanziari di cui sono provvisti: anche se in Italia le bande di teddy boys o di blousons noirs non sono diffuse come all'estero, aggregati molto simili fioriscono nelle città davanti agli schermi che proiettano Gioventù bruciata con James Dean e Il selvaggio con Marlon Brando, mentre l'industria del tempo libero li induce 'n tentazione con apparecchi da divertimento gratuiti e puerili (il flipper, il iuke-box, la slot-machine) e la cultura perbenista li addita alla pubblica esecrazione magari presentando nel 1958 un film di Marcel Carné - Les tricheurs _ Sotto il titolo truffaldino e al tempo stesso ammiccante di Peccatori in blue jeans.

Questi e altri comportamenti-standard sono fortemente condizionati dalla pubblicità, che nell'era delle comunicazioni di massa non si limita a vantare i pregi intrinseci di una merce ma suggerisce stili di vita che non si possono adottare senza l'uso di determinati prodotti né si possono eludere senza una più o meno esplicita riprovazione sociale.

Quasi nessuno, oggi, demonizza più il consumo come espressione di licenza e sfrenatezza - sintomi magari di inconsce frustrazioni - e la società che ne deriva come un congegno perverso che priva gli individui di ogni soggettività e li condanna all'interdizione da ogni progetto personale. Il consumo può rivelarsi benissimo un esercizio di libertà, come può arricchire la vita di esperienze positive e regolare i rapporti sociali secondo modalità tendenzialmente 'giuste': occorre tuttavia, perché ciò possa accadere, che un'educazione e una cultura lo subordinino a valori che in sé e per se esso non contempla, neutralizzandone o almeno attenuandone la micidiale vocazione dissipatrice. Quando è immune del tutto da presupposti etici - o peggio ancora ambisce a fondare una morale in cui il piacere, la sicurezza e la gioia sono pura funzione del possesso e della performance garantita dalle 'cose' - la sua 'autosufficienza ideologica' diventa tale da 'creare automaticamente un potere che non sa più che farsene di Chiesa, Patria, Famiglia e altre ubbie affini'.

Ora, nell'Italia degli anni sessanta il consumo assurge a divinità suprema perché una congiuntura storica assolutamente straordinaria - il fatto che la sua espansione coincida con l'effettiva unificazione sociale e demografica del paese - lo carica di cifre simboliche addizionali svincolandolo da obbedienze, discipline e cautele di qualsiasi natura: in altri termini, perché lo trasforma in un segnale di riconoscimento che permette agli uomini del nord e del sud, della città e della campagna, delle classi elevate e dei ceti popolari di accettarsi reciprocamente con una naturalezza che chiesa, lingua, partiti, istituzioni pubbliche e servizio militare non erano mai riusciti ad assicurare.


PAOLO VOLPONI - L'ENTRATA IN FABBRICA -


Dopo la guerra, moltissimi giovani abandonano i campi e cominciano a lavorare in fabbrica.

La rapida espansione industriale, avviato e metà degli anni Cinquanta, moltiplica i posti di lavoro nelle catene di montoggio.

Agli occhi delle nuove generazioni l'industria cominciò ad apparire come un occasione di riscatto sociale. Con il romanzo Memoriale, dei 1962, Paolo Volponi (1924-1994) si rivelò uno degli scrittori italiani più attenti ai mutamenti del mondo dei lovoro, in particolar modo degli operai. Questo libro racconto la storia di Albino Saluggia, un giovane reduce dallo prigionia in Germania e offetto da disturbi psichici, che guarda con gronde speranza al lavoro in fabbrica, convinto che posso rappresentare la sua realizzazione. Ma l'esperienza si rivela presto tragica e la fabbrica si trasforma da mito in luogo di mortificazione, emarginazione e poi in vera e propria ossessione. In queste pagine il protagonista racconto in primo persona l'inizio del suo lavoro di operaio in un'industria meccanica piemontese l'eccitazione della vigilia, l'accoglienza dei colleghi, la scoperta della fabbrica.


La notte fu brevissima anche se il mio sonno fu spezzato due o tre volte da un sentimento di paura. Ma esso non doveva essere vivo nella mia coscienza perché appena svegliato riuscivo a controllarmi e la sua mano lasciava subito la presa dentro di me. Subentrava un senso gelido d'attesa che mi faceva pensare lucidamente alle cose che stavano per succedermi; all'ingresso in fabbrica, al mettermi insieme a tanti altri a lavorare, al viaggiare, al guadagnare e allo spendere un salario. Queste cose nel giro di un momento mi apparivano inevitabili e sicure come per una predestinazione o come se dovessi ripeterle dopo che erano già avvenute nella mia vita. Il senso di gelido di questi attimi di risveglio lo sentivo anche per tutto il corpo e mi spingeva a tirarmi il lenzuolo addosso, a godere del tepore del letto, a riprendere sonno. E mi riaddormentavo sicuro sulle prove del giorno dopo, che avrebbero seguito d'un passo il mio risveglio, senz'altra attesa o confusione.

Tutto avvenne così ed entrai nella fabbrica, limpido come un vetro. Nello spogliatoio mi cambiai in un attimo e vestito con la tuta raggiunsi il mio reparto. Davanti a Crosset mi sentivo tenero e ben disposto come un bambino. La fresatrice che mi affidò non era quella che egli stava riparando quando lo conobbi. Per i primi quindici giorni non ebbi una macchina mia e come gli altri nuovi lavoravo a intervallo su macchine diverse. Questo mi teneva in agitazione perché sentivo che qualcosa mancava alla mia vita nuova; mi pareva quasi di non poter regolare le mie forze, di non avere un punto fermo. In questa condizione il lavoro mi angustiava e mi stimolava a un grande accanimento. Mi sentivo stanco soltanto alla sera quando salivo sul pullman. Allora la mia stanchezza mi cadeva tutta addosso anche per il gran chiasso che gli operai viaggiatori facevano. Erano tutti dei paesi intorno al lago di Candia; dei paesi dell'interno, lontani dalla strada nazionale e dalla ferrovia. Sembrava che il ritrovarsi insieme e il viaggiare verso casa li rianimasse, restituendo loro lingua e occhi. Nella fabbrica non avevo mai visto esplosioni come quelle che avvenivano non appena gli operai appoggiavano le scarpe sui gradini della corriera. Qui, se parlavano della fabbrica ne parlavano come gente che, finalmente liberatasi, non avrebbe dovuto farci più ritorno; anche quelli che vi lavoravano da più di vent'anni. Parlavano con impeto, quasi con violenza, e si disponevano al viaggio, eccitandosi, come a una sbornia paesana. Qualche sera, in quel primo mese di luglio, se il tempo minacciava di cambiare, parlavano della campagna, dei covoni di grano e della vigna. In questi discorsi si calmavano e trovavano una profonda serietà; guardavano dai finestrini verso le Alpi e poi verso la pianura e la Dora, commentando la luce e le arie e sovente concludevano nel silenzio. Nella fabbrica ogni discorso era più difficile - e così ho potuto sentire anche più tardi - e finiva sempre in risate, in malignità o in sfoghi di risentimento e di disprezzo. lo, nella fabbrica, anche se ancora aspettavo, sentivo il bisogno di qualcuno sincero, il bisogno di parlare con qualcuno che potesse aiutarmi; ma nel reparto non avevo ancora visto un compagno in grado di farlo. Non correva una vera amicizia e i discorsi andavano su cose trascurabili e si fermavano sulle barzellette e sulle maldicenze. Il più gentile con me era sempre Pinna, che però spesso non mi capiva. Non aveva capito nemmeno Crosset, e insieme a tutti gli altri rideva quando Manlio, il più vecchio del nostro reparto, andava a parlare con Crosset davanti alla scrivania facendo le corna con la mano dietro la schiena.

Questa storia cominciò il terzo giorno che noi quattro nuovi eravamo arrivati al reparto fresatrici e mi mise subito in uno stato di diffidenza nei confronti di tutti i miei compagni. Anche il più giovane, che aveva soltanto diciassette anni, rideva e siccome era il più vicino alla scrivania, rideva senza far chiasso, tutto rosso, con la testa cacciata tra la tavola della macchina e i morsetti. Io sentivo la bontà e la bravura di Crosset e mi dispiaceva che lo deridessero a quel modo. Così non potevo accettare i discorsi volgari e a doppio senso fatti con le ragazze, alla mensa e per i corridoi, nei quali Pinna era un maestro, uno di quelli con maggior successo.

Ma della fatica, nessuno parlava mai; voglio dire del lavoro. Del lavoro si parlava con il capo o con qualcuno del reparto in difficoltà che andava a domandare agli altri. Co@i nei sanatori sempre poco ho sentito parlare della malattia o delle cure: tranne in quei momenti in cui, per la morte, l'arrivo o la partenza di qualcuno, esplodevano i discorsi sulla malattia fatti da tutti, tutt'insime e ognuno per conto suo e con accanimento, come se una febbre nuova avesse invaso l'ambiente. Ritengo che per questo il lavoro fosse più pesante per tutti. Non era poi giusto pensare che il lavoro fosse una condanna caduta su chi era nella fabbrica, come molti volevano far credere con i loro rimbrotti, perché tutti quelli che vi lavoravano avrebbero dovuto in ogni caso lavorare, o dentro o fuori. 'Si lavora per un padrone,' mi rispondevano quasi tutti. Questo argomento chiudeva qualsiasi discorso ed io non reagivo; osservavo però che questa giustificazione non tranquillizzava del tutto nemmeno coloro che la davano con tanta veemenza.

Il giorno in cui cominciai a lavorare da solo alla fresatrice, più del padrone, odiavo tutti i compagni. Speravo che le loro macchine s'inceppassero e tagliassero malamente i pezzi. Questo odio m'aiutava a lavorare e mi dava l'ambizione di riuscire a fare meglio degli altri. Prendevo il grezzo dalla cassetta come fosse un nemico da sgominare e lo riponevo finito che ormai gli ero affezionato come a una parte di me stesso. Il rumore della fresatrice mi tirava nella lotta e più la sentivo mordere più m'infervoravo nel lavoro. Il suo rumore, i suoi tagli, mi convincevano aspramente di saper lavorare; davano alle mie mani una forza che non avevano mai avuto, anche se mi ero accorto che le mie mani più che guidarla erano trascinate dalla macchina. Crosset si avvicinava spesso al mio posto. Un giorno mi guardò per qualche secondo e poi passandomi una mano sulla spalla, mi disse: 'Vai calmo, Saluggia'. Lui capiva la condizione in cui mi trovavo. 'Non prendere il lavoro come un nemico, - soggiunse - o non durerai a lungo. E non farne nemmeno l'unica ragione della tua vita'.

Siccome la sua benevolenza andava oltre la sua confidenza, per non sentirmi troppo in debito, dissi anch'io: 'Si lavora per un padrone'. 'Per più d'uno - rispose Grosset - ma siccome il lavoro è per forza una parte della tua vita, cerca di non rovinartela'. E se ne andò, senza guardare nella cassetta alla qualità dei pezzi finiti.

Ancora non lavoravo a cottimo ma certamente in quei giorni superavo il cento per cento. Ad un certo punto m'accorsi che il pezzo cambiando sotto le frese, un attimo prima d'essere finito, assumeva il colore opaco del lago di Candia. Questa fu una grossa rivelazione tanto che da allora per molto tempo, anche se non per tutta la giornata, svolgevo il mio lavoro per arrivare ogni volta al punto in cui compariva il colore del lago; la frazione di lavoro successiva, necessaria per finire il pezzo, era diventata per me come l'ultimo tratto di una strada, diversa da quella vera, tra il lago e casa mia: di una strada diversa e più facile, dove sarebbe dovuto capitarmi qualcosa, la rivelazione, il segno del mio nuovo destino. Intanto la mia macchina funzionava bene, aveva solo il motore della tavola un poco più rumoroso del normale. Mentre i motori andavano, m'immaginavo qualche volta che si stesse che si stesse effettuando una corsa automobilistica, nella quale ero in gara con una macchina di mia costruzione. Immaginavo sempre di essere in testa, con il numero 17, il numero che mi era stato attribuito da Pinna e che io mantenevo perché la mia corsa era proprio una sfida lanciata contro il destino avverso e contro la congiura ordita a mio danno da tutti gli altri concorrenti. Nel culmine della corsa la mia macchina subiva un guasto e solo la mia abilità le impediva di fermarsi. Continuavo la gara con il fiato sospeso per gli ultimi giri, guardando i miei compagni di lavoro come se veramente stessero per superarmi con le loro fresatrici e poi, con un ultimo sforzo di volontà, riuscivo a vincere. Un altro giro e la mia macchina si sarebbe incendiata. Seguendo questi pensieri potevo ugualmente controllare bene il mio lavoro e procedere senza la noia di dover numerare uno ad uno i pezzi finiti.

Passavo le ore, che gli orologi nelle officine segnano a migliaia partendo dall'inizio delle diverse lavorazioni. Quando io sono entrato nella fabbrica, l'orologio della nostra officina segnava l'ora 1227.

Anche il tempo, come gli uomini, è diverso nella fabbrica; perde il suo giro per seguire la vita dei pezzi. Trascorrevano le ore, anche con qualche sigaretta che fumavo, le visite di Grosset e ogni tanto un discorso di Pinna che borbottava quasi sempre, anche da solo.

Il rumore mi rapiva; il sentire andare tutta la fabbrica come un solo motore mi trascinava e mi obbligava a tenere con il mio lavoro il ritmo che tutta la fabbrica aveva. Non potevo trattenermi, come una foglia di un grande albero scosso in tutti i suoi rami dal vento. La gente non esisteva più ed io pensavo che per quanto nella fabbrica si lavori tutt'insieme, stretti nei reparti, con le fresatrici su tre file ad intervalli regolari, e così i torni e le presse, o tutt'in fila nelle catene di montaggio o nei controlli, o si mangi in tanti alla mensa e si viaggi tutti sulle corriere, è difficile poter avere delle compagnie e degli aiuti dagli altri. lo non potevo mischiarmi, come faceva Pinna, al gruppi che parlavano in quel tempo di un aumento di venti lire orarie, perché se io avessi parlato dei poveri contadini o dei disoccupati mi avrebbero voltato le spalle. Pinna entrava in quei gruppi, non so bene perché; non parlava quasi mai o si limitava a ripetere le parole degli altri. Pinna si cacciava dappertutto ed io non capisco perché lo sopportassi come amico, con quel suo testorie nero e quello sputarello sempre tra le labbra. Continuava a farsi ammirare per il suo coraggio di partigiano e per la sua fuga dal terzo piano di un albergo di Torino dove i tedeschi lo tenevano prigioniero in attesa di fucilarlo. Pinna mi aveva addirittura proposto di iscrivermi al Partito Socialista e ai sindacati della Cgil; sempre ridendo naturalmente e aggiungendo: 'Vedrai poi, vedrai poi '. 'Io vedo chiaro ora, caro Pinna, - gli avevo detto, - e non mi iscrivo a niente. Io non ho niente da spartire con nessuno'. Ma Pinna aveva riso, facendo saltare la sua gamba più del solito: 'Vedrai che aiuto ti daranno i preti '.

Tutto sommato, compresa la mia solitudine o meglio la mia differenza dagli altri, i primi giorni di lavoro non furono brutti giorni; anzi molte cose mi piacevano e mi confortavano: così la mensa, gli spogliatoi, le docce, i grandi corridoi, le luci al neon dentro e fuori, il veder passare alti e silenziosi tanti ingegneri e dirigenti che mi facevano sentire al sicuro, in una fabbrica ben governata. Pensavo con piacere, anche se con il timore di non esserne degno, di far parte di un'industria così forte e bella e che la sua forza e la sua bellezza fossero in parte mie e pronte ad aiutarmi, così come la fabbrica mi scaldava e mi dava luce.

Amavo a poco a poco la fabbrica, sempre di più man mano che m'interessava meno la gente che vi lavorava. Mi sembrava che tutti gli operai avessero poco a che fare con la fabbrica, che fossero o degli abusivi o dei nemici, che non si rendessero conto della sua sovrumana bellezza e che proprio per questo, lavorando con più fracasso del necessario, parlando e ridendo, la offendessero deliberatamente. Mi sembrava che si divertissero a guastarla e a sporcarla, a voltarle le spalle ogni momento. La fabbrica mi appariva sempre più bella e mi sembrava che si rivolgesse direttamente a me, come se fossi l'unico o uno dei pochi in grado e ben disposto a capirla.

Il lavoro andava avanti bene, dico il mio e anche quello degli altri, pur se 'rriguardosi; in cert' i momenti di maggior lena sentivo il lavoro andare e mordere nel ferro della fabbrica come un trattore che ara in un campo o come una automobile che corre sull'autostrada. E mi sembrava di essere io ad arare o a guidare; che la forza del rumore e del rendimento dipendesse da un acceleratore legato al mio lavoro: quando io aumentavo, aumentava tutta la fabbrica e quando rallentavo sentivo qualcosa cadere dall'unisono del lavoro di tutti, qualcosa come aprirsi una porta, nascere una voce, una finestra aperta richiamare attenzione. Questo lavoro, figlio della fabbrica, mi piaceva e mi dava soddisfazione tanto che andando a mezzogiorno verso la mensa allungavo il giro per passare al reparto imballaggio, dove le macchine nuove, miracolosamente lucide e complete dopo essere passate per tante mani e catene, aspettavano in fila di essere custodite nelle casse e spedite, con la loro faccia piena di denti, in tutto il mondo.


ANTONIO GOLINI - LE TRASFORMAZIONI DELLA FAMIGLIA -


La rivoluzione sessuale, l'emancipazione della donna, il divorzio, la contraccezione e l'autonomia della coppia sono alcuni fattori che hanno contribuito alla trasformazione del modello della famiglia italiana negli ultimi quarant'anni. In queste pagine, tratte da un volume antologico del 1988, il demografo Antonio Golini (n. 1937) descrive volori e nuovi comportamenti che cominciano rapidamente a diffondersi in ltalia negli anni Sessonta. La progressiva laicizzazione della società contribuisce ad accelerare l'emancipazione della donna che trasforma il proprio ruolo all'interno della famiglia. La coppia conquista nuova autonomia e il rapporto tra i sessi diviene egualitario. Un fenomeno che ha conseguenze amche sulla procreazione, considerata non più una responsabilità sociale ma un'opzione individuale. La stessa famiglia muta progressivamente la propria identità, privilegiando i rapporti sentimentali ai egami di sangue. Trova così spazio un nuovo modello familiare 'nucleare', comune a tutte le società occidentali industrializzate.


Alla base della formazione e della sopravvivenza di una famiglia 'tradizionale' tutta pervasa dalla morale cristiana, come era la famiglia italiana fino ai primi anni Cinquanta, vi erano due regole fondamentali: 1) rapporti sessuali consentiti solo tra coniugi; 2) matrimonio considerato una unione per la vita. Ad esse si dovevano aggiungere: l'asimmetria fra i due sessi riguardo al ruoli nella famiglia; l'atteggiamento childorientedl della coppia per il grande valore attribuito al figli; il forte legame con tutta la parentela.

Quanto alla prima 'prescrizione', a partire dagli anni Cinquanta e in specie dagli anni Sessanta, si è avuta una profonda evoluzione culturale e sociale che ha portato ad un processo di liberalizzazione nella sfera sessuale, specie per quanto riguarda il sesso prima del matrimonio, così che quello che era un percorso frequente e in molti casi obbligato (sposarsi anche in base a spinte e motivazioni scssuali) è diventato non più necessario ed è anzi considerato ormai eterodosso. Su un altro versante, per quel che riguarda il sesso fuori dal matrimonio, l'adulterio è stato depenalizzato giuridicamente e la fedeltà totale, pur essendo un valore rispettato di per sé non è più sempre una conditio sine qua non per la sopravvivenza dell'unione.

Seconda 'prescrizione': una unione per la vita. Quando cent'anni fa la mortalità era ancora elevata, e la divorzialità praticamente nulla, la durata media di un matrimonio era di circa 25-28 anni e solo il 55 per cento circa delle coppie riusciva a celebrare le nozze d'argento. Con i bassi livelli di mortalità attuali la durata media di un matrimonio, ove non fosse ammesso o accettato il divorzio, sarebbe di 43-45 anni e circa il 95 per cento delle coppie riuscirebbe ad arrivare alle nozze d'argento. Per effetto dell'interferenza del divorzio (che, ad esempio, in Inghilterra scioglie ormai il 36-39 per cento dei matrimoni e negli Usa il 43-46) questa durata media potenziale scende a 25-30 anni effettivi. In sostanza la combinazione morte-divorzio assicura attualmente ad un matrimonio più o meno la stessa durata media (25-30 anni) assicuratagli cent'anni fa dalla sola morte che era l'unica variabile ad agire. Questo permanere del matrimonio su una durata sostanzialmente uguale potrebbe finanche stimolare ad avanzare l'ardita ipotesi dell'esistenza di una possibile 'durata normale della vita coniugale' intesa come durata al di là della quale il rapporto affettivo, la solidarietà della coppia e i suoi elementi di unione si dissolverebbero. In questa chiave interpretativa il divorzio agirebbe come correttivo sociale ad un 'eccesso' di sopravvivenza biologica della coppia. Questa 'Interferenza' del divorzio può estrinsecarsi con maggiore facilità per il fatto che la sicurezza non è più uno degli scopi primari del matrimonio: né la sicurezza affettiva né la sicurezza materiale. Sempre più frequentemente la sicurezza viene ricercata dai coniugi non nella coppia o nel resto della famiglia nucleare, ma nel lavoro e in altri soggetti (genitori, amici e parenti, Stato).

Lo straordinario incremento dell'ìstruzione e una grande crescita politico-ideologica hanno portato le donne ad una diffusa e radicata presa di coscienza dei propri diritti e del proprio status (il che ha comportato, fra l'altro, una loro larghissima immissione nelle forze di lavoro che ha modificato gli stereotipi dei ruoli dei due sessi) e una conseguerite crescita di identità e di auto-cons'deraz'one fuori dal quadro familiare. Tutto ciò ha contribuito a modificare fortemente la struttura asimmetrica della unione coniugale, spingendola sempre più verso una struttura simmetrica.

Non si può non notare come questa 'rivoluzione', i cui primi segni risalgono a molti decenni fa e che ha avuto una gestazione tanto lunga, si sia appieno estrinsecata, insieme con la rivoluzione sessuale, a partire dagli anni Sessanta e quindi in soli 20-25 anni. E caratteristica fondamentale degli ultimi decenni l'accresciuta velocità dei grandi mutamenti sociali e culturali: della loro sopravvenienza, della loro diffusione, della loro accettazione.

Quest'ultima notazione vale anche per l'evoluzione dell'atteeeiamento della coppia nei confronti della procreazione, cioe per il passaggio da una coppia, da una società, tutta orientata verso i figli e disposta a sacrificare ad essi ogni cosa proprio perché considerati un valore assolutamente primario (oltre che un investimento), ad una coppia più orientata verso se stessa, verso la propria realizzazione, in cui la procreazione viene considerata una opzione individuale e non una responsabilità sociale. Coppia per la quale, essendosi annullati i benedice ricavabili in vecchiaia dai figli ed essendo perciò mutato il 'flusso intergenerazionale di risorse', i figli sono visti sempre più come solo costo e non come invest'mento e nella quale quindi un numero molto ridotto di bambini e il controllo delle nascite diventano radicata convinzione ed esigenza.

A questa fortissima riduzione del numero dei figli si è accompagnata anche una profonda modificazione del calendario delle nascite e quindi del ciclo di vita della famiglia e della donna. Attualmente gli 1,5-2,0 figli che in media ha ogni donna viene procreato prima che arrivi ai 31 anni, mentre 50 anni fa la donna concludeva in media la procreazione poco prima di arrivare al 38 anni. Questo mutamento nei tempi della procreazione, che ha 'liberato' 7 anni di vita della donna, si lega in un fondamentale processo interattivo con l'evoluzione dello status della donna.

La famiglia basata su legami di sangue, con conseguente fedeltà e solidarietà nel confronti di tutta la parentela, ha perduto di valore per essere sostituita da una famiglia basata su un legame sentimentale in cui la fedeltà (intesa in senso lato) è dovuta solo al coniuge. Si ha così una netta preminenza della coppia sessuale sulla famiglia; la coppia, legittima o no, diventa una entità molto intensa, il fine primo ed ultimo della unione.

A voler sintetizzare, i cinque elementi citati - rivoluzione sessuale, aumento della sopravvivenza e del divorzio, diffusione della contraccezione, modificazione nello status della donna, crescente ruolo centrale e preminenza della coppia - sono i capisaldi della grande trasformazione che si è avuta e si sta avendo nella famiglia. Naturalmente questi elementi non sono fra loro indipendenti, ché anzi c'è un forte processo di interazione che li lega, né sono indipendenti dalla evoluzione economico-sociale, dalla velocità con cui si attua e dall'amplificazione formidabile, non priva di 'rumore' e di distorsioni, che nelle nostre società i mass-media danno a tutti gli elementi del processo di modernizzazione.


I FATTORI DI CRISI


Negli ultimi venticinque anni la vita del paese è stata profondamente condizionata da alcune emergenze. Dal terrorismo politico, analizzato da un Articolo dei sociologi Donatella Della Porta e Maurizio Rossi e da un'inchiesta del giomalista Sergio Zavoli, alla nuova criminalità organizzata trasformatasi in 'imprese', descritta da un testo di uno dei maggiori esperti di mafia, Pino Arlacchi.. Un altro studioso di scienze sociali, Franco Cazzola, descriva i meccanismi di truffa negli appalti pubblici: un esempio del diffuso sistema di pagamento delle tangentiri 'velato dalle indagini della magistratura agli inizi dagli anni Novanta. Sui pericoli per il futuro sviluppo del paese sono stati scelti due brani: la giomalista Fiamma Nirestein analizza le regioni della crescita dagli episodi di razzzismo, evidenziando la diffusione di pregiudizi e paure nelle società occidentali, mentre lo storico Gian Enrico Rusconi sottolinea la crisi dell'identità nazionale e l'avvento di rivendicazioni indipendentistiche che testimoniano la debolezza del comune sentimento civico d'appartenenza.


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