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La Follia - Cos'è la Follia? E come viene trattata nella società?




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La Follia


Cos'è la Follia? E come viene trattata nella società?









1. Introduzione:



"12 ottobre 2006

Cara Margherita, oggi ho deciso di prendere questa mia sedia gialla e di partire per un viaggio. Il mio viaggio comincia dal mare e arriva non so dove. Solo i matti partono senza sapere dove andare.

Tu me lo dicevi sempre che la mente dell'uomo è come l'abisso del mare, me lo dicevi sempre che ti piaceva tanto guardare le onde, ma che sotto la superficie, lì c'è un altro mondo che i nostri occhi normalmente non vedono. Un mondo che può spaventare perché non lo conosciamo, ma anche affascinante perché non lo abbiamo ancora visitato.

Me lo ricordo quando mi dicevi: "Simò bisogna essere un po' palombari della nostra vita." E mi dicevi pure che noi persone siamo fatte proprio così, siamo immense e profonde come questo mare qui.

Ma che cos'è che ci rende diversi l'uno dagli altri? A me per esempio, mi chiamano pendolino perché quando guardo le cose attorno a me comincio a dondolare  e non mi fermo più, e mi faccio un sacco di domande, se mi si avvicina uno sconosciuto e mi abbraccia, io come reagisco?

Cosa c'è nella mente dell'uomo? Dove sono andati a finire i matti? Se non li vedo significa che non esistono? E se esistono ancora, i matti, chi sono?

Già, la + importante delle domande che che mi faccio è proprio questa: Chi è il matto?"

(Simone Cristicchi, "Dall'altra parte del cancello")


Chi è il Matto? C'è un modo per riconoscerlo? E se si, chi è che può dirmelo? Dove vive il matto?

Queste sono le domande che mi sono posta prima di iniziare la mia tesina, scaturite da quel documentario realizzato da Simone Cristicchi che parla in particolare del manicomio di San Girolamo, a Volterra, dove sono state ritrovate delle lettere scritte dai malati di mente che non sono mai state spedite. Ma prima ancora di vedere quel particolare filmato, c'è da dire che la conoscenza della psiche umana mi ha sempre affascinata negli anni. Ho letto alcune opere di Freud, e quest'anno in particolare, con lo studio di Pirandello e di Svevo, di artisti come Van Gogh, Munch, Fussli mi sono avvicinata ancora di più al tema.

Sono in molti che tentano di dare una definizione del "matto", ma secondo me definirlo è una cosa difficile se non impossibile. Come sostiene Freud nelle sue teorie, il confine tra quella che definiamo normalità e malattia è talmente sottile che non è sempre riconoscibile il malato di mente. La follia insomma ci circonda. Anche Shakespeare nei suoi drammi definisce la follia come il quotidiano, chi non è folle? Per Pirandello infatti, è anormale chi non ha dentro di sé un po' di follia, così come per Erasmo. La follia è madre di tutti gli uomini, ed è quella che ci permette di andare oltre agli orrori della vita con tranquillità.

Anche Simone Cristicchi a parer mio, non tenta di dare una risposta alla sua domanda, lascia aperta la questione e presentandoci davanti le lettere ritrovate a San Girolamo è come se invitasse ognuno di noi a dare una propria definizione di "Matto".

Riguardo alla domanda, dove vive il matto?, ho effettuato una ricerca sull'evoluzione dei manicomi dall'Ottocento ad oggi con la chiusura degli stessi grazie all'opera di Franco Basaglia nel 1978. Sono stata ispirata questa volta dal famosissimo film di Milos Forman: Qualcuno volò sul nido del cuculo, dove viene esplicitata al meglio la condizione in cui versava il folle negli anni più terribili della storia manicomiale italiana e straniera. Il manicomio, nato dalle idee di Pinel, non nasceva all'inizio come un modo per sopprimere la sua l'individualità, ma era un tentativo di dare ordine alla società e di curare l'alienato insieme ad altri malati di mente, escludendo così motivi di disordine pubblico. Ma la situazione si è profondamente mutata nel corso dei secoli, e da semplice luogo di ricovero, il manicomio è diventato l'esercizio giudiziario delle provincie e luogo di abominevoli shock per il paziente.

Oggi, con la chiusura dei manicomi, al malato vengono riconosciuti quei diritti che prima gli erano stati completamente negati.

Occorre però non dimenticare quello che è stato il manicomio prima, e sopratutto le esperienze dei ricoverati che come prima cosa non hanno avuto assistenza, ma sono stati semplici oggetti di studi clinici terribili e di sfruttamento della loro forza lavoro.

Il matto è uno di noi, che ha semplicemente un modo diverso di vedere la realtà che ci circonda.






2.Cos'è la Follia?



"L'elogio della Follia" di Erasmo da Rotterdam



Eppure sarebbe ben poco dovermi il seme e la fonte della vita, se non dimostrassi che quanto vi è di buono nella vita è anch'esso un mio dono. E che cos'è poi questa vita? e se le togli il piacere, si può ancora chiamarla vita? Avete applaudito! Lo sapevo bene, io, che nessuno di voi era così saggio, anzi così folle - no, è meglio dire saggio, da non andare d'accordo con me. Del resto neppure questi stoici disprezzano il piacere, anche se dissimulano con cura e se, di fronte alla gente, rovesciano sul piacere ingiurie sanguinose; in realtà solo per distogliere gli altri e goderne di più, loro stessi. Ditemi, per Giove, quale momento della vita non sarebbe triste, difficile, brutto, insipido, fastidioso, senza il piacere, e cioè senza un pizzico di follia? E di questo è degno testimone il non mai abbastanza lodato Sofocle con quelle sue splendide parole di elogio per me: 'Dolcissima è la vita nella completa assenza di senno'.

L'elogio della follia, saggio scritto nel 1509 da Erasmo da Rotterdam, è definita da lui stesso come uno 'scherzo letterario'. Così presenta la sua opera a Thomas More, cui la dedica, aggiungendo che era stato proprio il suo nome, More, a richiamargli alla mente la follia, in greco Moria. Avverte che sarà la Follia in persona a parlare, quindi nessuno dovrà ritenersi offeso, e conclude dicendo a More di prendersi cura lui di questa Moria, che d'ora in avanti è la sua.

Il titolo originale dell'opera richiama subito alla concezione di Erasmo della follia: 'Moriae enkomion, id est, stulticiae laus'.

Moria, dunque, ovvero Stultitia. Il primo termine viene dal verbo greco moraino, essere stolto, insipiente, da cui l'aggettivo moros, semplice, stolto, insensato. Il secondo, stultitia, dal latino più antico stolidum, poi trasformato in stultum, sempre con il significato di sciocco, stupido. Questi due termini non hanno il significato di follia nel senso di dissennatezza, di pazzia come patologia della mente, per il quale il latino usa il termine insania o, anche, furor quando si vuole aggiungere una connotazione violenta, ma lo acquistano solo per estensione. Piuttosto indicano una condizione di stupidità, di insipienza, di stoltezza.

Partendo da queste considerazioni terminologiche si potrebbe immaginare la follia di Erasmo come una condizione di innocenza, quasi infantile, che caratterizzerebbe l'uomo nel suo stato naturale, originario, nel suo stato premorale che caratterizza il bambino come sostiene Freud nei suo primi mesi di vita. Una condizione premorale, antecedente quindi alla regola, alla norma, alla costituzione stessa della società e che, per questo, non può essere definita immorale o sacrilega.

Si tratta di un'opera molto originale in cui, con toni ironici e nel contempo estremamente persuasivi, l'autore affronta l'insolito tema della Follia, per sostenere che essa sarebbe la vera dominatrice dell'intera civiltà ma anche dell'esistenza di ciascun uomo, sia egli un ecclesiastico o un laico, un saggio o un ignorante, un potente o un umile.


Troviamo quasi un'apologia di questa condizione originaria, che si ritiene costitutiva dell'uomo e perciò la più vera, quando Erasmo, ai filosofi che sostengono che l'infelicità dell'uomo sta nell'essere prigionieri dell'irragionevolezza, nell'errare, nell'essere ingannati, nel non sapere, risponde: «Niente affatto: qui sta la condizione dell'uomo. Perché poi lo chiamino infelice, non posso capirlo, dato che così siete nati, così formati, così creati, e questa è la sorte comune. Nessun essere è infelice perché rimane nei limiti della sua specie.[] Difatti l'umanità schietta dell'età dell'oro, viveva sotto la sola guida dell'istinto naturale, senza essere armata di alcuna disciplina. [] Del resto erano troppo rispettosi del divino per indagare con empia curiosità i misteri della natura ritenendo sacrilego che l'uomo mortale cercasse di conoscere oltre quanto concessogli dalla sua condizione».                   

Si avverte qui l'intenzionale difficoltà di fondo dell'opera, tutta percorsa e attraversata dalla contraddizione, dall'incoerenza: esalta la follia, ma condanna le follie degli uomini.

Follia è al di là delle regole, è fuori dal gioco, la sua è una prospettiva che permette di dissacrare senza assumerne una responsabilità etica. La sua voce ha il candore infantile dell'innocenza, l'immunità delle maschere carnevalesche, l'indecenza del matto del villaggio, gode di una franchigia particolare, per questo può spingersi dove altri non possono andare. Questa follia parla per bocca del buffone di corte, dal quale i principi, che pure «sono ostili alla verità», ascoltano «con piacere non solo il vero, ma anche evidenti insulti, tanto che la stessa frase che, proferita da un saggio, gli sarebbe costata la testa, detta da un buffone produce un eccezionale divertimento. La verità, infatti, possiede una capacità innata di divertire e dare piacere, se non vi si aggiunge qualcosa di offensivo: ma questo gli dei l'hanno concesso ai pazzi soltanto»


E, tanto per cominciare, chi non sa che la prima età dell'uomo è per tutti di gran lunga la più lieta e gradevole? ma che cosa hanno i bambini per indurci a baciarli, ad abbracciarli, a vezzeggiarli tanto, sì che persino il nemico presta loro soccorso? Che cosa, se non la grazia che viene dalla mancanza di senno, quella grazia che la provvida natura s'industria d'infondere nei neonati perché con una sorta di piacevole compenso possano addolcire le fatiche di chi li alleva e conciliarsi la simpatia di chi deve proteggerli? E l'adolescenza che segue l'infanzia, quanto piace a tutti, quale sincero trasporto suscita, quali amorevoli cure riceve, con quanta bontà tutti le tendono una mano!"


Osservazioni:



La follia secondo Erasmo è considerata come la forza che tiene insieme i legami sociali, la forza che dispensa felicità e allieva dai dolori la vita degli uomini. Ma non è solo questo. Se si pensa al ruolo che la follia ha nella conoscenza dell'uomo, possiamo riscontrare parte delle teorie di Freud sulla struttura della psiche umana. Innanzitutto, è considerato saggio colui che non domina le pulsioni naturali con la ragione, ma che le fa proprie e vi si lascia guidare in modo che possa arrivare alla piena conoscenza prima di tutto della sua natura umana, e in secondo poi degli 'altri', della folla che lo circonda, così come sosteneva Seneca nelle sue teorie sull'ascesi verticale ed orizzontale.

Il mostro o lo spettro è colui invece che sopprime l'Es, la parte pulsionale e inconscia dell'uomo, e attraverso la ragione pensa di esser arrivato ad una piena conoscenza delle cose: un uomo così fatto, sordo ad ogni naturale richiamo, incapace di amore e di pietà"."un uomo cui non sfugge nulla, che non sbaglia mai, che tutto vede, tutto pesa con assoluta precisione, nulla perdona; solo di sé contento.lui solo tutto; senza amici, pronto a mandare all'inferno gli stessi dei, e che condanna come insensato e risibile tutto ciò che si fa nella vita".

Ma allora è meglio l'uomo pazzo, l'uomo che non sfugge alle passioni: "uno della folla dei pazzi più segnalati che, pazzo com'è, possa comandare o obbedire ad altri pazzi, attirando a sé la simpatia dei suoi simili.; uno con cui si possa convivere, che infine non ritenga estraneo a sé niente di ciò che è umano".

Secondo poi la concezione della natura umana, Erasmo la riconduce con un esempio alla fase pre-morale dell'uomo, alla fase quindi neonata in cui non ancora conscio delle strutture sociali, risponde solo ai suoi bisogni interiori, Questa come sappiamo è parte della teoria sulla sessualità di Freud che ci spiega sopratutto che il nostro inconscio e le nostre pulsioni vengono fissate per la maggior parte da bambino e che con la crescita la struttura psichica cambia diversificandosi in quelli che sono l'Es, l'Io e il Super-io.

L'Elogio di Erasmo come satira sui costumi comuni degli uomini mette a nudo proprio le contraddizioni della vita sociale e attraverso quest'analisi ci fornisce un piccolo quadro psicologico dell'uomo che è molto spesso contraddittorio.


«Dicono che è una sventura essere ingannati. Una gran sventura è non esserlo. Ce ne vuole di pazzia per credere che la felicità degli uomini sia posta nelle cose stesse. Dipende tutto dalle opinioni. Infatti l'oscurità e la variabilità delle cose umane è così grande che non ci può essere conoscenza chiara e distinta» Ancora una volta l'uomo viene ricondotto nei suoi limiti, nella finitezza della sua condizione, ancora una volta Follia è pronta a comprendere e ad accogliere la fragilità, la debolezza, l'errore.

Del resto, «l'intera vita dei mortali, cos'altro è se non un dramma in cui diversi attori si fanno avanti con maschere diverse e recitano ognuno la sua parte, finché il regista non li fa uscire di scena?»

Ci muoviamo in un mondo di pure apparenze e di simboli senza contenuto, come i prigionieri della caverna di Platone, come i personaggi shakespeariani o pirandelliani. «Sopprimere l'inganno, però, significa scompigliare tutto quanto il drammaTutto finto, certo, ma questo dramma non si può rappresentare altrimenti». Voler smascherare l'illusione che è la vita stessa, «è quanto di meno opportuno. Ed è un comportamento distorto non adattarsi alle cose come stanno, e pretendere che lo spettacolo non sia più spettacolo». Il gioco va giocato, il copione recitato, è folle non vedere la contraddittorietà del reale, ma altrettanto folle cercare di smascherarla. Non c'è dunque via d'uscita?




Luigi Pirandello e la Crisi dell'io


"Io penso che la vita è una molto triste buffoneria, poiché abbiamo in noi, senza sapere né come né perché né da chi la necessità di ingannare di continuo noi stessi con la spontanea creazione di una realtà (una per ciascuno e non mai la stessa per tutti) la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria.

Chi ha capito il gioco non riesce più a ingannarsi; ma chi non riesce più a ingannarsi non può più prendere né gusto né piacere alla vita. Così è."


La Vita

'Io dunque sono figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà', diceva Pirandello in quel frammento d'autobiografia dettato, nell'estate 1893, dall'amico Pio Spezi, che lo pubblicò molti anni dopo sulla 'Nuova Antologia' (16 giugno 1933). L'allusione è alla rustica casa, detta 'il Caos', nella campagna intorno a Grigenti (divenuta, nel 1927 Agrigento), dove Luigi nacque il 28 giugno. Nella famiglia Pirandello era particolarmente viva la componente patriottica: Stefano, il padre, di origine ligure, aveva combattuto con Garibaldi e, nel novembre 1863, aveva sposato la sorella di un commilitone, Caterina Ricci Gramitto. Gli anni della formazione siciliana di Luigi, lo vedono alle prese con il locale patrimonio folcloristico di superstizioni e leggende e un'educazione religiosa. Luigi è iscritto dal padre, commerciante di zolfo, alle scuole tecniche, ma l'attrazione per i classici è così forte che prepara un esame integrativo e passa al ginnasio. In seguito al rovescio economico del padre, la famiglia si trasferisce a Palermo, dove Luigi si iscrive alla facoltà di Lettere e a quella di Legge. Qui si innamora della cugina Paolina e entra in contatto con quella generazione di giovani fra cui si formeranno i dirigenti dei Fasci siciliani. Nel 1887 si trasferisce a Roma e nel 1889 si iscrive alla facoltà di Bonn. Dal 1892 grazie a un assegno concessogli dal padre, si stabilì a Roma, dedicandosi interamente alla letteratura. Strinse legami con il mondo culturale romano, soprattutto grazie al publicista Ugo Ojetti e a Luigi Capuana. Nel '93 scrisse il suo primo romanzo,L'esclusa, grazie al consiglia di Capuana. Nel 1898 fonda con gli amici un settimanale letterato chiamato "Ariel" ispirato dalle idee del "sincerismo" nell'arte. Un anno dopo sposò Maria Antonietta Portulano, figlia di un socio in affari del padre.

Nel 1903 un allagamento alla miniera di zolfo, in cui il padre aveva investito tutto il suo patrimonio e la dote stessa della nuora, provocò il dissesto economico della famiglia, ciò portò, inoltre, la moglie, a un irreversibile follia che la porteranno nel 1919 all'internamento in una casa di cura romana. La convivenza con la donna, che era ossessionata da una patologica gelosia, costituì per Pirandello un tormento continuo, che può essere considerato, come il germe della sua concezione dell'istituto familiare come 'trappola' che imprigiona e soffoca l'uomo. Per uscire dalla precaria condizione economica Pirandello intensificò la sua produzione letteraria tra il 1904 e il 1915, inizialmente aveva cercato di riparare dando lezioni private e chiedendo compensi alle sua collaborazioni con i giornali. Di questo periodo è importante il successo che ha il suo primo romanzo, "Il Fu Mattia Pascal", pubblicato a puntate sulla "Nuova Antologia". Sollecitato dal commediografo siciliano Nino Martoglio, dal 1910 ebbe il primo contatto con il mondo teatrale, con la presentazione di due atti, ma la sua produzione teatrale si fa più feconda dopo il 1915 con opere del calibro di: Così è se vi pare, Il berretto a sonagli, Il piacere dell'onestà, Il giuoco delle parti, fino ad arrivare nel 1920 a Sei personaggi in cerca di autore.

I drammi pirandelliani nel corso degli anni Venti e Trenta furono conosciuti e rappresentati in tutto il mondo, e nonostante le critiche che ha subito durante alcune sue rappresentazioni, il critico Adriano Tilgher studierà a fondo quello che poi definisce come "pirandellismo":  una sorta di sistema filosofico fondato sull'opposizione vita/forma, intuendo il pensiero irrazionalistico di fondo. Nel 1925 assunse la direzione del teatro d'arte a Roma, mettendo in scena spettacoli tratti da opere proprie, ma anche di altri autori. L'esperienza del teatro d'arte fu resa possibile anche dal finanziamento dello Stato. Pirandello, nel 1924, si era iscritto al partito fascista, e questo gli servì per ottenere appoggi da parte del regime.

Negli ultimi anni lo scrittore seguì particolarmente la pubblicazione organica delle sue opere, in numerosi volumi: le Novelle per un anno, che raccoglievano la produzione novellistica, e le maschere nude, in cui venivano sistemati i testi drammatici, grazie a Mondadori che le ripubblica. Nel 1934 L'Accademia di Svezia gli conferisce il premio Nobel per la letteratura, a consacrazione sia della sua fama mondiale che al "nobile sentimento di umanità e alla ragione analitica che pur non taglia le radici della vita". Era attento anche al cinema, pur sapendo del pericolo che questa nuova forma di spettacolo costituiva per il teatro, e seguiva da vicino gli adattamenti cinematografici delle sue opere. Mentre negli stabilimenti di Cinecittà a Roma assisteva alle riprese di un film tratto da un suo romanzo, Il fu Mattia Pascal, si ammalò di polmonite e morì il 10 dicembre 1936, lasciando incompiuto il suo ultimo lavoro teatrale, I giganti della montagna, in cui culminava una nuova fase della sua produzione drammatica, quella dei 'miti'. Le sue ceneri riposano sotto il pino secolare sulla collina del Caos dove era nato.


La Follia in Pirandello:

"La vita non è che un'ombra che cammina; un povero attore, che s'agita e si pavoneggia per un ora sul palcoscenico e che poi scompare nel silenzio. È un racconto narrato da un idiota, pieno di furia e di rumore, senza alcun significato"

(William Shakespeare)


Antonietta, moglie di Pirandello, a causa dei problemi economici della famiglia, entra in uno stato di crisi che la porterà al ricovero. In questo caso, il contatto con la Follia per lo scrittore è diretto. Sarà toccata anche la figlia Lietta, dalla malattia della madre, e per risolvere questo suo disagio sarà costretta dal padre a soggiornare presso la sorella Lina.  Oltre alla crisi della moglie, Pirandello vive una crisi storica e sociale, ovvero la fase dell'Italia Post-risorgimentale e la crisi del positivismo che porta alla caduta dei valori che erano considerati certi.

L'uomo quindi, davanti ad una crisi di questo tipo comincia a non riconoscere più il mondo esterno, sociale che prima considerava solido e fondato su valori sicuri; questo mondo comincerà a disgregarsi sotto i suoi occhi grazie all'opera graduale di intellettuali e scienziati. Non riconoscendo più il mondo esterno, si arriverà a non riconoscere più se stessi. Adesso parliamo di Relativismo. Pirandello ci offre con l'esempio del teatro questa nuova concezione della società e del mondo intero: "un'enorme pupazzata" dove a tenere le redini della scena non sono uomini veri, ma maschere, che recitando, ci propongono la realtà sociale della finzione dove l'uomo giudica "pazzo" chi invece ha capito il "giuco" della vita.

Per Pirandello, il folle, l'insano è colui che avendo capito la verità nella realtà di tutti i giorni, se ne distacca, vuole fuggire, la vede al di fuori, e viene considerati dalla società dei "normali" per l'appunto, pazzo.

Leggendo nel corso della sua formazione Binet con "Le alterazioni della personalità" e non direttamente Freud come invece ha fatto Svevo, Pirandello scopre la variabilità degli stati psicologici e la scomposizione della personalità, che non è quindi una, ma molteplice. E se è molteplice la personalità nel reale, lo sarà anche nei suoi personaggi dei romanzi e delle novelle: sdoppiati e dissociati nel loro interno.

Riflette anche sul "Saggio sul genio nell'arte" di Seailles e su "Finzioni dell'anima" di Marchesini, e scopre attraverso questi scritti, che questa dissociazione interna, questo contrasto, si riversa nella struttura della società. Appoggiata su determinati valori morali si scopre come in realtà essi siano relativi al modo di percepire di ogni individuo, che apprende secondo strutture mentali dettate dall'educazione avuta nell'adolescenza. Si genera quindi questo contrasto tra Forma, Convenzione e il Flusso della vita. Per questo motivo nasce l'esigenza del teatro, per mettere in luce il dramma della vita: Il non poterci liberare dalla convenzioni.

La follia quindi appartiene al Pirandello storico, che la vive a causa della moglie, come al Pirandello scrittore, letterato. Per questo motivo si riversa in tutte le sue opere, è una linea continua che passa in tutti i suoi romanzi, drammi, novelle, facendo un po' da filo conduttore di quello che poi verrà definito come Pirandellismo. Troviamo allora i lampi di follia nell' "Avemaria di Bobbio" del 1912 dove ci dice: «Ciò che conosciamo di noi è solamente una parte, e forse piccolissima, di ciò che siamo a nostra insaputa »., enunciando così una costante tematica del suo teatro e della sua narrativa: quella dello sdoppiamento mediante il quale l'Io scopre la presenza di un territorio segreto e ignoto, al di là delle apparenze e di una realtà costituita di « maschere » multiple e « forme » alienanti, fissate dallo sguardo altrui. La follia quindi è una dimensione di pura autenticità di fronte all' inautenticità delle convenzioni sociali.

Accade così nella novella Il treno ha fischiato (1914): l'impiegato Belluca, sottoposto alle angherie dei compagni d'ufficio, considerato da tutti un "vecchio somaro" e poco più che un "casellario ambulante", cerca nella pazzia un'evasione e un rifugio,smascherando la meschinità e grettezza di coloro che lo circondano. La follia diventa così una contestazione contro la società e il mondo dei normali. A differenza di quanto accadeva nell'età romantica, essa non si accontenta di affermare i suoi valori, ma si oppone polemicamente ai falsi valori, anche se no può vincerli e rinuncia, chiudendosi in se stessa, a cambiare il mondo.

Ma la follia non genera soltanto autenticità, anzi proprio perché svela l'intima realtà essa mette in dubbio, sino a dissolvere, la nozione di verità prima acquisite. Il personaggio si trova quindi a vivere una disgregazione interiore, a vedersi sdoppiare sotto i propri occhi la personalità certa che prima lo caratterizzava. Nella commedia in tre atti "Ma non è una cosa seria" del 1918, il personaggio Memmo proverà a sue spese come spesso la logica non salvi dalla pazzia. Infatti i ragionamenti che l'hanno portato a convincersi della perfetta razionalità del contrarre un falso matrimonio per evitarne uno vero, gli hanno fatto commettere una pazzia e ora la logica gli si ritorce contro. Da essere razionale e sicuro di sé, si è trasformato in innamorato pazzo della donna che aveva lasciato e che ora , da savio, vorrebbe ma non può sposare.


MEMMO:È possibile sì che abbiate ragioneIo non so più se ero pazzo allora o se sono adesso! Ma so che adesso non mi par vero che abbia potuto fare ciò che ho fattoe che voi abbiate potuto lasciarmelo fare

MAGNASCO: Ma non hai fatto una cosa seria! Hai ragionato, ti dico! E siccome ora sei pazzo, ti sembra di aver commesso una follia.
MEMMO: Sono pazzo?
MAGNASCO: Innamorato. Fa lo stesso!
MEMMO: Ah, per questo?

MAGNASCO: Ma sì caro! Perché la vita non è ragionamento!»


Uno, nessuno, centomila:


Tra il '25 e il '26, dopo una gestazione durata quindici anni, esce a puntate sulla Fiera letteraria l'ultimo romanzo, Uno, nessuno e centomila, che ha un lungo sottotitolo: Considerazioni di Vitangelo Moscarda, generali sulla vita degli uomini e particolari sulla propria, in otto libri; l'idea del romanzo nasce dalla novella Stefano Giogli uno e due del 1909. Già in una lettera del 26 giugno 1910, indirizzata a Massimo Bontempelli: «Se sapesse in quale tetraggine io mi sento avviluppato, senza più speranza di scampo!!! Lo vedrà dal mio prossimo romanzo - Moscarda-uno-nessuno-e centomila che sarà forse l'ultimo aceto della mia botte, la quale - dicono - continua a saper di secco. e dieci anni dopo, in una intervista concessa all'«Idea Nazionale» del 10 febbraio 1920 fa capire l'importanza che attribuisce al romanzo:

«C'è un punto nel mio teatro che è rimasto ancora in gran parte oscuro per il pubblico: un punto che è fondamentale. Varrà, forse, a spiegarlo, un romanzo che spero di poter presto ultimare, Uno, nessuno e centomila, romanzo già annunziato e che ho dovuto interrompere, perché nella mia opera di narratore si è aperta questa parentesi del teatro, che mi auguravo si dovesse chiudere presto, e che invece, come purtroppo accade, è rimasta e rimane tuttora aperta per i molti impegni derivatimi dai primi lavori. In Uno, nessuno e centomila è studiato il dualismo dell'essere e del parere, la scomposizione della realtà e della personalità, il bisogno che l'essere ha dell'accadere infinito che si finisce nelle forme temporanee: il giuoco delle apparenze a cui noi diamo valore di realtà.»


«Che fai?» mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.

«Niente,» le risposi, «mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.»

Mia moglie sorrise e disse:

«Credevo ti guardassi da che parte ti pende.»

Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:

«Mi pende? A me? Il naso?»

(Libro Primo)


L'opera è divisa in otto libri, al modo degli antichi, ognuno con un proprio titolo specifico. Ogni libro rappresenta parte dell'evoluzione che porta Moscarda alla completa disintegrazione della sua personalità. A partire dal fatto "banale", l'affermazione della moglie riguardo al naso che pende, il protagonista andrà incontro all'inesorabile Crisi che lo porterà alla Follia e al ricovero volontario nell'ospizio.

La rottura della forma, se da un lato ridona nuova vita al personaggio, dall'altro provoca la perdita di quella rispettabilità di cui aveva goduto fino a quel momento agli occhi della massa che compone il mondo variopinto e indistinto delle persone che credono di vivere e invece non sanno che anch'esse recitano una parte. Nella poetica pirandelliana l'accidente serve a distruggere la forma, che fa esistere il personaggio nell'alienazione e a fargli riscoprire l'originaria personalità repressa.


Trama:

Da uno specchio, emerge un giorno per Vitangelo Moscarda, un volto di sé finora ignorato: il naso che pende verso destra. Questo avvenimento provoca in lui una profonda crisi che lo porta a scoprire che gli altri si fanno di lui un'immagine diversa da quella che egli si è creato di se stesso, scopre cioè di non essere 'uno', come aveva creduto sino a quel momento, ma di essere 'centomila', nel riflesso delle prospettive degli altri, e quindi 'nessuno' perchè l'idea di sé che aveva prima non corrisponde all'immagine che gli altri vedono. Questa presa di coscienza fa saltare tutto il sistema di certezze e determina una crisi sconvolgente. Vitangelo ha orrore delle 'forme' in cui lo chiudono gli altri e non vi si riconosce, ma anche orrore della solitudine in cui lo piomba lo scoprire di non essere 'nessuno'. Decide perciò di distruggere tutte le immagini che gli altri si fanno di lui, in particolare quella dell'usuraio' ( il padre infatti gli ha lasciato in eredità una banca), per cercare di essere 'uno per tutti'. Incomincia così a ribellarsi facendo cose che, agli occhi di chi gli sta attorno, appaiono vere pazzie, come regalare una casa a un vagabondo. Vuole vendere la banca di cui non si è mai occupato e che gli assicura una certa agiatezza economica, e quando rivela alla moglie e all'amico Quantorzo che vuole cancellare la nomea di usuraio, loro scoppiano a ridere senza ritegno. Così colpito nell'animo, già, fortemente contrastato, strattona la moglie ribellandosi a quella marionetta, di nome Gengè, di cui ella si era sempre compiaciuta. Le pazzie si intensificano: ferito gravemente da un'amica della moglie, colta da un raptus inspiegabile di follia, al fine di evitare lo scandalo cede tutti i suoi averi per fondare un ospizio per poveri, ed egli stesso vi si fa ricoverare, estraniandosi totalmente dalla vita sociale.

Interpretazione:

"Ne avvertivo uno solo, allora! E già quest'uno, o il bisogno che sentivo di restar solo con esso, di mettermelo davanti per conoscerlo bene e conversare un po' con lui, mi turbava tanto, con un senso tra di ribrezzo e di sgomento.

..con la scoperta dei centomila Moscarda ch'io ero non solo per gli altri ma anche per me, tutti con questo solo nome di Moscarda, brutto fino alla crudeltà, tutti dentro questo mio povero corpo ch'era uno anch'esso, uno e nessuno ahimè, se me lo mettevo davanti allo specchio e me lo guardavo fisso e immobile negli occhi, abolendo in esso ogni sentimento e ogni volontà.

Quando cosí il mio dramma si complicò, cominciarono le mie incredibili pazzie."


L'umorismo è il mezzo per interpretare la realtà e rappresentarla, infatti il personaggio adotta una maschera che fissa in qualche modo un immagine di sé che non corrisponde alla sua essenza, ma è la pura finzione data dalla società. La riflessione che il personaggio fa smonta questa realtà, immerso com'era nella finzione, a causa di un "fatto", smonta la realtà per cercare di capirne i fondamenti. La riflessione nelle opere di Pirandello è il punto fondamentale che porta alla completa disgregazione il personaggio, che cerca ora la solitudine per un confronto con l'estraneo che è in lui e di cui non potrà mai liberarsi. L'estraneo è "uno" per me, è "centomila" se poi consideriamo quello che gli altri colgono di noi, quindi è "nessuno" perché non rappresenta me stesso, e non è possibile conoscerlo.

La molteplicità delle condizioni esistenziali si presenta al personaggio come una drammatica scoperta, nella quale tutto diventa inutile, perché il personaggio non è più UNO, ma tanti quanti sono quelli che lo vedono, addirittura tanti quanti sono gli stati d'animo di coloro che lo vedono, lo conoscono o credono di conoscerlo; ed è anche NESSUNO, perché nessuna di quelle forme che gli altri gli danno corrisponde a quella che lui si dà o che ritiene di avere. E il dramma nel personaggio diventa ancor più profondo quando si rende conto che ciascuna di quelle forme è come un'ombra estranea, e si rende conto che come le ombre provengono dal corpo ma non sono il corpo, così le forme ci fanno vedere il personaggio ma non sono il personaggio.


"Oggi siamo, domani no. Che faccia ci hanno dato per rappresentare la faccia del vivo. Un brutto naso? Che peso doversi portare a spasso un brutto naso per tutta la vita Maschere, maschere un soffio e passano, per dar posto ad altri Ciascuno si racconcia la maschera come può. La maschera esteriore, perché dentro poi c'è l'altra, che spesso non si accorda con quella di fuori. E niente è vero! Vero il mare, sì, vera la montagna, vero il sasso, vero un filo d'erba; ma l'uomo? Sempre mascherato, senza volerlo, senza saperlo di quella tal cosa che egli in buona fede si figura di essere: bello, buono, grazioso, generoso, infelice, ecc. E questo fa tanto ridere a pensarci."

La maschera quindi generata all'inizio si disgrega per far posto ad un'altra ed un'altra ancora, portando il protagonista del romanzo a commettere quelle che la società definisce come Pazzie, Follie. L'anormale per loro è colui che sfugge alle regole della massa, per Pirandello invece è anormale chi pensa di vivere seguendole ciecamente senza dar spazio ai propri bisogni, pensando di conoscersi.

La forma rappresenta la realtà fissata per sempre, tanto che quando interviene l'accidente che libera il personaggio, tutti pensano che la diversità di comportamento sia dovuta all'improvvisa alienazione mentale del personaggio, a una sua forma di follia che scatena in tutti il riso, perché non è comprensibile da parte della massa.

La follia, o alienazione mentale, è la condizione nella quale i fatti commessi sono caratterizzati dalla a-normalità, dall'uscire dalle norme che regolano i comportamenti della massa.

Ogni uomo nasce dotato di una personalità che la Natura gli ha dato:

- è normale quando questa personalità si sviluppa secondo le norme della Natura stessa;

- è a-normale, invece, quando, attraverso le norme sociali, l'uomo non sviluppa più la sua originaria personalità, ma ne acquista un'altra, secondo le norme che la società si è imposta per sopravvivere.

L'alienazione, quindi, è composta da una personalità espressa non secondo natura, ma secondo le regole della società, e può essere identificata con la maschera-forma, l'esistenza nelle centomila forme che si creano nel corso dell'esistenza; l'accidente, distruggendo la maschera-forma, distrugge l'alienazione, riportando il personaggio alla sua condizione originaria, ma impedisce alla massa di capire il personaggio e le fa pensare che questi è uscito di senno.

Alienazione, quindi, come soluzione estrema e follia come estremo rifugio, per potersi salvare dal dramma dell'esistenza.

La follia è infatti in Pirandello lo strumento di contestazione per eccellenza delle forme fasulle della vita sociale,l'arma che fa esplodere convenzioni e rituali, riducendoli all'assurdo e rivelandone l'incoscienza.

È il fallimento del tentativo del Moscarda che cerca l'evasione attraverso la follia: nel tentativo di sfuggire alle tante forme impostagli dalla società finirà per dover accettare una nuova, ennesima, maschera: quella dell'adultero, e scontare per essa una pesante e immeritata pena. Ma in questa sconfitta trova una sorta di vittoria, una cura alle angosce che lo perseguitavano. Se prima la consapevolezza di non essere «nessuno» gli dava un senso di orrore e di tremenda solitudine, ora accetta di buon grado l'alienazione completa da sé stesso, rifiuta ogni identità personale, arriva a rifiutare infatti il suo stesso nome, e si abbandona allo scorrere mutevole della vita, al divenire del mondo, «morendo» e «rinascendo» subito dopo, in ogni attimo, sempre nuovo e senza ricordi, senza la costrizione di alcuna maschera autoimposta, ma identificandosi in ogni cosa, in una totale estraniazione dalla società e dalle forme coatte che essa impone.

Se per Erasmo, la Follia era il motivo per cui l'uomo teneva insieme i vincoli sociali grazie al suo dispensare felicità, adesso li rompe completamente perchè la stessa società troppo standardizzata lo costringe ad un'evasione completa. L'unico modo per non farsi vincere dalle maschere è quello di giocare. Come affermava Pirandello nel Giuoco delle Parti: bisogna saper cogliere l'uovo, berne l'essenza e saper far girare nella mano il guscio.






Sigmund Freud:

La struttura della Psiche umana e la Nevrosi


La Vita:

Sigmund Freud nasce a Freiber, in Moravia nel 1856, da genitori ebrei che si trasferiscono a Vienna nel 1860. Si laurea in medicina e intraprende studi di anatomia del sistema nervoso nel laboratorio del neurofisiologo Brucke. Nel 1882 a causa di problemi economici abbandona la ricerca e si dedica alla professione medica specializzandosi anche sulla psichiatria.

L'aspirazione all'indipendenza economica lo spinse a dedicarsi alla pratica clinica, lavorando per tre anni presso l'Ospedale Generale di Vienna con pazienti affetti da turbe neurologiche. Questa disciplina, essendo molto più remunerativa, gli avrebbe permesso di sposare la sua futura moglie, Martha Bernays.

Fu proprio mentre lavorava in questo ospedale, nel 1884, che Freud cominciò gli studi sulla cocaina sostanza allora sconosciuta. Scoperto che la cocaina era utilizzata dai nativi americani come analgesico a sperimentò anche su sé stesso osservandone gli effetti stimolanti e privi, a suo dire, di effetti collaterali rilevanti. La utilizzò in alternativa alla morfina per curare un suo amico che soffriva di una infezione, ma la conseguente instaurazione della dipendenza da essa (più pericolosa rispetto a quella da morfina), fece scoppiare un caso che costituì una macchia nella sua carriera.

Nel biennio 1885-1886 iniziò anche gli studi sull'isteria con una borsa di studio si recò a Parigi, dove era attivo Jean-Martin Charcot. Questi suscitò notevole impressione sull'ancora giovane Freud, sia per i suoi metodi sia per la sua forte personalità. Le modalità di cura dell'isteria attraverso l'ipnosi, insegnatagli da Charcot, furono applicate da Freud dopo il suo rientro a Vienna, ma i risultati furono deludenti, tanto da attirarsi addosso le critiche di numerosi colleghi.

Il matrimonio con Martha Bernays era stato più volte rimandato a causa di difficoltà che apparivano a Freud insuperabili e quando, il 13 maggio 1886, riuscì finalmente a sposarsi, visse l'avvenimento come una grossa conquista. Appena un anno dopo (1887) nacque la prima figlia, Mathilde seguita da altri cinque figli di cui l'ultima, Anna, diventò un'importante psicoanalista.

Nel 1886 iniziò l'attività privata aprendo uno studio a Vienna; utilizzò le tecniche allora in uso, quali le cure termali, l'elettroterapia e l'idroterapia, ricorreva anche all'applicazione dei magneti, una tecnica in uso fin dal 1700 che si credeva fosse in grado di agire sul sistema nervoso dei pazienti, ma non rilevò risultati apprezzabili. Utilizzò allora la tecnica dell'ipnosi e, per migliorare la stessa, compì un altro viaggio in Francia, a Nancy, ma non ottenne i risultati che si aspettava.

Il 23 settembre 1897 venne iniziato 'nella comunità fraterna' della Loggia Vienna del B'nai B'rith di Vienna, un anno dopo la sua fondazione. Freud era professore di neuropatologia e le teorie sulla psicoanalisi avevano ancora poca eco e considerazione nella scuola di medicina dell'epoca.

Una chiave di volta nel processo evolutivo delle teorie di Freud fu l'incontro con Josef Breuer - importante fisiologo che poi, in diverse circostanze, sostenne Freud anche finanziariamente - intorno al caso di Anna O. Breuer curava l'isteria della paziente attraverso l'ipnosi nel tentativo di guarirla da sintomi invalidanti tra i quali un'idrofobia psicogena. Sono di questo periodo le prime intuizioni sui ricordi traumatici. Il metodo, definito catartico - venne successivamente utilizzato in modo sistematico da Freud. Il successo lento e anche contrastato delle sue teorie vede la nascita nel 1910 a Norimberga della "Società internazionale di psicoanalisi".

Nel 1933 i nazisti bruciano le sue opere, e si vedrà costretto a lasciare Vienna per Londra dove muore nel 1939. Delle sue opere, ricordiamo le più famose: "Studi sull'isteria" del 1895, "L'interpretazione dei sogni" del 1900, "Psicopatologia della vita quotidiana" del 1901, "Tre saggi sulla sessualità" del 1905 e "Psicopatologia delle masse e analisi dell'io" del 1921.


La scomposizione psicoanalitica della personalità:


"Normalmente nulla è per noi più sicuro del senso di noi stessi, del nostro proprio Io. Questo Io ci appare autonomo, unitario, ben contrapposto a ogni altra cosa. Che tale apparenza sia fallace, che invece l'Io abbia verso l'interno, senza alcuna delimitazione netta, la propria continuazione in una entità psichica inconscia, che noi designiamo come Es, e per la quale esso funge per così dire da facciata, lo abbiamo per la prima volta appreso dalla ricerca psicoanalitica, da cui ci attendiamo molte altre informazioni circa il rapporto tra Io ed Es. Ma verso l'esterno almeno l'Io sembra mantenere linee di demarcazione chiare e nette."


Secondo la seconda topica psicologia di Freud, la personalità si divide in tre istanze: L'Es, L'Io e il Super-io.

L'Es, dal termine tedesco per il pronome neutro della terza persona, è il polo pulsionale della personalità, l'espressione psichica dei bisogni pulsionali che provengono dal corpo. L'Es è inconscio, in quanto la coscienza si forma sulla base di esso come prodotto derivato. Esso è, inoltre, totalmente privo di logicità, cioè di pensiero astratto, e di moralità, in quanto non conosce né bene e né male, ma agisce solo per il principio del piacere.

Il Super-io, ovvero la coscienza morale è data dall'insieme delle proibizioni dettate dall'educazione e dalla morale della massa, che si svilupperà nei primi anni di vita.

L'Io è la parte più superficiale dell'apparato psichico e si costituisce come mediazione tra i bisogni pulsionali propri dell'Es e il mondo estemo. All'io appartengono la percezione e la coscienza; ma è chiaro che la radice di tutti i processi che avvengono nell'ambito dell'Io deve essere cercata nell'Es. Per questo suo radicamento nell'Es, l'Io stesso resta in larga misura inconscio.

Il sistema di censure che regola il passaggio dalle pulsioni dell'Es all'Io è costituito dal Super-io. Questo opera la rimozione respingendo nell'inconscio ciò che la coscienza morale non può tollerare.

È da questa distinzione che Freud inizia ad analizzare i rapporti tra le istanze e l'arrivo della malattia mentale come la nevrosi, e nel caso più grave la psicosi, ovvero la follia.

In generale, con il termine nevrosi Freud indica, in generale, quella malattia mentale la cui causa è puramente psichica e che non può essere, pertanto, spiegata sulla base di disturbi o lesioni organiche. Per spiegare la genesi della nevrosi è necessario, secondo Freud, considerare il flusso della libido, ossia dell'originaria energia pulsionale radicata nell'Es, e osservare verso quali oggetti essa si dirige. In generale risulta che la nevrosi ha origine dal fatto che, per necessità di varia natura e spesso difficilmente eliminabili, la libido viene ostacolata e non può trovare soddisfazione nell'oggetto verso cui spontaneamente si dirige. In questo quadro di sistematizzazione generale della teoria Freud chiama processo primario la tendenza a dare libero e immediato soddisfacimento alle pulsioni, mentre viene detta processo secondario la tendenza, imposta dal mondo esterno al soggetto, a deviare il flusso dell'eccitamento verso altri oggetti, non più desiderati spontaneamente, ma scelti sotto la direzione del pensiero. La nevrosi, dunque, sorge dal conflitto tra queste tendenze contrapposte, che talvolta sono dette, rispettivamente, pulsioni sessuali e pulsioni dell'io.

Nel concreto però, la nevrosi ha un'origine principalmente sessuale, derivata dal non completo superamento del complesso edipico e da una regressione delle tendenze sessuali allo stadio dell'infanzia. Ma più spesso le tendenze sessuali infantili sono censurate dal Super-io e allontanate dall'area della coscienza attraverso i processi della rimozione. Esse, in tal modo, operano nell'inconscio ed entrano in conflitto con le istanze sociali e morali della vita adulta, determinando così il sorgere del sintomo nevrotico.

La nevrosi è quindi un disturbo che comporta disagio soggettivo per l'individuo di cui l'individuo stesso è consapevole e nei confronti del quale è critico, ossia ammette questa sofferenza e in genere cerca aiuto.

Lo stadio del folle per eccellenza è rappresentato nel caso si sviluppi una psicosi.

Psicosi è una situazione in cui c'è sì, il distacco dalla realtà, ma l'individuo non è consapevole e, anzi, considera i tentativi di ricondurlo alla realtà come atti di costrizione e violenza o addirittura come la dimostrazione che esiste un complotto intorno a lui. Si ha invece una destrutturazione più completa della personalità e una situazione di disgregazione psichica che comporta una situazione disturbata, come nei casi della schizofrenia che porta dissociazione, autismo, allucinazioni, deliri.

E qui che nasce la follia, il pensiero assurdo ed illogico, il totale abbandono della ragione. Allora Freud propose la cura della follia con il metodo delle libere associazioni: il paziente viene portato a riconoscere i conflitti nascosti che producono le alterazioni della psiche attraverso l'introspezione verbalmente espressa e il colloquio.






Osservazioni:

Non sempre la deviazione della libido produce la perversione o la nevrosi. Di regola la pulsione sessuale distolta dall'attrazione edipica verso il genitore del sesso opposto, prima di ricadere verso gli oggetti legati alla sessualità infantile, cerca di trovare sfogo nella fantasia. Questo processo è detto "introversione". Questo è spesso un passaggio intermedio che conduce poi alla formazione dei sintomi nevrotici . In alcuni casi non certo molto frequenti, tuttavia, l'introversione dà luogo alla produzione artistica. Perché ciò accada è necessario che intervenga in misura decisiva la sublimazione, che consiste nel volgere gli impulsi originariamente sessuali verso mete sociali più nobili e più elevate. Ma non solo il "genio artistico" è alimentato da pulsioni che in origine sono di natura sessuale; esso, in realtà, scaturisce da una conformazione mentale che è assai prossima a quella della nevrosi.



3.La Follia nell'arte


Edvard Munch, il pittore dell'angoscia:


'La malattia, la follia e la morte erano gli angeli neri che si affacciavano sulla mia culla.'

Edvard Munch


Edvard Munch, rappresenta il genio di cui parlava Freud nei suoi scritti, il folle che riversa la disgregazione della sua psiche, i ricordi peggiori della sua vita nelle opere d'arte. L'opera per Munch è espressione di ciò che ha dentro, del suo mondo interiore, e per questo rimane deluso dagli impressionisti che invece di ascoltare la memoria, colgono solo l'effimero di ciò che vedono. Rappresentante del simbolismo Mitteleuropeo, Munch darà una svolta all'arte notevole, anche se resterà pur sempre il pittore contestato dai suoi contemporanei, delusi, impauriti, confusi davanti all'espressione del suo mondo. Solo più tardi verrà riconosciuto il valore artistico di Munch.


Nato il 12 Dicembre 1863 a Loten e morto a Oslo nel 1944. Secondogenito di Christian Munch, medico dell'esercito appartenente ad una delle più note famiglie norvegesi, e Laura Catherine Bjolstad, bella donna, minata già a 22 anni dalla tubercolosi. Nel 1864 la famiglia si trasferisce a Oslo dove, in pochi anni, nascono ben cinque figli: ma l'ultimo nato sarà fatale alla madre che, nella settimana di Natale del 1868, muore lasciando dietro di sé un grandissimo dolore e un vuoto incolmabile. Sempre, Edvard serberà nel cuore la tragedia che visse in quel momento, anche se sarà proprio la zia materna, Karen, ad occuparsi della famiglia.

Il primo approccio di Edvard con l'arte avviene a sette anni, quando riproduce con grande realismo i movimenti incerti e goffi di alcune persone cieche, che ha visto per strada. Il padre appoggia subito l'inclinazione artistica. Purtroppo però i Munch non vivono nell'agiatezza e lui non riesce a frequentare assiduamente la scuola anche per motivi di salute. Quando ha 15 anni muore di tubercolosi l'amata sorella Sophie, un anno più grande di lui, e per egli è un altro grande dolore, da aggiungere ai lutti che costelleranno tutta la sua vita come le immagini ricorrenti delle morte e dell'angoscia che lo perseguiteranno sempre. Già a questa età si convince di essere un predestinato ad una vita di angoscia

Frequenta le lezioni di Krohg, naturalista norvegese. Munch partecipa ad una mostra di giovani artisti nel 1884 con l'opera 'Il Mattino' che viene definita però da un giornale 'banale e di cattivo gusto'. Nel 1885 va a Parigi e, seppur deluso, rimane influenzato dalla pittura impressionista. Le sue opere del 1880-1885 vertono sul tema della caratterizzazione psicologica e sull'emozione che l'artista prova di fronte al mondo, e tutte in fondo risentono del naturalismo francese essendo anche definite dalla critica 'eccessi dell'Impressionismo'.

Nel 1885-'86 vi è la svolta: nell'opera 'La Fanciulla Malata' esprime tutto il dramma vissuto da fanciullo, di fronte alla morte della sorella: l'angoscia, la desolazione, la quieta Disperazione di un giovane davanti al dissolversi della propria vita vengono messe in risalto da una tecnica pittorica velata, tremolante, sfumata nei contorni, quasi in dissoluzione, come la stessa vita

Nell'inverno un altro lutto: muore il padre. Lo shock e il senso di solitudine e di malinconia si esasperano ed egli scrive 'E io vivo con i miei morti, mia madre, mia sorella, mio nonno, mio padre soprattutto.' .

Con una terza borsa di studio può studiare le tele di Gaugin, che certamente lo influenzano sulla creazione di un nuovo linguaggio simbolista e sintetista. Nel 1891 va a Nizza e tra il '91 e il '92 elabora molti dei temi de Il Fregio della Vita.

Sono opere improntate a concezioni filosofiche e simboliche dell'esistenza, e in esse vuole rappresentare il destino dell'uomo e sublimare l'esistenza individuale in un più ampio disegno: esse sono il tentativo di Munch di dare risposte esistenziali a domande esistenziali sulla vita, l'amore, la morte. Munch ci disse: 'La mia pittura è, in realtà, un esame di coscienza e un tentativo di comprendere i miei rapporti con l'esistenza." E', dunque, una forma di egoismo, ma spero di riuscire grazie a lei, ad aiutare gli altri a vedere chiaro'. Ancora: 'Si può così esprimere tutto ciò che è talmente sottile da essere appena un'intuizione, un pensiero, una ricerca. Il Simbolismo dice di essere l'immagine della propria emozione'

Sempre nel 1892 torna in Norvegia e organizza un'altra personale che suscita l'interesse di pittori giovani neoromantici.

Nel 1893 espone, in un'altra mostra a Berlino, una serie di dipinti, 6 dei quali, forse i migliori, sono intitolati 'Studio per una serie: l'amore'. Di essi fanno parte alcuni dei suoi capolavori: 'Il Bacio', 'La Voce', 'Il Vampiro', 'Madonna', 'Gelosia'. Attraverso queste tele l'autore traccia le tappe dell'amore, dalla timidezza della pubertà fino alla maturità che porta inevitabilmente alla lotta, alla gelosia, alla separazione. Ma è 'Il Grido' ad essere considerato il vero capolavoro di Munch, espressione della condizione angosciante dell'uomo moderno.

A Oslo conosce Tulla Larsen, libera, bella, intelligente, assieme alla quale visita l'Italia, Firenze e Roma, ma il rapporto tra i due è difficile poiché Edvard si ritiene un malato a vita, un alcoolizzato psicopatico impossibilitato ad avere una vita normale con lei. Sicuramente preoccupante è ciò che scriveva in questo periodo: 'Stanco, abbattuto, malato, disegnavo e cominciavo a bere sin dal mattino.'; e ancora: '..Ho ricevuto in eredità due dei più terribili nemici dell'umanità: la tubercolosi e la malattia mentale.

Dopo aver mandato a monte la relazione, Munch si dedicherà alla pittura di altre opere, dove il tema è l'amore. L'amore, del resto, è visto dall'artista solo come lotta e sofferenza, passione e gelosia, tensione e violenza. E la donna è sempre una specie di 'femme fatale', una sorta di vampiro seducente tesa ad annullare l'uomo, imprigionandolo nella sua rete tentatrice.

Lo stato di continua tensione, le quotidiane ubriacature esplodono nel 1908 in una forte crisi nervosa: l'artista viene ricoverato in una clinica, dove rimane sei mesi. Munch muore il 23 Gennaio 1944 a ottant'anni.


'Tutto ciò che ho da dare sono i miei quadri, senza di essi non sono nulla',

(testamento alla città di Oslo)


La psicologia del pittore:


L'immagine ricorrente di Munch è quella scattata durante l'internamento nella casa di cura, dove è intento a svolgere un esercizio per i malati di mente: sbrogliare un filo di lana, che secondo l'uso dell'epoca, doveva stendere i nervi e aiutare alla concentrazione il malato. Ma l'accostamento alla psichiatria, alla casa di cura, al malato di mente non è dovuto solo direttamente nella sua persona, ma è anche avvenuto uno studio a Parigi nel manicomio di Salpetrière con Strindberg, dove si analizzava la crisi dei pazienti dell'ospedale.

In un suo quadro, "La madonna", Munch ricorre proprio ad una di queste immagini vissute al manicomio, e viste nelle fotografie di Paul Regnard, "Attacco: periodo epilettico". L'amore e la sessualità, temi forti per lui, sono associati ad un'immagine di dolore e morte, di disgregazione interiore, forse la stessa che stava vivendo il pittore, quella che ha vissuto dopo la morte dei familiari, quella che c'è forse dentro ogni uomo.

Con una vita ossessionata da drammatici presentimenti di distruzione e sfacelo, Edvard Munch può oggi venire considerato il profeta di una nuova età dell'ansia che impregna ogni aspetto del vivere quotidiano. Alle figure della realtà esterna ed oggettiva, Munch oppone le immagini della sua tormentata visione interiore, sostituendo gli aspetti concreti del mondo con gli ossessionanti fantasmi che costellano la sua complessa intimità. Largamente influenzato da Nietzsche, Munch colse della sua filosofia gli elementi più stoici e fatalisti che divennero filtri della sua visione del mondo.

Comincia ad osservare il mondo e le figure che lo popolano, ed avverte che da esso, non più avvolto da luce serena, non più sereno né confidenziale, gli proviene un urto: un segnale misterioso e drammatico, quasi desolato, che riempie il pittore di sgomento e comincia a propagarsi intorno a lui come una densa cortina di fumo nero; e quel mondo, quelle figure e quegli oggetti, cominciano a riflettersi nella sua mente con una luce distorta e malata, confermando il pittore nelle sue predilezioni narrative di stati d'animo ed emozioni, di sogni visionari caratterizzati da una particolare violenza emotiva, tipica di quelle persone solitarie ed introverse che tendono a restare rifugiate nel bozzolo della loro timidezza. Immaginazioni contorte, ossessioni funebri ed erotiche, ed intricate fantasie, rivelate con l'uso delle linee contorte e ondulate, fluide e mobili, i colori accesi e infuocati o soffocati repentinamente da una brusca manciata di cenere, le sinuosità cromatiche, l'onnipresente spettro della violenza, ora impercettibile, ora un'esplosione violenta e diretta, quasi dolorosamente agghiacciante, sono gli elementi che Munch sfrutta per simboleggiare ed esternare il suo cedimento agli spettri dell'interiorità travolta da un senso sempre più vivo di crescente angoscia.


'Camminavo sulla strada con due amici, il sole tramontava, sentii come una vampata di malinconia, il cielo divenne improvvisamente rosso sangue. Mi arrestai. Mi appoggiai al parapetto, stanco da morire.rimasi là, tremando d'angoscia e sentivo come un grande interminabile grido che attraversava la natura.

Così ci presenta il pittore, "Il Grido" l'opera che più rappresenta le lacerazioni brutali della sua follia.

Una figura vagamente umana, riconducibile ad una mummia personifica il sentimento della disperazione che sente nel suo interno. La natura intorno prende la forma di questa sua angoscia esistenziale curvandosi e modificandosi nei colori a seconda del sentimento e del pensiero che lo pervade, così senza un suono, l'immagine riesce comunque a rievocarlo.

A margine di una delle copie del Grido, Munch annotò: "Solo in folle poteva dipingerlo".







Friedrich Nietzsche, il filosofo dei frammenti



"Quest'ultimo boccone di vita è stato per me finora il più duro da masticare ed è pur sempre possibile ch'io ne rimanga soffocato. Se non riesco a inventare l'espediente alchimistico di trasformare anche questo fango in oro, sono perduto."


Friedrich Wilhelm Nietzsche nasce a Rocken, presso Lipsia il 15 ottobre 1844 da Karl Ludwig, pastore protestante e Franziska Oehler. Il padre nel 1849 morirà per una malattia al cervello e l'anno dopo la madre deciderà di trasferisi a Naumburg con i due figli. All'età precoce di 12 anni comincerà a scrivere poesie e comporre musica. Successivamente diventerà uno studente di teologia a Bonn, ma poi nel 1865 si trasferirà a Lipsia dove segue le lezioni di un famoso teologo di filologia classica. In questo stesso anno, leggerà per la prima volta "il mondo come volontà e rappresentazione" di Schopenhauer.

A soli 24 anni otterrà la cattedra di lingua e letteratura greca a Basilea, dove poi avrà uno stretto rapporto di amicizia e collaborazione con il musicista Wagner.

Scoppia la guerra franco prussiana e arruolandosi come infermiere volontario si ammalerà presto di difterite e verrà congedato.

Il suo primo libro viene pubblicato nel 1872, " La nascita della tragedia", con conseguente ostilità dei filologi, ma difeso da Wagner e Rohde. Quest'amicizia con Wagner finirà presto, infatti sarà portato a vedere in lui l'estremo rappresentante del Romanticismo e l'affermazione di uno spirito di rassegnazione e rinuncia, dato dalle inclinazioni del cristianesimo. Con la pubblicazione di "Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi." del 1878 si demarca questo distacco tra i due e anche dalla filosofia di Schopenhauer.

Comincia ad indebolirsi la sua salute che lo porterà poi alla malattia mentale, sarà colpito più spesso da nausea, vomito e disturbi alla vista. Interrompe anche la docenza a Basilea nel 1876 e definirà sostanzialmente la sua vita da inquieto e nervoso, solitario alla ricerca della città e del clima migliore.

Nietzsche conoscerà anche una ragazza, Lou Salomè, intelligente e fascinosa, che però lo rfiuterà per Pail Rèe. Il filosofo si sentirà così tradito e nel frattempo dovrà anche subire i dissidi con la madre e la sorella a causa dell'avversione per la giovane ragazza. La crisi e la depressione di Nietzsche si aggravano, grazie anche al contrasto con la sorella per il fidanzamento con il wageriano Forster.

In questo punto della sua vita, dopo che esce la terza e la quarta parte di "Così parlò Zarathustra", e la ripubblicazione di alcune sue opere, decide di trasferirsi a Torino, città del quale è entusiasta, e che lo porterà alla follia. Ci saranno diversi episodi di pazzia, come l'abbraccio al cavallo che subiva le percosse del padrone, che vedranno poi nel 1889 un definitivo crollo psichico e comincerà a scrivere lettere esaltate ad amici, a uomini di stato e a membri di case regnanti come Umberto I.

Grazie all'amico Overbeck, che lo va a trovare a Torino, verrà portato in una clinica per la cura delle malattie nervose.

Alla morte della madre nel 1897 , Nietzsche aveva preso in custodia la sorella che dopo il suicidio del marito, fonda un archivio a Weimar per gestire l'eredità letteraria del fratello. E infatti, la fama giunge proprio quando è immerso nella follia e non può accorgersene. Morirà poi a Weimar nel 1900.




I biglietti della Pazzia:


Sono stati posti una lunga serie di interrogativi sulle cause dell'insorgenza del male di Nietzsche. Tra le varie interpretazioni, è stata tenuta in forte considerazione l'ipotesi della sifilide come causa della sua malattia mentale. Non si hanno elementi certi, anche se lo stesso Nietzsche credeva di aver contratto una malattia venerea in una casa di appuntamenti. È indubbio, comunque, che la condizione fisica di Nietzsche, che è una costante di tutta la sua esistenza, abbia in qualche modo avuto influenza nel condurlo in uno stato di 'crisi fisiologica'. Se si aggiunge il fatto che nel 1888, quand'era a Torino, egli si è sottoposto ad uno sforzo intellettuale enorme, si capisce anche come si sia verificata una decadenza fisica. Che sia, appunto, la 'lue', la sifilide, l'origine di questa malattia, viene però messo in dubbio da studiosi e da psichiatri. C'è chi sostiene la tesi che la malattia abbia influenzato il suo pensiero, e che il suo pensiero, cioè lo sforzo intellettuale, abbia avuto una forte importanza e un forte rilievo nel determinare una crisi fisica. Altri, tra cui specialisti in malattie nervose, affermano che Nietzsche è morto di paralisi progressiva del sistema nervoso a seguito della contrazione della 'lue'. Un' ulteriore interpretazione ipotizza l'abuso di alcool e droghe leggere. Tutti questi elementi hanno sicuramente avuto un ruolo importante nel determinare la condizione umana, fisica e mentale di Nietzsche; risulta quindi difficile individuare in uno solo di essi la causa della sua malattia.

A rigore, dunque, la follia segna la fine dell'attività filosofica. Eppure, leggendo i biglietti che egli scrisse nei primi accessi del male, si ha l'impressione che la demenza fosse per lui la traduzione nella realtà della sua filosofia e, in qualche modo, il crollo del suo pensiero di fronte alla grandezza e all'ambizione della sua filosofia. Fatto sta che la follia non ha bloccato la filosofia di Nietzsche, ma, al contrario, essa ha contribuito a determinare il suo pensiero, non conforme alla morale tradizionale: Nietzsche parla di inversamento dei valori tradizionali e propone la morale del più forte, del Superuomo. Impazzendo, Nietzsche, divenne il Superuomo: colui che poteva tollerare la catastrofe della morte di Dio e operare la trasvalutazione di tutti i valori, dando forma a una nuova umanità, sciolta da tutte le antiche leggi morali e libera di danzare sul nulla.

Secondo la diagnosi dello psichiatra, che lo visitò nell'Agosto 1900, Nietzsche avrebbe dato segni di «mania euforica, senza però difetto di intelligenza», a partire dalla fine del settembre 1888; mentre apparirebbero sospette «alcune parti del Crepuscolo degli Idoli, dell'Anticristo» e «ancor più l' Ecce homo». Al contrario, «tutti gli scritti e le manifestazioni di Nietzsche precedenti a questo periodo [settembre 1888] non hanno dato finora appiglio a diagnosi di malattia mentale». Sembra che per Nietzsche diventare folle abbia significato prendere alla lettera quello che prima era, nella sua opera, figura retorica. Ma questo non autorizza a sminuire la grandezza del suo pensiero: semmai, ne rivela il carattere tragico e il valore esistenziale profondo.


A Peter Gast.

Torino, 31 Dicembre 1888

Avete mille volte ragione! Mettete voi stesso in guardia Fuchs Del resto nell'Ecce homo troverete una pagina straordinaria in onore del Tristano e, in generale, dei miei rapporti con Wagner. Avendo avuto il coraggio di non lasciare alcun dubbio [circa il mio pensiero antiwagneriano] ho potuto avere anche quello di esaltare al massimo ciò che era buono.

Ah, amico mio! Che momenti! Quando mi arrivò la vostra cartolina, che stavo mai facendo? Era il famoso Rubicone. Non so più il mio indirizzo: poniamo che l'indirizzo prossimo sia Palazzo Quirinale.

N.

Ad Augusto Strindberg.

Tra poco tempo vi perverrà la mia risposta alla vostra novella: sarà come un colpo di fucile. Ho convocato a Roma una dieta di principi: voglio far fucilare il nostro giovano Kaiser.

Arrivederci! Giacché ci rivedremo.

Une seule condition: divorçons.

NIETZSCHE CAESAR.


A Giorgio Brandes.

Torino, 4-1-89

All'amico Giorgio!

Dopo che mi hai scoperto, trovarmi non era più gran che; ma ora viene il difficile: tornarmi a smarrire

IL CROCIFISSO.




4.Il trattamento dei malati di mente nella società


4.1: I primi sguardi ai malati di mente




Pinel e la casa di cura:

piccoli accenni sui manicomi dal '700 alla fine dell'800


la follia delira la condizione umana

e non quella sociale

delira il destino mortale

e non la collocazione di classe.


Michel Foucault sostiene che durante l'Illuminismo la psichiatria nacque come forma repressiva della nascente borghesia. In quell'epoca Philippe Pinel - siamo nel 1793 - 'spezzò le catene agli alienati' con l'intento di liberare il folle dalla sua condizione di reprobo, consacrandolo come malato. È in tale circostanza che nasce la psichiatria assumendo il suo posto come branca della medicina. Eguale percorso venne compiuto dal medico di Empoli Vincenzo Chiarugi che, sotto il Granduca di Toscana Pietro Leopoldo di Lorena, nel 1788 assunse la direzione dell'ospedale di Bonifazio a Firenze, dove si trasferì con i suoi assistiti già identificati quali malati di mente; nel 1793 diede alle stampe il suo trattato Della pazzia in genere e in specie, prima opera medico-scientifica sul tema della categorizzazione della follia. Il trattato di Chiarugi segnò la nascita della clinica psichiatrica e restituì al folle la 'patente' di malato piuttosto che di peccatore o delinquente.

Le radici degli odierni sistemi di cura affondano nel XVIII secolo, quando furono concepiti i primi asili per gli alienati. Da queste strutture derivano i manicomi od ospedali psichiatrici che, anche in Italia, sono stati rifugio/prigione per i malati durante gran parte del XX secolo. In tali ambienti l'elevata concentrazione di pazienti favoriva l'osservazione e la classificazione delle malattie da parte degli psichiatri (o alienisti). In tale epoca la storia della psichiatria coincide di fatto con la storia della schizofrenia; Emil Kraepelin (1856-1926) ed Eugen Bleuler (1857-1939) ne furono i due principali studiosi.

Fino ad allora, la malattia mentale era considerata sostanzialmente inguaribile, progressiva ed incomprensibile. Questo giustificava la segregazione dei pazienti per la salvaguardia delle 'persone civili e del pubblico decoro'. Gli strumenti terapeutici in molte istituzioni mediche ottocentesche erano spesso improvvisati: docce ghiacciate, diete sbilanciate, isolamento e contenzione fisica sono solo alcune delle pratiche cui venivano sottoposti i pazienti. La situazione era destinata a migliorare notevolmente nel corso del Novecento, grazie all'introduzione di varie forme di psicoterapia ed alla scoperta degli psicofarmaci.




In questo disegno di Tony Robert Fleury, abbiamo la visita di Pinel all'ospedale della Salpêtrière,del 1870.








Nel corso del XVIII secolo, molti medici, facendosi portatori delle idee dell'Illuminismo e della conseguente Rivoluzione Scientifica, avevano sconvolto l'ottica della società e della scienza stessa, inquadrandola nell'ottica del recupero della dignità umana. Comincia a farsi strada l'idea della salute come diritto a cui tutti devono poter accedere.

Affinché la salute e l'umanità progredissero, era necessario che la medicina si facesse "scientifica" attraverso due concetti chiave: osservazione e sperimentazione. Il lavoro al letto del malato, piuttosto che l'insegnamento libresco, l'esperienza come dato superiore a qualsiasi teoria filosofica. Se la medicina doveva divenire scienza, era necessario modificare, da un lato, la figura del medico e, dall'altro, il luogo preposto ad esercitare la sua attività. È proprio nel corso del '700 che si arriva alla nascita dell'ospedale come luogo deputato alla cura della salute. Grazie all'atteggiamento riformista di molti sovrani europei, all'adozione di quell' "esprit systématique" che caratterizzò l'Epoca dei Lumi, si porta a termine nel corso del secolo XVIII quel processo che allontana ogni sorta di derelitti, mentecatti, folli dagli ospedali, con la creazione di luoghi specifici destinati ad accoglierli.

Si assiste, quindi, fra il 1750 ed il 1850, alla trasformazione dell'ospedale, da luogo di ricovero indifferenziato a spazio destinato alla curabilità e, parallelamente, alla trasformazione della medicina da scienza teorica a disciplina clinica. Nel momento in cui la ricerca scientifica torna all'osservazione e all'esperienza,gli studiosi vengono spinti ad indagini personali e dirette, nasce l'esigenza del viaggio che vedrà numerosi medici stranieri in visita nell'Italia e numerosi italiani alle prese con la conoscenza degli scritti fondamentali della medicina straniera.

È spesso scopo principe del viaggio la visita ai manicomi, al fine di formulare quella soluzione ideale che caratterizzò a lungo la ricerca dell'alienismo degli autori di lingua francese. Il frammentato panorama politico italiano poneva dinanzi ai visitatori uno scenario poliedrico, ricco e complesso ed una molteplicità di realtà e prospettive, con cui relazionarsi e confrontarsi. Inoltre, la crescente "italomania" trovava la sua ragion d'essere nella vigorosa opera riformista di alcuni Stati italiani, che aveva permesso la realizzazione di istituzioni manicomiali all'avanguardia, la cui notorietà e fama cresceva a livello internazionale. All'interno di queste istituzioni, non soltanto venivano elaborate nuove teorie "rivoluzionarie" per la nascente scienza psichiatrica, ma la speculazione perdeva il suo carattere di astrattezza e si faceva prassi nella cura dell'alienato. Allorché l'ospedale comincia ad essere concepito come la "mesure d'une civilisation", istituzione curativa, il manicomio, in particolare, diventa un microcosmo che riflette l'ordine e la gerarchia del mondo esterno, unica terapia possibile per il compromesso mondo interiore dell'alienato. Laddove la non-ragione si manifesta nella sua drammaticità, la ricerca del "manicomio ideale", dello spazio della curabilità della follia, posta non senza una certa competitività nazionalistica, diventa momento aurorale della psichiatria moderna. Una delle ultime testimonianze, a questo proposito, è quella di Joseph Guillaume Desmaisons Dupallans che, intorno al 1840, visitò vari manicomi italiani, senza però dare alle stampe il suo resoconto di viaggio. Questo testo, non sempre scevro di una sottile vena polemica, offre un interessante spaccato della realtà manicomiale nell'Italia pre-unitaria, colta da un'ottica talvolta fortemente critica e sicuramente lontana da qualsiasi enfasi celebrativa.

Il problema della "medicalizzazione della follia", vissuto e realizzato in modi diversi nei vari contesti culturali europei, diventa l'orizzonte epistemico su cui muove i primi passi la nascente psichiatria. "Pinel o Chiarugi?": per più di un secolo la storiografia medica ha tentato, in mezzo a vivaci fuochi polemici, l'individuazione del "primus qui" della psichiatria. Certo è che il Trattato di Vincenzio Chiarugi, di pari passo con l'attuazione della sua prassi presso la sezione "psichiatrica" dell'Ospedale di Bonifazio a Firenze dove, a partire dal 1788, rivestì l'incarico di Medico Primo Infermiere, e l'opera di Philippe Pinel in Francia, costituiscono gli esempi emblematici del momento aurorale della psichiatria, espressioni paritetiche di quei riformatori di fine Settecento, di quel movimento di rinnovamento che coinvolse tutta l'Europa.

In quanto malattia, l'alienazione mentale non avrebbe dovuto essere gestita da polizia o da giustizia, ma trattata come una vera e propria malattia che, però, nella sua diversità rispetto alla patografia tradizionalmente intesa, aveva bisogno di un luogo di cura peculiare, che sarebbe stato chiamato ospizio prima e, successivamente, asilo. Con Pinel prima, con Esquirol ed i suoi discepoli poi, infatti, la psichiatria, all'atto della sua fondazione, si propone un oggetto: l'alienazione mentale. Un luogo: il manicomio. Una metodologia: il trattamento morale. Pinel traccia i confini di un dominio proprio alla nuova disciplina, delimitando ciò che pertiene all'ordine patologico e ciò che ne esula. L'alienazione mentale rimane una malattia unica, pur declinandosi in diversi aspetti, con diversi atteggiamenti clinici e, in questa sua unità di base, esige un solo luogo di cura, che è il manicomio, e una sola terapia, che Pinel chiama trattamento morale.

Così come l'alienazione mentale si costituisce in malattia morale, per rapporto alle malattie fisiche, nello stesso modo il trattamento morale si oppone ai trattamenti fisici (cure e medicamenti), in uso sino ad allora negli ospedali, fondandosi su due postulati principali: Isolamento ed Ordine. L'isolamento, essenziale, sottrae l'alienato alle influenze nefaste del suo "milieu" abituale e lo rende più predisposto ad accogliere quei consigli che devono ricondurlo alla ragione. L'organizzazione della vita asilare, contraddistinta da regole ferree, dall'ordine esteriore che circonderà l'alienato nel suo isolamento, diviene essa stessa agente terapeutico. Il tutto garantito dal controllo di un capo supremo, il medico,il cui potere è assoluto.

Se in passato quindi, per il folle esisteva, l'asilo, alla fine del Settecento, e durante tutto l'Ottocento, il malato aveva un luogo di cura specifico, che dapprima poteva rappresentare un angolo della società in cui ristabilire l'ordine mentale, ma che successivamente diventerà sede degli esperimenti clinici degli psicoterapeuti, Il manicomio per la società era visto positivamente come tutela della loro integrità mentale, isolando così il malato di mente si poteva preservare la "normalità".


Il manicomio di Pinel:


Pinel dice dunque che il manicomio è uno spazio in cui il malato trova quella stimolazione equilibrata in sensazioni, emozioni e idee atta a fargli ritrovare l'equilibrio psichico che egli ha perso nel "tumulto" della società di fuori.

Ricordiamo che la società di cui egli parla è quella in preda alla Rivoluzione e per l'esattezza al periodo del Terrore (1793); e non c'è certo dubbio che essa esponesse i suoi cittadini a stimolazioni eccessive e devianti dato che i suoi valori di riferimento non erano più quelli dell'ancien regime aristocratico, ma quelli repubblicano-borghesi di libertà, legalità e fraternità. Questa idea del manicomio di Pinel si connota anche per dei precisi riferimenti filosofici che aiutano a meglio chiarirla.

Il primo è il sensismo di Locke e di Condillac, in cui il primato della sensazione è noto e si capisce la sottolineatura che Pinel ne fa anche nella sua pratica terapeutica. Questa pratica infatti - il noto "traitement moral" - non rifugge anche dalle emozioni forti per imprimere sensazioni che aiutino il pensiero del paziente a ritrovare i punti di riferimento nella realtà. La fonte principale di codeste emozioni è il Direttore del Manicomio che impressiona per la sua autorità oltre che per il suo prestigio di "philosophe".

Il secondo riferimento filosofico è quello del pensiero dei "libertini". Questi autori soprattutto nel '700 producono degli scritti (racconti, teatro) che in apparenza sono solo un intreccio di oscenità sessuali e proposizioni blasfeme. In effetti essi pongono dei problemi che sono tuttora sul tappeto come quello della libertà sessuale, quello della libertà di pensiero e quello del senso della vita. Ma l'aspetto dei libertini che si rivela più interessante nella psichiatria di Pinel è quello della libertà di pensiero. Non si tratta tanto della libertà di espressione quanto del rifiuto dell'idea tomistica di un limite della ragione che, a partire da un certo livello di problemi, dovrebbe sottomettersi e rimettersi alla fede. Il rifiuto di questo limite riviene a dire che il pensiero umano non ha né un ambito né procedure stabilite una volta per tutte ma è una specie di esplorazione avventurosa senza limiti che si tratta semmai di seguire con attenta e aperta curiosità.

Per questo l'atteggiamento terapeutico di Pinel punta meno - a ben considerare - a portare il paziente alla "critica" del delirio - il che sarà invece l'assioma della psichiatria a lui successiva fino ad oggi - ma a cercare di far "ingranare" le idee "deliranti" con la realtà al fine di realizzare oggetti e invenzioni di pubblica utilità, con l'idea che il delirio è tale in certo qual modo solo per il pregiudizio che lo giudica.

Il terzo riferimento filosofico ha connotazioni politiche e attiene al programma illuminista di liquidare la "superstizione" e gli apparati chiesastici che su di essa si impiantano tenendo il popolo nell'ignoranza per meglio dominarlo e sfruttarlo.

Si sa come gli Illuministi avessero preso di mira il soprannaturale e la loro polemica ha punte di una penetranza insuperata anche in umorismo in certi articoli della Enciclopedie di Diderot e d'Alembert e nel Dizionario filosofico di Voltaire. Il loro bersaglio erano i dogmi delle religioni, di cui ridicolizzavano l'irrazionalità, e il sovrannaturale con le sue presunte manifestazioni - come apparizioni, chiamate, miracoli - tutte cose che essi trattavano alla stregua di imbroglio o di racconti fantastici buoni sì e no per l'infanzia.

Non si erano però occupati, se non di passaggio della follia, che restava una potenziale sacca residua e tenace di apofania del sovrannaturale. Infatti "sentire le voci" non tanto degli angeli quanto dei morti, o voci da distanze tali che sfidano qualunque legge fisica sulla trasmissione dei suoni, avere "intuizioni" perentorie su di sé o sul prossimo, poteva esser preso per una conferma concreta, nei fatti, di quel soprannaturale che essi negavano in via di principio. E' di questa sacca residua di sacrale che va ad occuparsi Pinel, infatti egli presenta la credenza nel soprannaturale come l'effetto di una immaginazione sovreccitata dalla passione e non più temperata dalla ragione. Da cui la sua proibizione a certi deliranti di sprofondarsi nella lettura dei libri di devozione per evitare di alimentare il loro delirio.

La sua "medicalizzazione" della sezione degli alienati della galera di Bicetre (Bru 1890) ha quindi fra gli altri obiettivi, quello di ricondurre nell'ambito della razionalità scientifica della medicina le presunte apofanie del sacro che si esprimerebbero attraverso i folli.

D'altra parte il suo manicomio è un ambiente retto da i principi "filantropici" del rispetto della persona umana e ben dosato come s'è detto in sensazioni, emozioni e idee in modo che ognuno possa sentirsi al meglio e nel modo più libero e creativo nella relazione sociale.

Naturalmente, come tutte le utopie durerà pochissimo, essa ha però lasciato delle eredità fondamentali come la laicizzazione medica della follia e il rispetto del cittadino malato.





Edgar Allan Poe

"The System of Dr. Tarr and Prof. Fether"

"From childhood's hour I have not been

As others were-I have not seen

As others saw

And all I loved, I loved alone"

(from Edgar's poem "Alone")


Life and works:


Edgar Poe was born on 19 January 1809 in Boston, Massachusetts, the son of actors Elizabeth Arnold Hopkins (1787-1811) and David Poe (1784-1810). He had a brother named William Henry, and sister Rosalie. After the death of his parents Edgar was taken in by Frances and John Allan, a wealthy merchant in Richmond, Virginia.

Young Edgar traveled with the Allans to England in 1815 and attended school in Chelsea. In 1820 he was back in Richmond where he attended the University of Virginia and studied Latin and poetry. While in school he became estranged from his foster father after accumulating gambling debts. Unable to pay them or support himself, Poe left school and enlisted in the United States Army where he served for two years. He had been writing poetry for some time and in 1827 "Dream'! first appeared in the Baltimore North American, the same year his first book Tamerlane and Other Poems was published, at his own expense.

When Poe's foster mother died in 1829 her deathbed wish was honoured by Edgar and stepfather John reconciling, though it was brief. Poe enlisted in the West Point Military Academy but was dismissed a year later. In 1829 his second book Al Aaraaf, Tamerlane and Minor Poems was published. The same year Poems (1831) was published Poe moved to Baltimore to live with his aunt Maria Clemm, mother of Virginia Eliza Clemm (1822-1847) who would become his wife at the age of thirteen. His brother Henry was also living in the Clemm household but he died of tuberculosis soon after Edgar moved in. In 1833, the Baltimore Saturday Visiter published some of his poems and he won a contest in it for his story "MS found in a Bottle". In 1835 he became editor and contributor of the Southern Literary Messenger. Though not without his detractors and troubles with employers, it was the start of his career as respected critic and essayist. Other publications which he contributed to were Burton's Gentleman's Magazine (1839-1840), Graham's Magazine (1841-1842), Evening Mirror, and Godey's Lady's Book.

After Virginia and Edgar married in Richmond in 1836 they moved to New York City. Poe's only completed novel The Narrative of Arthur Gordon Pym was published in 1838. Poe's contributions to magazines were published as a collection in Tales of the Grotesque and Arabesque (1840) which included "The Duc de L'Omelette", "Bon-Bon" and "King Pest". What some consider to be the first detective story, "The Murders in the Rue Morgue" was published in 1841;

Poe's collection of poetry The Raven and Other Poems (1845) which gained him attention at home and abroad includes the wildly successful "The Raven" and "Eulalie" and "To Helen".

Poe continued to write poetry, critical essays and short stories including "Ulalume", "Eureka" and "The Cask of Amontillado" (1846).

Now living in their last place of residence, a cottage in the Fordham section of the Bronx in New York City, Virginia died in 1847. Poe turned to alcohol more frequently and was purportedly displaying increasingly erratic behavior. A year later he became engaged to his teenage sweetheart from Richmond, Elmira Royster. In 1849 he embarked on a tour of poetry readings and lecturing, hoping to raise funds so he could start his magazine The Stylus.

There are conflicting accounts surrounding the last days of Edgar Allan Poe and the cause of his death. Some say he died from alcoholism, some claim he was murdered, and various diseases have also been attributed. Most say he was found unconscious in the street and admitted to the Washington College Hospital in Baltimore, Maryland. He died soon after, on 7 October 1849, and was buried unceremoniously in an unmarked grave in the Old Westminster Burying Ground of Baltimore. On this original site now stands a stone with a carving of a raven and the inscription.


'The System of Dr. Tarr and Prof. Fether':


The story follows a nameless narrator who visits a mental institution in southern France (more accurately, a 'Maison de Santé') known for a revolutionary new method of treating mental illnesses called the 'system of soothing.' A companion with whom he is travelling knows Monsieur Maillard, the originator of the system, and makes introductions before leaving the narrator. The narrator is shocked to learn that the 'system of soothing' has been abandoned recently. He questions this, as he has heard of its success and popularity. Maillard tells him to 'believe nothing you hear, and only one half that you see.'


[I had heard, at Paris, that the institution of Monsieur Maillard was managed upon what is vulgarly termed the 'system of soothing' -- that all punishments were avoided -- that even confinement was seldom resorted to -- that the patients, while secretly watched, were left much apparent liberty, and that most of them were permitted to roam about the house and grounds in the ordinary apparel of persons in right mind.

Keeping these impressions in view, I was cautious in what I said before the young lady; for I could not be sure that she was sane; and, in fact, there was a certain restless brilliancy about her eyes which half led me to imagine she was not. I confined my remarks, therefore, to general topics, and to such as I thought would not be displeasing or exciting even to a lunatic. She replied in a perfectly rational manner to all that I said; and even her original observations were marked with the soundest good sense, but a long acquaintance with the metaphysics of mania, had taught me to put no faith in such evidence of sanity, and I continued to practise, throughout the interview, the caution with which I commenced it.]


In this passage we can reconnect with the Pinel's system for the insane treatment, very popular during the XVIII century. This Method was based on the idea in which the criticism at the insane action was abolished, and the madness was used for the public utility. The patients were free to create and to give free play to their insanity. Like the Pinel's system, Monsieur Maillard's system avoided all punishments and did not confine his patients. They were granted much freedom and were not forced to wear hospital gowns but instead 'were permitted to roam about the house and grounds in the ordinary apparel of persons in right mind.' Doctors 'humored' their patients by never contradicting their fantasies or hallucinations. For example, if a man thought he was a chicken, doctors would treat him as a chicken, giving him corn to eat, etc.

The system was apparently very popular. Monsieur Maillard says that all the 'Maisons de Santé' of France have adopted it. The narrator remarks that after the patient revolt is crushed, that system is reinstated at the asylum he visits--though modified in certain ways that are intended to reform it.


['And you had no punishments of any kind?'

'None.'

'And you never confined your patients?'

'Very rarely. Now and then, the malady of some individual growing to a crisis, or taking a sudden turn of fury, we conveyed him to a secret cell, lest his disorder should infect the rest, and there kept him until we could dismiss him to his friends -- for with the raging maniac we have nothing to do. He is usually removed to the public hospitals.']


In this passage, Poe refers to the social division of the mental institution: on the  one hand the Maison were only for the elitè, on the other hand the public hospitals accommodated all the social classes, in particular the poor, the criminals, the prostitutes with the real madmen without medical assistance. The public hospitals of the insane were considered the "Social rubbish bin".


['And how many have you in charge?'

'At present we have not more than ten, altogether.'

'Principally females, I presume?'

'Oh, no -- every one of them men, and stout fellows, too, I can tell you.'

'Indeed! I have always understood that the majority of lunatics were of the gentler sex.'

'It is generally so, but not always. Some time ago, there were about twenty-seven patients here; and, of that number, no less than eighteen were women; but, lately, matters have changed very much, as you see.']


Freud's theory of hysteria tells us that the origin of this mental disease is female. In fact the word Hysteria derives from ùsteros, the womb. The women are inclined to somatize all the problems inside their minds, and not to reveal to public, so this involves the mental problem and the madness. Also Freud's theory was popular in the XVIII century

In the story, Poe, using irony, reverses this trend, and the majority of the insane are men and not women


While they are eating conversation focuses on the patients that they have been treating. They demonstrate for the narrator the strange behavior they have witnessed, including patients who thought themselves a teapot, a donkey, cheese, champagne, a frog, snuff, a pumpkin, and others. Maillard occasionally tries to calm them down, and the narrator seems very concerned by their behavior and passionate imitations.

He then learns that this staff has replaced the system of soothing with a much more strict system, which Maillard says is based on the work of a 'Doctor Tarr' and a 'Professor Fether.' The narrator says he is not familiar with their work, to the astonishment of the others. It is finally explained at this point why the previous system was abandoned. One 'singular' incident, Maillard says, was when the patients, granted a large amount of liberty around the house, actually overthrew their doctors and nurses and usurped their positions, locking them up as lunatics. These lunatics were led by a man who claimed to have invented a better method of treating mental illness, and who allowed no visitors except for 'a very stupid-looking young gentleman of whom he had no reason to be afraid.' The narrator asks how the hospital staff rebelled and returned things to order. Just then, loud noises are heard and the actual hospital staff breaks from their confines. It is revealed that the dinner guests were, in fact, the patients who had just recently taken over. As part of their uprising, the inmates had treated the staff to 'tarring and feathering.' The keepers now put the real patients, including Monsieur Maillard, back in their cells, while the narrator, who is the 'stupid-looking young gentleman' mentioned by Monsieur Maillard, admits he has yet to find any of the works of Dr. 'Tarr' and Professor 'Fether".

The system of shooting that tried to normalize the madness, in this case became the instrument for the rebellion of the madmen. Poe reflects the fear of society about the madness and the treatment of the insane in the hospitals.

The staff of the Maison, are often considered at the same level of the madmen.

Géricault e i volti della Follia


La nascita dei manicomi nell'Ottocento ha un significato preciso: la follia diviene un fatto che riguarda sia la scienza, sia la collettività, che decide di allontanare da se stessa alcuni individui, giudicandoli inetti alla vita aggregata. Ma la rappresentazione romantica del folle non tiene conto di questi aspetti: la follia è sempre eccesso dell'individualità che, portando all'estremo alcune caratteristiche del singolo, lo conduce a una chiusura completa su di sé. Persino la rappresentazione pittorica del manicomio e degli psicopatici può lasciare da parte intenti realistici e polemiche sociali: spesso ciò che conta è la bizzarria che caratterizza i manicomi ed i suoi internati.

Accade così nei ritratti dei monomani del francese Géricault. La sensibilità romantica, insomma, sa avere pietà del folle solo se questo è solo; se lo vede rinchiuso in un'istituzione, confuso tra altri, non sa più riconoscerlo come uomo, e lo vede nell'estremo della luce della malattia.


'La pazzia, signore, se ne va a passeggio per il mondo come il sole, e non c'è luogo in cui non risplenda.' (William Shakespeare)


Géricault, è per eccellenza l'artista maledetto che rifiuta le regole dell'accademia, vive in solitudine creando capolavori il cui successo avverrà solo nel futuro. Il carattere melanconico e notturno dell'artista è messo in evidenza un dipinto anonimo che lo raffigura nello studio. Immerso nei suoi pensieri, con alle spalle anche un teschio oltre che gli strumenti di lavoro. L'immagine dell'artista che ha subito una dura depressione e che grazie a questa riesce ad accostarsi al trattamento dei malati di mente del suo secolo, fornendoci la loro immagine in tutta la durezza e accuratezza da poterne fare anche la diagnosi.


La Vita:


Géricault (Rouen, 26 settembre 1791 - Parigi, 26 gennaio 1824) è stato un pittore francese esponente dell'arte romantica. Cresce in una famiglia solida e abbiente, il che gli garantisce una buona e regolare istruzione.

Presto il giovane Géricault scoprirà le sue passioni, quella artistica e quella militare, entrambe accomunate dall'amore profondo per i cavalli. Cavalli che saranno oggetto di numerosi studi e tele. La sua fama inizia nel 1812 quando presenta al Salon il quadro Ufficiale dei Cavalleggeri della Guardia imperiale alla carica. L'immaginario di questo pittore spazia in tutti i campi: dal pittoresco, l'eroico, l'esotico al il realistico, tutti segni di una sensibilità romantica.

Il momento storico che contemplava le vittorie di Napoleone rese ancora più apprezzabile il dipinto. Al Salon del 1814 l'artista espose la tela col Corazziere ferito che abbandona il campo di battaglia (Parigi, Louvre), dove pur conservando il tono epico dei quadri di storia in accordo col nuovo clima romantico, sostituisce alla consueta celebrazione della vittoria, la rappresentazione della sofferenza e della dignitosa sconfitta in una visione antieroica. Nel 1816 partecipa al 'Prix de Rome , senza successo finirà per pagare a proprie spese il viaggio in Italia (aveva da concludere una vicenda personale - una relazione amorosa con la zia d'acquisto - e sperava che una lunga separazione potesse risolvere la questione) dove studierà l'arte e la grafica italiana apprezzando e imitando, in alcuni fra i suoi migliori lavori, i chiaroscuri del Manierismo, soprattutto durante il soggiorno a Firenze.

Nel 1817 torna definitivamente a Parigi. La relazione con la giovane zia non solo non è conclusa, ma gli darà anche un figlio. Al rientro a Parigi decide di dedicarsi maggiormente alla grafica (utilizzando la litografia, in auge proprio in quegli anni, che consentiva una grande espressività).

I Temi preferiti in questo periodo sono quelli sociali. La sua indagine è attratta dalla sofferenza umana, dalla sconfitta, dalla tragedia. Da ricordare le litografie Ritorno dalla Russia, dedicata ai soldati francesi, feriti e stremati, che ritornano dalla disastrosa campagna militare, e La guardia del Louvre in cui illustra una notizia letta sul giornale, di un mutilato di guerra.

Proprio questa passione per l'indagine della realtà lo porta ad occuparsi di cronaca. Mentre sta studiando il caso dell'omicidio di un giudice, viene raggiunto dalla sconvolgente cronaca di un tragico naufragio occorso nel 1816. Siamo nel 1818 e solo ora arrivano al pubblico le notizie circa questo fatto che il Governo vuole insabbiare. La fregata Meduse stava trasportando, insieme ad altre navi, una delegazione francese nella Colonia senegalese di St.Louis. A bordo c'erano circa 400 persone. Il 2 luglio 1816 (al quattordicesimo giorno di navigazione) la Meduse naufragò su una secca. Le scialuppe erano insufficienti e si costruì una zattera per ospitare i naufraghi rimasti senza mezzo di salvataggio. Erano centoquarantanove uomini, stipati sulla zattera. La zattera fu abbandonata ai flutti e non si fece nulla per soccorerla. Iniziò (e fu questo che colpì Géricault) una dura lotta per la sopravvivenza. Alcuni, moribondi, vennero buttati a mare, la fame, la sete e la disperazione diedero origine persino ad episodi di cannibalismo. Dodici furono i giorni dell'abbandono e della lotta, e quando una nave, l'Argus, raccolse i naufraghi, essi erano solo in quindici e tutti moribondi. Il quadro che ne scaturisce, "La zattera della Medusa" sarà esposto al Salon del 1819 facendogli godere di una grandissima fama ma anche di una grandissima critica.

Successivamente si manifesta una forma depressiva, secondo alcuni causata dalle critiche alla sua arte, sofferte per la sua straordinaria sensibilità, secondo altri causata dalla situazione sentimentale che lo porta a rivolgersi al giovane e già noto alienista dottor Etienne-Jean Georget. Oltre alla terapia, sembra nascere un sincero rapporto di reciproca stima, che porterà Gericault a realizzare dal vivo 10 ritratti di alienati monomaniacali. Non sappiamo se l'idea di ritrarre i malati fosse di Géricault, e il dottore gli abbia concesso i permessi necessari per avvicinare questi soggetti e farli posare, e poi abbia ricevuto i quadri in dono come segno di gratitudine, oppure se l'idea fosse del dottore stesso, mettendo a profitto il raro talento del pittore per ottenere dei dipinti in grado di testimoniare i tratti tipici delle singole manie. Le dieci opere furono presto divise fra il dott. Georget (presso cui ne rimasero cinque, quelle che abbiamo) e i suoi colleghi (queste cinque opere,invece, risultano oggi disperse). Le monomanie che ci restano documentate sono l'invidia, la mania del gioco, la cleptomania e l'assassinio, il rapimento dei bambini e la mania del comando militare. Le espressioni sono colte con un'acutezza e una precisione eccezionali, tanto da rendere possibile la diagnosi. Restano fra i ritratti più belli mai realizzati. La loro datazione non è certa, ma dovrebbe essere compresa fra 1822 e 1823. Nel 1822 avvennero anche le due cadute da cavallo che (trascurate) portarono ad una lesione del midollo spinale che condusse l'artista alla paralisi e alla morte. Il 26 gennaio 1824, infatti, Géricault morì, dopo un mese e mezzo di agonia.


Le Opere:

L'incontro di Géricault con la follia è dunque duplice: da una parte c'è il disagio personale; dall'altro la malattia di mente è vista con gli occhi della psichiatria contemporanea più avanzata e all'interno dell'istituzione del manicomio. In realtà, fra i due piani non c'è contatto: i folli non sono personaggi a cui il pittore si sente vicino, ma malati esibiti nella loro lontananza da noi. Géricault ritrae al tempo stesso degli individui particolari e dei tipi universali. Ognuno è colto nella peculiarità del suo aspetto fisico e del suo atteggiamento, ma rappresenta anche una patologia e un vizio. Il tentativo di Géricault è quello di far vedere non solo che la follia è una malattia, ma di far comprendere che essa non deve esser punita con l'orrore del manicomio.

"Alienato con la monomania del                     Alienata con la monomania dell'invidia"

comando militare."

L'artista quindi esplora gli abissi della malattia, coglie i sintomi del delirio con estrema accuratezza. La pennellata è dolce e il colore è vivo nei punti in cui si focalizza l'attenzione alla malattia mentale, il chiaroscuro si rifà invece all'esperienza di Caravaggio. L'artista sembra definire uno dei temi poi fondamentali nella cultura del Novecento: il confine tra salute mentale e follia è molto labile, come anticipa Freud nelle sue teorie. L'impostazione del quadro ricorda quella dei ritratti dei grandi maestri: ma il fatto che il soggetto non guardi lo spettatore, insieme alla piega ostinata delle labbra, tradisce la follia come assenza di comunicazione. Il realismo assume qui una sfumatura grottesca.

4.2: La Follia del manicomio:


Dai primi anni del '900 con Lombroso, Ossicini fino alla legge 180


Ma <<alla fine del XVIII secolo - dice Foucault nella sua Storia della follia - non si assiste ad una liberazione dei folli, ma ad una oggettivazione del concetto della loro libertà>>, oggettivazione che, da allora, ha spinto il malato ad identificarsi gradualmente con le regole e lo schema dell'istituto, ad istituzionalizzarsi. Spogliato di ogni elemento personale, posseduto dagli altri, preda delle sue stesse paure, il malato doveva essere isolato in un mondo chiuso dove, attraverso il graduale annientamento di ogni sua possibilità personale, la sua follia non avrebbe avuto più forza"

La storia dell'assistenza ai malati mentali non nasce come risposta a un problema medico, bensì per sedare esigenze sociali: il cittadino sano chiedeva allo Stato che il folle fosse assicurato alla giustizia e messo nelle condizioni di non nuocere. Ciò ha determinato che le norme riguardanti la malattia mentale ricadessero nel diritto penale, e che la pena prevista per il malato mentale fosse la segregazione e la sospensione dei diritti civili. Così all'inizio dell'ottocento i malati mentali si trovavano nella condizione di essere mescolati e confusi con i delinquenti e con i prigionieri politici.

La legge italiana è figlia di quella francese del 1838, tale legge regolamentava le modalità e le condizioni del ricovero in manicomio, dove appunto venivano ricoverate le persone secondo quella che diventerà la famosa formula " pericolose a se stesse e agli altri e che creano pubblico scandalo". La legge francese sull' «alienazione mentale» ha avuto una breve gestazione, giungendo all'approvazione nel 1838 senza opposizioni e contrasti significativi. Gli psichiatri francesi si erano raccolti realizzando la più esplicita e severa legge che neanche uno psichiatra molto repressivo potesse mai immaginare. Così, nel volgere di circa mezzo secolo, la Francia, passava dalle "lettres de cachet" di emanazione sovrana, alle norme di restrizione della libertà e di trattamento di stampo medicale.

Nel 1861, all'atto della proclamazione del nuovo Stato italiano, il presupposto che la follia fosse una comune malattia, e come tale di competenza della medicina, era largamente accettato ma, come testimoniano i diversi progetti di legge sull'assistenza ai malati mentali, il ricovero veniva largamente pensato come coatto e quindi presentato come una necessità sociale, più che sanitaria. In Italia il modello legislativo francese fu ampiamente accettato, tanto dai politici, che dai medici. Come premesso la legge italiana che regolava l'istituzione dei manicomi era quella del 1904 secondo la quale, sulle orme tracciate dalle legislazione francese, il malato mentale era considerato "pericoloso per sé e per gli altri", per cui doveva essere custodito nelle istituzioni manicomiali affinché fosse tutelata la sicurezza sociale. Questa è legge rimasta in vigore per oltre settanta anni. La legge 1904 dava un ordinamento ai manicomi: regole necessarie per ricoverare i pazienti, per dimetterli e per gestirli.

Il malato mentale, così "etichettato", veniva isolato e segregato in istituto, veniva custodito ma non "preso in cura" in senso psicologico. Il ricovero coatto veniva adottato in una logica di difesa sociale, ponendo la sicurezza pubblica al centro delle motivazioni e dell'attuazione del provvedimento. Tutti i disturbi mentali finivano per essere considerati pericolosi, prevedendo l'obbligo del ricovero nei casi di pazzia, anche quando in realtà tali soggetti non erano pericolosi, ma solo bisognosi di cura, e finivano per essere trattati analogamente ai delinquenti e ai criminali. La legge n° 36 del 1904, portava il nome di Giolitti ed entrò in vigore con il regolamento del 1909.

Il disegno di legge che Giolitti presentò al Senato con il titolo "Disposizione sui manicomi pubblici e privati", prevedeva alcuni punti fondamentali, tra i quali


Articolo 1.

Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sè o agli altri o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi. Sono compresi sotto questa denominazione, agli effetti della presente legge, tutti quegli istituti, comunque denominati, nei quali vengono ricoverati alienati di qualunque genere. []

Articolo 2.

L'ammissione degli alienati nei manicomi deve essere chiesta dai parenti, tutori o protutori, e può esserlo da chiunque altro nell'interesse degli infermi e della società. Essa è autorizzata, in via provvisoria, dal pretore sulla presentazione di un certificato medico e di un atto di notorietà, redatti in conformità delle norme stabilite dal regolamento, ed in via definitiva dal tribunale in camera di consiglio sull'istanza del pubblico ministero in base alla relazione del direttore del manicomio e dopo un periodo di osservazione che non potrà eccedere in complesso un mese. Ogni manicomio dovrà avere un locale distinto e separato per accogliere i ricoverati in via provvisoria. L'autorità locale di pubblica sicurezza può, in caso di urgenza, ordinare il ricovero, in via provvisoria, in base a certificato medico, ma è obbligata a riferirne entro tre giorni al procuratore del Re, trasmettendogli il cennato documento. []

Articolo 3.

Il licenziamento dal manicomio degli alienati guariti, è autorizzato con Decreto del presidente del tribunale sulla richiesta o del Direttore del manicomio, o delle persone menzionate nel primo comma dell'articolo precedente o della deputazione provinciale. Negli ultimi due casi dovrà essere sentito il Direttore. Sul reclamo degli nteressati il presidente potrà ordinare una perizia. In ogni caso contro il Decreto del presidente è ammesso il reclamo al tribunale. Il direttore del manicomio può ordinare il licenziamento, in via di prova, dell'alienato che abbia raggiunto un notevole grado di miglioramento e ne darà immediatamente comunicazione al procuratore del Re e all'autorità di pubblica sicurezza.

Articolo 4.

Il direttore ha piena autorità sul servizio interno sanitario e l'alta sorveglianza su quello economico per tutto ciò che concerne il trattamento dei malati, ed è responsabile dell'andamento del manicomio e della esecuzione della presente legge nei limiti delle sue attribuzioni. Esercita pure il potere disciplinare nei limiti del seguente articolo. []


In Italia le dimensioni dei manicomi vennero ad assumere dimensioni gigantesche, «dal 1874 al 1940 si passò rispettivamente a 12.200 ricoverati a 95.984 ricoverati» ). L'ammissione in manicomio avveniva in via provvisoria sulla base della presentazione di un certificato medico ed era autorizzata dal pretore; l'ammissione definitiva avveniva per sentenza del Tribunale, su istanza del pubblico ministero in base alla relazione del Direttore del manicomio (art 2, legge 36); l'avvenuto ricovero definitivo veniva iscritto nel casellario giudiziario. Le Province avevano l'obbligo di provvedere alle spese per il mantenimento degli alienati poveri (art. 6, legge 36). La vigilanza sui manicomi pubblici e privati competeva al Prefetto. Secondo tale legge il malato mentale era: dichiarato pericoloso o scandaloso da un atto giuridico; recluso con provvedimento giudiziario di carattere obbligatorio, adottato che, senza termine certo, su iniziativa di terzi, interdetto civilmente, escluso dalla sfera politico-elettorale; irresponsabile penalmente; può essere dimesso solo in prova o in esperimento, per volontà del giudice elencato, dopo la dimissione, sul registro dei "dimessi dal manicomio" (sui quali era esercitato un controllo di polizia) Queste erano le principali caratteristiche coerenti con lo scopo ufficiale della struttura manicomiale: privare il "pazzo", il "folle" della libertà e della capacità, perché pericoloso ed impedirgli, con ciò, di nuocere a sé e agli altri.


Le teorie di Lombroso per l'internamento dei malati mentali:


La concezione di manicomio venne ispirata dalle teorie di Lombroso, teorie che ravvisavano i malati mentali come soggetti pericolosi, dai quali la società doveva difendersi con una reclusione indeterminata. La pazzia doveva dar luogo a misure legate non alla gravità clinica, ma al grado di pericolosità deducibile dallo stato della malattia. Insomma la pericolosità sociale veniva messa al centro della psichiatria. Le norme sul ricovero coatto contribuivano a dare la sensazione che la malattia mentale fosse concettualmente collegabile alla polizia e ai tribunali, finendo in tal modo per costruire un'immagine del malato mentale che assomigliava sempre più alla condizione di delinquente, piuttosto che come un soggetto sofferente e bisognoso di cura. Infatti l'internamento, secondo il regolamento legislativo, era destinato a durare non fino a quando il paziente fosse guarito, ma fino a quando egli non fosse stato considerato più pericoloso; il giudizio di questa pericolosità spettava alla azione psichiatrica, che appariva in questa funzione più come uno strumento giudiziario che una modalità di cura. Il filtro giurisdizionale voluto dalla legge all'ingresso dei manicomi avrebbe dovuto essere la garanzia che solo i veri pericolosi, autentici scandalosi, avrebbero varcata la soglia del manicomio.

Per Lombroso, a definire la pazzia concorrono molti elementi, dalla razza all'ereditarietà, dalla conformazione del cranio al clima, dall'alimentazione all'alcolismo: in ogni caso, fattori fisici e materiali, da studiare e analizzare grazie alla statistica e ai modelli matematici. C'è, nelle sistemazioni di Lombroso, un grado altissimo di approssimazione e ingenuità, proprio per la pretesa di ridurre tutto a dato quantificabile. Soprattutto, gli studi di Lombroso sono chiaramente orientati de una tesi: è pazzia qualunque comportamento esuli dalla norma sociale e dai valori dominanti nel perbenismo della società italiana postunitaria. Anche il genio è spesso ricondotto a follia; e non più in senso romantico. Sono giudicati pazzi indifferentemente Socrate con il suo daimon e Maometto perché si dice ispirato da Dio; Lutero che crede nella presenza del diavolo e Ignazio di Loyola che ha delle visioni; Newton che non tollera gli oppositori e Schopenhauer con la sua misantropia; Hoffman che scrive in modo stravagante e Baudelaire che rinnova la poesia e esalta l'artificio posto alla natura.

È pazzia, insomma, qualunque tentativo di cambiare la politica, la religione, la società, la morale, l'arte. Ed è almeno sospetto di pazzia chiunque non sia un buon padre di famiglia, un marito esemplare, un onesto lavoratore, un patriota. Non a caso i pazzi sono «molti più che non si creda», e soprattutto tra i letterati. L'atteggiamento di Lombroso, mentre si presenta come impassibilmente scientifico, si rivela strettamente ideologico: è una difesa così spietata dei valori borghesi, da accusare di malattia qualunque atto o pensiero se ne discosti. Per di più, esso rivela una profonda incomprensione culturale per tutto quanto sia lontano dai canoni della scienza positivista: non solo la magia, la stregoneria e le credenze "primitive", ma le religioni in genere sono sempre state macchiate di delirio. Il folle, di conseguenza, è il diverso e l'emarginato per eccellenza. I suoi discorsi e i suoi comportamenti vengono analizzati con minuzia a un solo scopo: mostrare quanto siano folli. Il pazzo è qualcuno da cui tutti si devono guardare, e anzitutto le due grandi autorità: quella scientifica e quella politica. Non a caso è accostato a un criminale e comunque è un individuo pericoloso. Allora sarà giusto isolarlo e rinchiuderlo come si fa con i criminali veri e propri, loro stessi considerati malati da Lombroso.



Il manicomio in Italia:

Per quanto riguarda l'Italia la storia della follia incominciò nel XVIII secolo, momento storico che corrisponde all'epoca della Rivoluzione industriale. Non è casuale che follia, neurastenia, sofferenza mentale, si siano manifestate in modo clamoroso soprattutto all'epoca della Rivoluzione Industriale, quando gli scambi e i mutamenti di carattere economico-culturale obbligano le grandi masse contadine ad emigrare, dove incontrano forme di vita invivibili». È proprio tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, quando, con la comparsa dei primi paesi industrializzati, comparvero le prime legislazioni in materia di assistenza psichiatrica, si svilupparono le istituzionalizzazioni manicomiali. Le fasi iniziali possono essere ricondotte alle grandi trasformazioni sociali che avvenivano con l'era industriale, dove si sviluppa una cultura basata su forti esigenze economiche, le nazioni venivano considerate ricche se possedevano grandi concentrazione di "forzalavoro," in questo modo la società era chiamata a suddividere la popolazione secondo rigidi schemi, chi non era abile era inutile e per questo improduttivo. In quest'ultima classificazione si resero sempre più evidenti i folli, in quanto inutili, improduttivi, dannosi e soprattutto pericolosi, tanto da poter essere solo essere esclusi, da quella che Basaglia ha definito l'ideologia del controllo sociale. È sul concetto di pericolosità sociale che si fondavano le norme che legittimavano le istituzioni manicomiali. Il manicomio era frutto di una rimozione sociale e di una ghettizzazione della sofferenza psichica, ed era quindi ricettacolo chiuso di qualcosa che in fondo seminava paura


"L'internamento, ultimo arrivato sulla scena della risposta sociale alla follia, vi acquista immediatamente un ruolo predominante, sia rispetto alla malattia mentale stessa che alla sua "cura" (Canosa, 1979).

La struttura del Manicomioe le sue funzioni:


Per poter comprendere il trattamento praticato all'interno dei manicomi è utile poter partire della sua strutturazione e dalla sua organizzazione. Il manicomio solitamente sorgeva alla periferia delle città, lontano dalla vita civile del paese; ed era prevista almeno una struttura manicomiale per provincia. Il manicomio era diviso in vari reparti che avevano una propria funzione, ed erano presenti all'interno di queste strutture in quantità doppie in quanto c'erano reparti femminili e reparti maschili.

I reparti di accettazione potevano dirsi come i più accoglienti, in quanto la loro funzione era proprio quella di ricevere il paziente al suo arrivo. Il reparto di vigilanza invece, ospitava soltanto quei pazienti che avevano manifestato comportamenti aggressivi o pericolosi, ed era strutturato in modo tale da poter essere finalizzato al contenimento della potenziale pericolosità. I pazienti che venivano ricoverati al suo interno non potevano più essere dimessi, proprio a causa della loro presunta pericolosità. Quest'ultimo veniva definito come reparto degli inquieti, perché raccoglieva i pazienti in crisi o comunque aggressivi, ed era organizzato in camerette di contenzione, caratterizzate da una rigida divisione degli spazi.

Il reparto dei cronici tranquilli, invece, accoglieva tutti i pazienti che, se pur calmi, non potevano più essere dimessi, in quanto o non avevano chi si prendesse cura di loro, oppure una casa dove andare. Questi pazienti erano quelli che non procuravano problemi al personale medico e di fatto avevano maggiori privilegi, libertà ed autonomia, e nella maggior parte dei casi collaboravano con il personale medico e avevano accettato tutte le regole dell'istituzione. Quando questi pazienti diventavano anziani e non più autosufficienti, gravi o menomati, venivano trasferiti nel reparto di infermeria, il quale accoglieva tutti i pazienti che erano invalidi.

Alcuni manicomi erano strutturati in modo tale da poter avere anche dei reparti per minori, per i suicidi e quelli nosografici.. Il personale operante all'interno dei manicomi era composto da psichiatri, medici, infermieri. L'infermiere aveva il compito di "nutrire, lavare e vestire" l'internato, salvaguardandone l'integrità fisica. Lo psichiatra interveniva su richiesta dell'infermiere in caso di un comportamento del paziente difficilmente controllabile, specie se si pensava di dover ricorrere ad una sedazione farmacologica; inoltre il medico sovrintendeva al buon funzionamento del reparto e delegava agli infermieri la normale gestione dell'internato.

I manicomi prima ancora di essere strutture logistiche, caratterizzate dalla chiusura, dalla separazione dal contesto sociale, dalla regressione e dalla perdita dei diritti umani, erano un fatto culturale, una disposizione del pensiero, una ideologia. Il manicomio era un modello teorico gestionale unitario e molto forte, che legava una concezione scientifica e sociale della malattia mentale, quali la sua incurabilità e la sua pericolosità. Il progetto assistenziale era caratterizzato dalla continuità e più in particolare dalla totalità del controllo sui pazienti, offrendo molte garanzie di tutela per la società.

Gli internati venivano descritti come persone con alterato equilibrio psicologico ed un comportamento non compatibile con quello che era l'attuale ordine sociale, per le quali la società non trovando alcuna soluzione, sentiva la necessità di occultarli. Inoltre gli internati erano, nella maggior parte dei casi appartenenti alle classi meno abbienti. Date queste caratteristiche, le funzioni del manicomio potevano essere ricondotte ad almeno quattro: tutela dell'ordine pubblico, funzione assistenziale e sanitaria, funzione curativa per i pazienti, funzione scientifica e funzione di tutela per la società.

La funzione di tutela dell'ordine pubblico, quella di poter sollevare la società dalla presenza di soggetti, che pur non avendo commesso veri e propri reati, che giustificavano la carcerazione, creavano problemi e disturbi all'ordine sociale, e per tali motivi venivano istituzionalizzati. Il manicomio infatti, manteneva numerosi rapporti con altri organismi di normalizzazione della società: autorità giudiziaria, polizia, carcere e manicomio giudiziario. In tal modo si rispondeva al bisogno di controllo e di esclusione sociale per i pazienti psichiatrici. Un'altra funzione del manicomio, a favore della società, era lo sfruttamento della forza lavoro dei pazienti ricoverati all'interno dei manicomi, la cosiddetta ergoterapia, praticata e legittimata grazie alla legge 36 del 1904. Il manicomio nasceva dalla funzione di contenere gli "scarti della società", anche se manteneva il carattere assistenziale con la caratteristica di occultare i problemi, piuttosto che risolverli. Un'assistenza che tutelava i familiari piuttosto che i malati. La funzione curativa era molto limitata e subordinata ai bisogni di tutela e di assistenza. Solitamente all'interno dei manicomi le cure restavano prerogativa dei soli pazienti che venivano ricoverati per un periodo di tempo circoscritto. Per i pazienti che per anni restavano rinchiusi in manicomio non si poteva parlare di cura, ma solo di cronicizzazione della malattia stessa, dovuta alla stratificazione sul disturbo originario della malattia


L'antipsichiatria

"Qualcuno volò sul nido del cuculo"

Nella prima metà del Novecento dunque, il manicomio consolida e raffina i sistemi di repressione e di tortura elaborati dalla psichiatria positivista: l'uso di farmaci si fa più massiccio; si pratica la lobotomia (asportazione di una parte del cervello, che riduce il paziente in uno stato di idiozia); viene introdotto l'elettroshock (stimolazione elettrica dell'encefalo, talora per ridurre all'impotenza gli internati "furiosi"). Il malato non ha dritti: è ridotto a una cosa, e l'ospedale non fa che aggravare la sua condizione.

Contro questo stato di cose si afferma sempre di più la convinzione che la psichiatria e le istituzioni manicomiali siano incapaci di comprendere la sofferenza o anche solo il discorso del folle. La nuova consapevolezza nasce dalla sensibilità di scrittori come Pirandello e Virginia Woolf che, non a caso, conobbero la realtà della malattia di mente (Pirandello perchè marito di una psicopatica, la Woolf perchè soggetta a gravi crisi depressive). Da qui l'insorgere dell'antipsichiatria, i cui primi esponenti sono medici americani che si formano il più delle volte sulla filosofia fenomenologica ed esistenzialista: la follia non può essere oggetto da studiare, ma diventa una modalità di esistenza. Il folle non è qualcuno da tener lontano e da curare, ma qualcuno che si deve imparare ad ascoltare, sino quasi a fondersi con il suo mondo mentale. Ma se tra medico e paziente non ci deve essere distanza, le nozioni stesse di medico e paziente vengono messe in crisi fino quasi a essere abolite. Soprattutto, ciò che non è più possibile è il manicomio, visto come un carcere in cui la società interna individui che non ne accetteno le regole. La follia è solo un mito, un'invenzione per criminalizzare chi non sia gradito al potere. Al posto del manicomio, nascono così le comunità, in cui il folle è restituito alla sua libertà e può esprimersi in un nuovo mondo, alternativo rispetto a quello che si regge sulle gerarchie e sulla repressione del diverso. Prima di curare il folle bisogna curare la società e la sua prima cellula: la famiglia, causa diretta del disagio.


L'antipsichiatria suscita molte polemiche. Il suo rischio è dimenticare che la malattia di mente esiste e che il folle è una persona che soffre e merita aiuto. Tuttavia, il lavoro di critica di questo movimento è spesso molto acuto. Ciò che l'antipsichiatria mette in luce è, prima ancora che il meccanismo con cui la società risponde alla follia, i meccanismi di potere e di repressione che regolano la società stessa.

L'antipsichiatria trova applicazione anche nel nostro paese, rifiutando però l'estremismo dei medici americani. Il suo centro è l'Ospedale Psichiatrico Provinciale di Gorizia e il suo promotore ne è il direttore (a partire dal 1961): Franco Basaglia. In un progetto di stretta collaborazione tra medici e infermieri, Basaglia rifiuta le regole del manicomio, per trasformarlo in una comunità terapeutica.

Si aboliscono anzitutto le misure repressive: i muri divisori sono abbattuti, i cancelli aperti; pazienti, prima costretti a indossare corpetti di forza e letteralmente ingabbiati, sono ora invitati a circolare liberamente, a conoscere i loro compagni e a comunicare con il personale ospedaliero. I reparti si trasformano in comunità in cui tutti sono invitati a partecipare: sia i ricoverati, sia gli infermieri, sia i medici. Il malato, che sino ad allora era «cittadino senza diritti», viene restituito a se stesso.

Nel 1925, un manifesto di artisti francesi che si firmavano "la révolution surrealiste", indirizzato ai direttori dei manicomi, così concludeva: "Domattina, l'ora della visita, quando senza alcun lessico tenterete di comunicare con questi uomini, possiate voi ricordare e riconoscere che nei loro confronti avete una sola superiorità: la forza".


Quaranta anni dopo - legati, come gran parte dei paesi europei, ad una legge antica ancora incerta fra l'assistenza e la sicurezza, la pietà e la paura - la situazione non è di molto mutata: limiti forzati, burocrazia, autoritarismo regolano la vita degli internati per i quali già Pinel aveva clamorosamente reclamato il diritto alla libertà. Ma la libertà di cui parlava Pinel era stata concessa in uno spazio chiuso, messa nelle mani del legislatore e del medico che dovevano dosarla e tutelarla. Per questo, più di due secoli dopo lo spettacolare scioglimento delle catene, regole forzate e mortificazioni segnano ancora il ritmo della vita dei ricoveri, richiedendone l'urgente soluzione con formule che tengano finalmente conto dell'uomo nel suo libero porsi nel mondo.

Ma oggi lo psichiatra si rende conto che i primi passi verso "l'apertura" del manicomio producono nel malato una graduale trasformazione del suo porsi, del suo rapporto con la malattia e col mondo, della sua prospettiva delle cose, ristretta e rimpicciolita non solo dalla condizione morbosa ma dalla lunga ospedalizzazione. Il manicomio - nato come difesa da parte dei sani contro la pazzia, come protezione dall'invasione dei "centri d'infezione" - sembra essere finalmente considerato il luogo dal quale il malato mentale deve essere difeso e salvato.



"Qualcuno volò sul nido del cuculo"


'è un buon segno sig. Mac.Murphy, l'ascolto.'

'oggi, come forse lei sa o forse no, è la prima giornata delle finali di baseball, e vorrei suggerire di spostare l'orario di lavoro di sta sera,

così ci vediamo la partita in tv.'

'bhe, sig. Mac Murphy, con la sua proposta lei chiede di cambiare sta sera un orario di lavoro minuziosamente studiato.'

'una cambiatina non guasta mica. Per non annoiarsi'

'Questo non è necessariamente vero sig Mac Murphy, vede ci sono molti tra voi ai quali è occorso tanto tempo x abituarsi all'orario.

il fatto di variarlo potrebbe disturbarli.'

'Bhè..ma chi se ne frega dell'orario, tutti possono riprendere il loro tram tram dopo, io sto parlando delle finali di campionato!'

(Qualcuno volò sul nido del cuculo)



L'opera che meglio esprime l'impostazione critica dell'antipsichiatria è il romanzo One flew over the

cuckoo's nest dell'americano Ken Kesey, pubblicato nel 1962, da cui è stato tratto il film Qualcuno

volò sul nido del cuculo di Milos Forman, uscito nel 1975. L'autore scrisse il libro in seguito alla propria esperienza da volontario all'interno del «Veterans Administration Hospital» di Palo Alto, in California.

Il film denuncia in maniera drammatica il trattamento inumano a cui sono sottoposti i pazienti ospitati nelle strutture ospedaliere statali, verso cui vige un atteggiamento discriminatorio alimentato dalla paura dell'aggressività dell'alienato mentale. La domanda di fondo che il film suscita riguarda l'esistenza di una base certa che funga da parametro nello stabilire la linea di demarcazione che separa il mondo della normalità da quello della follia, così come sosteneva Freud.

Nel film, la pazzia è vista come un 'non luogo', come un qualcosa che il protagonista ha dentro di sé e vuole portar fuori, quasi a voler dire che in fondo una certa dose di pazzia è insita in ogni uomo, anche in chi non viene ricoverato in manicomio.

Emerge quindi una visione relativista del concetto di follia, tanto che durante il film può nascere il dubbio se nel manicomio i veri malati siano proprio i pazienti, e non gli infermieri e i medici che li curano e che hanno anche loro i propri problemi psicologici, più o meno visibili. Si crea quindi un contesto in cui l'idea di normalità perde notevolmente significato.

Nella citazione che ho messo, ci si riferisce ad una discussione durante la seduta giornaliera che i malati di mente facevano durante il giorno. In questa seduta, il protagonista fa notare attraverso la sua richiesta  come nell'ospedale psichiatrico, esistano delle regole forzate di convivenza, e sopratutto di lavoro a cui i malati si abituano non facilmente. La critica al trattamento dei malati mentali in questo film è molto forte, attraverso le azioni del protagonista si colgono quelle che sono le intenzioni dell'azione antipsichiatrica, un esempio dei tanti è il tentativo di portare in gita i cosiddetti "pazzi" lasciandoli liberi di esprimersi e vivere nuove esperienze ordinarie anche se loro erano definiti "anormali" e non in grado di poter affrontare la quotidianità. Il protagonista Mac Murphy, fa notare come nel manicomio non dovessero esserci per forza i pazzi, anzi nel manicomio c'era la concezione che qualsiasi forma di pericolosità per la società dovesse esser internata.

Chiunque entrasse in un manicomio doveva abbandonare se stesso, i propri oggetti, le proprie abitudini, e vivere in un luogo di forte chiusura. Dal momento in cui oltrepassa il muro dell'internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale (risultato della malattia che Burton chiama "insitutional neurosis", istituzionalizzazione.

Il titolo è altamente simbolico, ma la traduzione italiana limita la comprensione effettiva del suo significato. Letteralmente riprende il verso di una filastrocca: One flew east, one flew west, one flew over the cuckoo's nest ('Uno volò ad est, uno volò ad ovest, uno volò sul nido del cuculo').

Il termine inglese 'cuckoo' indica propriamente il cuculo, ma in senso traslato significa anche 'pazzo' e quindi il titolo potrebbe essere tradotto con 'qualcuno diventò pazzo'. Il cuculo non costruisce un proprio nido ed è solito deporre le sue uova in quelli altrui. I piccoli di cuculo, una volta venuti al mondo, spingono fuori dal nido i figli degli uccelli che lo hanno costruito. Questa prole adottiva viene poi nutrita dai nuovi genitori che, guidati dall'istinto, continuano ad accudire i nuovi nati come se fossero i loro.

Per metafora, il nido è il manicomio e il cuculo è l'infermiera capo, che con il suo staff si insinua nelle loro menti e se ne impossessa, di fatto distruggendone ogni potenzialità. Quel 'qualcuno' del titolo che 'volò' sul nido del cuculo è proprio Randle Patrick McMurphy, che smaschera il carattere repressivo e carcerario dell'istituzione.



Randle Patrick McMurphy, età 38 anni. Cosa sa dirmi del motivo per cui l'hanno mandata qui?'.
'Non lo so. Cosa dice là? Dà fastidio se fumo?'.
'Dicono diverse cose qui. Dicono che si è dimostrato bellicoso. Che parlava quando non era consentito. Che ha dimostrato intolleranza verso il lavoro in generale. Che è indolente'.
 'Che succhiavo caramelle in classe'.
'Beh, il vero motivo per cui Lei è stato mandato qui è perché vogliono che Lei sia vagliato. Per stabilire se Lei è ammalato di mente oppure no. Perché crede che la pensino così?'.
'Perché l'hanno mandata qui dal campo di lavoro?'.
'Io non lo so perché, Dottore'.
'Qui dice che una, due, tre, quattro: qui dice che Lei è stato arrestato almeno cinque volte per aggressione. Cosa sa dirmi in proposito'.
'Cinque combattimenti, eh? Rocky Marciano ne ha fatti quaranta ed è diventato miliardario'.
'Questo è vero ma è anche vero che Lei è stato dentro per violenza ad una minorenne. Questo è vero, sì o no? Che cosa sa dirmi?'.
'Assolutamente vero. Ma vede Dottore, quella aveva quindici o sedici anni ma andava per i trentacinque. A me disse che ne aveva 18 compiuti. Le assicuro che non cercava altro'.
'In piena sincerità, Signor McMurphy, quel che dicono qui, è che sono convinti che Lei finga per cercare di evitare di lavorare. Cosa ne pensa?'.
'Secondo Lei ho l'aria di essere un lavativo?'.
'Bene. Cerchiamo di parlarci francamente. Senta Randal, vuol dirmi se crede che la sua mente abbia davvero qualcosa che non va'.
'Non ha niente, è una maledetta stupenda meraviglia della scienza'.
'Lei passerà qui un periodo affinché possa essere vagliato. Noi la osserveremo, così potremo decidere come dovremo regolarci e intanto riceverà le necessarie cure'.

Il film, che vede le vicende anticonformiste di Mac Murphy, finisce con una critica pesante non solo ai manicomi, ma ai sistemi di lobotomia utilizzati e dell' elettoshock. Di fronte all'ultimo episodio di caos generato all'interno della struttura la commissione medica si convince che il Signor McMurphy è un ammalato pericoloso e che questa sua aggressività vada curata con una lobotomia. Mentre tutti i degenti si chiedono dove sia finito, una notte McMurphy appena operato, instupidito, viene ricondotto in reparto. L'indiano, Capo Bromden, quando lo vede in queste condizioni, senza più forza di volontà, lo uccide, soffocandolo con un cuscino. Poi strappa un lavabo di marmo pesantissimo, lo scaglia contro una finestra e fugge dalla breccia correndo lontano verso la libertà.

Franco Basaglia e la Legge 180


Grazie all'opera di Franco Basaglia, si ha una completa rivoluzione del sistema sanitario, nello specifico l'istituzione del manicomio. Attraverso i suoi studi prima medici incentrati sulla psichiatria e poi filosofici sull'esistenzialismo, questa figura importante anche nel campo politico, riesce a percepire l'orrore del ricovero coatto nelle case manicomiali e a capire che L'Italia aveva bisogno di un rinnovamento politico e sociale.


Franco Basaglia nasce a Venezia l'11 marzo 1924, da una famiglia agiata. Nel 1949 si laurea in medicina e chirurgia e inizia a frequentare la clinica delle malattie nervose e mentali di Padova, dove lavora come assistente fino al 1961.

Per tutto questo periodo - e anche oltre - Basaglia produce un grande lavoro intellettuale con un susseguirsi di scritti, di pubblicazioni scientifiche, di relazioni congressuali sulle più diverse condizioni di malattia quali poteva incontrare nella sua pratica clinica: la schizofrenia, gli stati ossessivi, l'ipocondria, la depersonalizzazione somatopsichica. Sono anni in cui incomincia anche ad appassionarsi di filosofia, studiando in particolare la fenomenologia e l'esistenzialismo e cercando di conciliare la psicopatologia tradizionale con la psichiatria antropo-fenomenologica. Direttore della clinica è il professor Giovanni Battista Belloni, accademico di vecchio stampo e di prevalente formazione neurologica e organicista, con il quale Basaglia intrattiene un rapporto formale di rispetto. Qualche anno dopo è lo stesso Belloni che dissuade 'il filosofo' Basaglia - come lo chiama ironicamente - a lasciar perdere la carriera universitaria, a cui pure egli teneva, perché non si sarebbero aperte concrete possibilità di successo.

Nel 1958 Basaglia consegue la libera docenza in psichiatria e nel 1961 partecipa e vince il concorso per la direzione dell'ospedale psichiatrico di Gorizia, dove si trasferisce con tutta la famiglia. Drammatico è l'impatto con la durezza della realtà manicomiale: Basaglia comprende subito che bisogna reagire a questo orrore, impegnandosi in un radicale lavoro di trasformazione istituzionale. Aiutato da un gruppo di giovani psichiatri, cerca di seguire il modello della 'comunità terapeutica', mutuato dall'esperienza di Maxwell Jones a Dingleton in Scozia (anche Franca Ongaro, la moglie, visita in seguito questa comunità). A Gorizia s'iniziano ad applicare nuove regole di organizzazione e di comunicazione all'interno dell'ospedale, si rifiutano categoricamente le contenzioni fisiche e le terapie di shock, s'incomincia, soprattutto, a prestare attenzione alle condizioni di vita degli internati e ai loro bisogni. Si organizzano le assemblee di reparto e le assemblee plenarie, la vita comunitaria dell'ospedale si arricchisce di feste, gite, laboratori artistici. Si aprono spazi di aggregazione sociale, cade la separazione coatta fra uomini e donne degenti. Si aprono le porte dei padiglioni e i cancelli dell'ospedale.

In questi anni, Basaglia prosegue la sua attività scientifica e intellettuale e continua a partecipare attivamente ai congressi nazionali e internazionali di neurologia e di psichiatria, tra cui il Congresso Internazionale di Psicoterapia di lingua tedesca a Wiesbaden nel 1962 e il VII Congresso di Psicoterapia a Londra nel 1964. Nello stesso anno, sempre a Londra, fa parte della delegazione italiana al I Congresso Internazionale di Psichiatria Sociale a Londra, dove presenta la comunicazione intitolata 'La distruzione dell'ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione', nella quale è prefigurato il lavoro che sarà realizzato prima nell'ospedale psichiatrico di Gorizia e poi in quello di Trieste.


'Il mio incontro cn Franco Basaglia è stato un momento importante della mia vita. Lui stava combattendo per la chiusura dei manicomi.

Quando io ho pensato che, indipendentemente da quello che lui progettava, che fosse interessante, riuscire a fotografare un ospedale psichiatrico, e quindi le due cose si sono incontrate.'

(Carla Cerati)


Nel 1968 cura il volume L'istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, che fa conoscere a livello internazionale l'esperienza innovativa di Gorizia e sancisce la nascita del movimento antiistituzionale. Nel 1969, con Franca Ongaro, cura Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin; presenta inoltre Asylums di Erving Goffman e Ideologia e pratica della psichiatria sociale di Maxwell Jones. Nello stesso anno si reca negli Stati Uniti, invitato in qualità di visiting professor, per la durata di sei mesi, dal Community Mental Health Center del Maimonides Hospital di Brooklyn, a New York: di questa esperienza dà testimonianza nello scritto 'Lettera da New York. Il malato artificiale'.

Al suo ritorno, dopo un periodo d'indecisione, lascia Gorizia - dove il tentativo di superare il manicomio purtroppo fallirà per le resistenze opposte dall'amministrazione locale nel dare luogo a un'assistenza psichiatrica sul territorio - e accetta l'invito di Mario Tommasini, coraggioso assessore alla sanità della Provincia di Parma, di dirigere l'ospedale psichiatrico di Colorno. Qui avvia la prima fase di un processo di trasformazione che si rivela ben presto, anche qui, un'esperienza molto difficile, perché Basaglia deve affrontare numerose difficoltà di ordine amministrativo, opposte dalla giunta di sinistra della Provincia di Parma, che pure si è impegnata a sostenere il processo di trasformazione, ma che di fatto non lo appoggia per non stravolgere gli equilibri politici e gli interessi economici locali.

La svolta è nell'estate del 1971, quando Basaglia vince il concorso per la direzione dell'ospedale psichiatrico di Trieste: accetta subito perché gli viene garantita la possibilità di fare tutte le scelte che ritiene più opportune. Al suo arrivo sono ricoverate 1182 persone, 840 delle quali in regime coatto. L'ospedale è sotto l'amministrazione della Provincia, retta da una giunta di centro-sinistra che è presieduta da Michele Zanetti; quest'ultmo dà pieno appoggio al progetto di superamento del manicomio e di organizzazione psichiatrica territoriale proposto da Basaglia e dai suoi.

Appena arrivato, Basaglia chiede di poter costruire la sua équipe e presenta un programma di ristrutturazione dell'assistenza psichiatrica provinciale con un drastico ridimensionamento dell'ospedale attraverso l'apertura e la riorganizzazione dei reparti. Si tratta di spezzare l'isolamento del manicomio rispetto alla città per lavorare con un'immediata proiezione sul territorio circostante. Basaglia, forte dell'esperienza di Gorizia e di Parma, si è accorto che l'esperimento della Comunità Terapeutica non basta: bisogna dar corso a un progetto politico che non si arresti alla bonifica umanitaria del manicomio, né alla semplice trasformazione delle sue dinamiche di funzionamento interno, ma metta in discussione la persistenza stessa dell'istituzione totale. A Trieste il manicomio deve essere chiuso. È necessario anche costruire una rete di servizi esterni, che arrestino il flusso dei nuovi ricoveri e provvedano alle necessità di assistenza per le persone dimesse dal manicomio. Nel 1973, contro lo sfruttamento 'ergoterapico' degli internati, ottiene l'agognato riconoscimento giuridico la Cooperativa Lavoratori Uniti, prima esperienza di organizzazione lavorativa.

Nello stesso anno, Basaglia fonda con altri collaboratori 'Psichiatria Democratica', movimento nel quale si confrontano molte esperienze di psichiatria alternativa che stanno sorgendo in Italia. Il primo convegno, 'La pratica della follia', si tiene a Gorizia nel 1974 e segna il collegamento fra il movimento anti istituzionale e le forze politiche e sindacali di sinistra. Si svolgono le elezioni amministrative, dalle quali il centrosinistra esce indebolito. Infatti, nel 1976 il clima politico peggiora e l'esperienza di superamento del manicomio subisce attacchi sempre più violenti. È l'aggravamento di una crisi politica e amministrativa che porta alla fine della giunta Zanetti, che, messa in minoranza, deve dimettersi. Zanetti insieme con Basaglia annuncia in conferenza stampa la chiusura entro la fine del 1977 dell'ospedale psichiatrico.

Il 16 maggio del 1978 veniva pubblicato, sulla Gazzetta Ufficiale, il testo della legge180, sotto il titolo "Accertamenti e Trattamenti Sanitari Obbligatori",

'Basaglia io l'ho visto, più che come un medico, un rivoluzionario, un uomo assolutamente geniale, imprevedibile. Era capace in un salotto di togliersi calze e scarpe sul tappeto per provare scarpe nuove che gli avevano regalato. Nel suo ospedale psichiatrico a Gorizia, quando ci sono andata per la prima volta, ho assistito prima all'assemblea che tutti i giorni tenevano i malati per decidere il da farsi, e poi l'assemblea dei medici per discutere dei malati e francamente mi sono sembrati pi ùsani i malati che i medici. Ho avuto la sensazione che gli psichiatri fossero tutti matti.'

(Carla Cerati)

La legge 180:


Art. 1 Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori:


Gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari.

Nei casi di cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato possono essere disposti dall'autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura.

Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori a carico dello Stato e di enti o istituzioni pubbliche sono attuati dai presidi sanitari pubblici territoriali e, ove necessiti la degenza, nelle strutture ospedaliere pubbliche o convenzionate.

Nel corso del trattamento sanitario obbligatorio chi vi è sottoposto ha diritto di comunicare con chi ritenga opportuno.

Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori di cui ai precedenti commi devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato.

Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con provvedimento del sindaco, nella sua qualità di autorità sanitaria locale, su proposta motivata di un medico.


Art. 2 Accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori per malattia mentale:

Le misure di cui al secondo comma del precedente articolo possono essere disposte nei confronti delle persone affette da malattie mentali.

Nei casi di cui al precedente comma la proposta di trattamento sanitario obbligatorio può prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall'infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere.

Il provvedimento che dispone il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera deve essere preceduto dalla convalida della proposta di cui all'ultimo comma dell'articolo 1 da parte di un medico della struttura sanitaria pubblica e deve essere motivato in relazione a quanto previsto nel precedente comma.


Art. 3 Procedimento relativo agli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera per malattia mentale:

Il provvedimento di cui all'articolo 2 con il quale il sindaco dispone il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera, corredato dalla proposta medica motivata di cui all'ultimo comma dell'articolo 1 e dalla convalida di cui all'ultimo comma dell'articolo 2, deve essere notificato, entro 48 ore dal ricovero, tramite messo comunale, al giudice tutelare nella cui circoscrizione rientra il comune.

Il giudice tutelare, entro le successive 48 ore, assunte le informazioni e disposti gli eventuali accertamenti, provvede con decreto motivato a convalidare o non convalidare il provvedimento e ne dà comunicazione al sindaco. In caso di mancata convalida il sindaco dispone la cessazione del trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera.

Se il provvedimento di cui al primo comma del presente articolo è disposto dal sindaco di un comune diverso da quello di residenza dell'infermo, ne va data comunicazione al sindaco di questo ultimo comune. Se il provvedimento di cui al primo comma del presente articolo è adottato nei confronti di cittadini stranieri o di apolidi, ne va data comunicazione al Ministero dell'interno e al consolato competente, tramite il prefetto.

Nei casi in cui il trattamento sanitario obbligatorio debba protrarsi oltre il settimo giorno, ed in quelli di ulteriore prolungamento, il sanitario responsabile del servizio psichiatrico di cui all'articolo 6 è tenuto a formulare, in tempo utile, una proposta motivata al sindaco che ha disposto il ricovero, il quale ne dà comunicazione al giudice tutelare, con le modalità e per gli adempimenti di cui al primo e secondo comma del presente articolo, indicando la ulteriore durata presumibile del trattamento stesso.

Il sanitario di cui al comma precedente è tenuto a comunicare al sindaco, sia in caso di dimissione del ricoverato che in continuità di degenza, la cessazione delle condizioni che richiedono l'obbligo del trattamento sanitario; comunica altresì la eventuale sopravvenuta impossibilità a proseguire il trattamento stesso. Il sindaco, entro 48 ore dal ricevimento della comunicazione del sanitario, ne dà notizia al giudice tutelare.

Qualora ne sussista la necessità il giudice tutelare adotta i provvedimenti urgenti che possono occorrere per conservare e per amministrare il patrimonio dell'infermo.

La omissione delle comunicazioni di cui al primo, quarto e quinto comma del presente articolo determina la cessazione di ogni effetto del provvedimento e configura, salvo che non sussistano gli estremi di un delitto più grave, il reato di omissione di atti di ufficio.










'Ma lei a tutto questo inferno come ha resistito, con la poesia?'

'Pregando. Pregando sempe giorno e notte. non avevo altro. Non sapevo neanche se sarei mai uscita, e questo riguardava tutti. Però abbiamo imparato ad amare ciò che giornalmente ci veniva dato.'

(intervista ad Alda Merini, poetessa)


Adriano Pallotta, ex infermiere dell'ospedale psichiatrico S. Maria della Pietà a Roma, racconta gli anni difficili in cui il manicomio era ancora luogo di detenzione dei malati di mente, dei criminali, dove si adottavano strutture brutali per la cosiddetta "guarigione" del malato, che poi di fatto aggravava la loro condizione. Racconta come 4 anni prima della legge di Basaglia, al manicomio di Roma siano già state effettuate delle misura di liberazione del malato di mente segregato all'interno, per cui i pazienti aveva libera circolazione nella struttura e nel cortile, le grate alle finestre venivano abbattute, e riapparvero per la prima volta forchette e coltelli nelle tavole, prima considerati oggetti troppo pericolosi.

Ma dopo la legge 180 bisognerà aspettare ancora un po' di anni affinché tutte le strutture manicomiali vengano chiuse. L'ex infermiere racconta che il S. Maria della Pietà a Roma venne solo nel 1999, perché di fatto la riabilitazione dei pazienti era un processo troppo lungo e difficile.


"In Italia prima della Legge c'erano quasi 50 mila internati circa, e oggi che ne sono quasi 2 mila. In questi due anni e mezzo sono state dimesse tutte queste persone, tranne qualche caso sconsiderato. Quindi direi che non c'è nessun motivo di dare questa situazione così, diciamo terroristica, non so con quale fine poi. E poi direi che è vero che c'è questa situazione di angoscia per le famiglie che si lamentano di non esser più protette dall'istituzione. E direi che hanno ragione. Ma questo momento storico che stiamo passando è fondamentale nel cambiamento da un'ideologia dominante medica ad un'altra ideologia, dire un'utopia."

(Franco Basaglia nella rubrica "Giorno per Giorno" del Marzo 1980)


Dopo la chiusura dei manicomi, l'opera più imponente che è stata fatta è quella di riuscire a recuperare tutti gli archivi degli ospedali, contenenti quindi le cartelle cliniche e i resoconti giornalieri dei medici ed assistenti, in modo così da creare un filo conduttore di tutta la storia della psichiatria italiana. Pensate solo il S. Maria della Pietà ha più 250 mila cartelle cliniche.

Oggi quindi rimane l'idea della necessità di dare assistenza al paziente nel luogo in cui vive di solito per la maggior parte dei casi e non ad isolarlo dal mondo. Se il caso è più difficile, creare delle situazioni più di tipo comunitario.





5.Allegati

The System of Dr. Tarr and Prof. Fether


by Edgar Allan Poe

(published 1856)


DURING the autumn of 18--, while on a tour through the extreme southern provinces of France, my route led me within a few miles of a certain Maison de Sante or private mad-house, about which I had heard much in Paris from my medical friends. As I had never visited a place of the kind, I thought the opportunity too good to be lost; and so proposed to my travelling companion (a gentleman with whom I had made casual acquaintance a few days before) that we should turn aside, for an hour or so, and look through the establishment. To this he objected -- pleading haste in the first place, and, in the second, a very usual horror at the sight of a lunatic. He begged me, however, not to let any mere courtesy towards himself interfere with the gratification of my curiosity, and said that he would ride on leisurely, so that I might overtake him during the day, or, at all events, during the next. As he bade me good-bye, I bethought me that there might be some difficulty in obtaining access to the premises, and mentioned my fears on this point. He replied that, in fact, unless I had personal knowledge of the superintendent, Monsieur Maillard, or some credential in the way of a letter, a difficulty might be found to exist, as the regulations of these private mad-houses were more rigid than the public hospital laws. For himself, he added, he had, some years since, made the acquaintance of Maillard, and would so far assist me as to ride up to the door and introduce me; although his feelings on the subject of lunacy would not permit of his entering the house.

I thanked him, and, turning from the main road, we entered a grass-grown by-path, which, in half an hour, nearly lost itself in a dense forest, clothing the base of a mountain. Through this dank and gloomy wood we rode some two miles, when the Maison de Sante came in view. It was a fantastic chateau, much dilapidated, and indeed scarcely tenantable through age and neglect. Its aspect inspired me with absolute dread, and, checking my horse, I half resolved to turn back. I soon, however, grew ashamed of my weakness, and proceeded.

As we rode up to the gate-way, I perceived it slightly open, and the visage of a man peering through. In an instant afterward, this man came forth, accosted my companion by name, shook him cordially by the hand, and begged him to alight. It was Monsieur Maillard himself. He was a portly, fine-looking gentleman of the old school, with a polished manner, and a certain air of gravity, dignity, and authority which was very impressive.

My friend, having presented me, mentioned my desire to inspect the establishment, and received Monsieur Maillard's assurance that he would show me all attention, now took leave, and I saw him no more.

When he had gone, the superintendent ushered me into a small and exceedingly neat parlor, containing, among other indications of refined taste, many books, drawings, pots of flowers, and musical instruments. A cheerful fire blazed upon the hearth. At a piano, singing an aria from Bellini, sat a young and very beautiful woman, who, at my entrance, paused in her song, and received me with graceful courtesy. Her voice was low, and her whole manner subdued. I thought, too, that I perceived the traces of sorrow in her countenance, which was excessively, although to my taste, not unpleasingly, pale. She was attired in deep mourning, and excited in my bosom a feeling of mingled respect, interest, and admiration.

I had heard, at Paris, that the institution of Monsieur Maillard was managed upon what is vulgarly termed the 'system of soothing' -- that all punishments were avoided -- that even confinement was seldom resorted to -- that the patients, while secretly watched, were left much apparent liberty, and that most of them were permitted to roam about the house and grounds in the ordinary apparel of persons in right mind.

Keeping these impressions in view, I was cautious in what I said before the young lady; for I could not be sure that she was sane; and, in fact, there was a certain restless brilliancy about her eyes which half led me to imagine she was not. I confined my remarks, therefore, to general topics, and to such as I thought would not be displeasing or exciting even to a lunatic. She replied in a perfectly rational manner to all that I said; and even her original observations were marked with the soundest good sense, but a long acquaintance with the metaphysics of mania, had taught me to put no faith in such evidence of sanity, and I continued to practise, throughout the interview, the caution with which I commenced it.

Presently a smart footman in livery brought in a tray with fruit, wine, and other refreshments, of which I partook, the lady soon afterward leaving the room. As she departed I turned my eyes in an inquiring manner toward my host.

'No,' he said, 'oh, no -- a member of my family -- my niece, and a most accomplished woman.'

'I beg a thousand pardons for the suspicion,' I replied, 'but of course you will know how to excuse me. The excellent administration of your affairs here is well understood in Paris, and I thought it just possible, you know-

'Yes, yes -- say no more -- or rather it is myself who should thank you for the commendable prudence you have displayed. We seldom find so much of forethought in young men; and, more than once, some unhappy contre-temps has occurred in consequence of thoughtlessness on the part of our visitors. While my former system was in operation, and my patients were permitted the privilege of roaming to and fro at will, they were often aroused to a dangerous frenzy by injudicious persons who called to inspect the house. Hence I was obliged to enforce a rigid system of exclusion; and none obtained access to the premises upon whose discretion I could not rely.'

'While your former system was in operation!' I said, repeating his words -- 'do I understand you, then, to say that the 'soothing system' of which I have heard so much is no longer in force?'

'It is now,' he replied, 'several weeks since we have concluded to renounce it forever.'

'Indeed! you astonish me!'

'We found it, sir,' he said, with a sigh, 'absolutely necessary to return to the old usages. The danger of the soothing system was, at all times, appalling; and its advantages have been much overrated. I believe, sir, that in this house it has been given a fair trial, if ever in any. We did every thing that rational humanity could suggest. I am sorry that you could not have paid us a visit at an earlier period, that you might have judged for yourself. But I presume you are conversant with the soothing practice -- with its details.'

'Not altogether. What I have heard has been at third or fourth hand.'

'I may state the system, then, in general terms, as one in which the patients were menages-humored. We contradicted no fancies which entered the brains of the mad. On the contrary, we not only indulged but encouraged them; and many of our most permanent cures have been thus effected. There is no argument which so touches the feeble reason of the madman as the argumentum ad absurdum. We have had men, for example, who fancied themselves chickens. The cure was, to insist upon the thing as a fact -- to accuse the patient of stupidity in not sufficiently perceiving it to be a fact -- and thus to refuse him any other diet for a week than that which properly appertains to a chicken. In this manner a little corn and gravel were made to perform wonders.'

'But was this species of acquiescence all?'

'By no means. We put much faith in amusements of a simple kind, such as music, dancing, gymnastic exercises generally, cards, certain classes of books, and so forth. We affected to treat each individual as if for some ordinary physical disorder, and the word 'lunacy' was never employed. A great point was to set each lunatic to guard the actions of all the others. To repose confidence in the understanding or discretion of a madman, is to gain him body and soul. In this way we were enabled to dispense with an expensive body of keepers.'

'And you had no punishments of any kind?'

'None.'

'And you never confined your patients?'

'Very rarely. Now and then, the malady of some individual growing to a crisis, or taking a sudden turn of fury, we conveyed him to a secret cell, lest his disorder should infect the rest, and there kept him until we could dismiss him to his friends -- for with the raging maniac we have nothing to do. He is usually removed to the public hospitals.'

'And you have now changed all this -- and you think for the better?'

'Decidedly. The system had its disadvantages, and even its dangers. It is now, happily, exploded throughout all the Maisons de Sante of France.'

'I am very much surprised,' I said, 'at what you tell me; for I made sure that, at this moment, no other method of treatment for mania existed in any portion of the country.'

'You are young yet, my friend,' replied my host, 'but the time will arrive when you will learn to judge for yourself of what is going on in the world, without trusting to the gossip of others. Believe nothing you hear, and only one-half that you see. Now about our Maisons de Sante, it is clear that some ignoramus has misled you. After dinner, however, when you have sufficiently recovered from the fatigue of your ride, I will be happy to take you over the house, and introduce to you a system which, in my opinion, and in that of every one who has witnessed its operation, is incomparably the most effectual as yet devised.'

'Your own?' I inquired -- 'one of your own invention?'

'I am proud,' he replied, 'to acknowledge that it is -- at least in some measure.'

In this manner I conversed with Monsieur Maillard for an hour or two, during which he showed me the gardens and conservatories of the place.

'I cannot let you see my patients,' he said, 'just at present. To a sensitive mind there is always more or less of the shocking in such exhibitions; and I do not wish to spoil your appetite for dinner. We will dine. I can give you some veal a la Menehoult, with cauliflowers in veloute sauce -- after that a glass of Clos de Vougeot -- then your nerves will be sufficiently steadied.'

At six, dinner was announced; and my host conducted me into a large salle a manger, where a very numerous company were assembled -- twenty-five or thirty in all. They were, apparently, people of rank-certainly of high breeding -- although their habiliments, I thought, were extravagantly rich, partaking somewhat too much of the ostentatious finery of the vielle cour. I noticed that at least two-thirds of these guests were ladies; and some of the latter were by no means accoutred in what a Parisian would consider good taste at the present day. Many females, for example, whose age could not have been less than seventy were bedecked with a profusion of jewelry, such as rings, bracelets, and earrings, and wore their bosoms and arms shamefully bare. I observed, too, that very few of the dresses were well made -- or, at least, that very few of them fitted the wearers. In looking about, I discovered the interesting girl to whom Monsieur Maillard had presented me in the little parlor; but my surprise was great to see her wearing a hoop and farthingale, with high-heeled shoes, and a dirty cap of Brussels lace, so much too large for her that it gave her face a ridiculously diminutive expression. When I had first seen her, she was attired, most becomingly, in deep mourning. There was an air of oddity, in short, about the dress of the whole party, which, at first, caused me to recur to my original idea of the 'soothing system,' and to fancy that Monsieur Maillard had been willing to deceive me until after dinner, that I might experience no uncomfortable feelings during the repast, at finding myself dining with lunatics; but I remembered having been informed, in Paris, that the southern provincialists were a peculiarly eccentric people, with a vast number of antiquated notions; and then, too, upon conversing with several members of the company, my apprehensions were immediately and fully dispelled.

The dining-room itself, although perhaps sufficiently comfortable and of good dimensions, had nothing too much of elegance about it. For example, the floor was uncarpeted; in France, however, a carpet is frequently dispensed with. The windows, too, were without curtains; the shutters, being shut, were securely fastened with iron bars, applied diagonally, after the fashion of our ordinary shop-shutters. The apartment, I observed, formed, in itself, a wing of the chateau, and thus the windows were on three sides of the parallelogram, the door being at the other. There were no less than ten windows in all.

The table was superbly set out. It was loaded with plate, and more than loaded with delicacies. The profusion was absolutely barbaric. There were meats enough to have feasted the Anakim. Never, in all my life, had I witnessed so lavish, so wasteful an expenditure of the good things of life. There seemed very little taste, however, in the arrangements; and my eyes, accustomed to quiet lights, were sadly offended by the prodigious glare of a multitude of wax candles, which, in silver candelabra, were deposited upon the table, and all about the room, wherever it was possible to find a place. There were several active servants in attendance; and, upon a large table, at the farther end of the apartment, were seated seven or eight people with fiddles, fifes, trombones, and a drum. These fellows annoyed me very much, at intervals, during the repast, by an infinite variety of noises, which were intended for music, and which appeared to afford much entertainment to all present, with the exception of myself.

Upon the whole, I could not help thinking that there was much of the bizarre about every thing I saw -- but then the world is made up of all kinds of persons, with all modes of thought, and all sorts of conventional customs. I had travelled, too, so much, as to be quite an adept at the nil admirari; so I took my seat very coolly at the right hand of my host, and, having an excellent appetite, did justice to the good cheer set before me.

The conversation, in the meantime, was spirited and general. The ladies, as usual, talked a great deal. I soon found that nearly all the company were well educated; and my host was a world of good-humored anecdote in himself. He seemed quite willing to speak of his position as superintendent of a Maison de Sante; and, indeed, the topic of lunacy was, much to my surprise, a favorite one with all present. A great many amusing stories were told, having reference to the whims of the patients.

'We had a fellow here once,' said a fat little gentleman, who sat at my right, -- 'a fellow that fancied himself a tea-pot; and by the way, is it not especially singular how often this particular crotchet has entered the brain of the lunatic? There is scarcely an insane asylum in France which cannot supply a human tea-pot. Our gentleman was a Britannia -- ware tea-pot, and was careful to polish himself every morning with buckskin and whiting.'

'And then,' said a tall man just opposite, 'we had here, not long ago, a person who had taken it into his head that he was a donkey -- which allegorically speaking, you will say, was quite true. He was a troublesome patient; and we had much ado to keep him within bounds. For a long time he would eat nothing but thistles; but of this idea we soon cured him by insisting upon his eating nothing else. Then he was perpetually kicking out his heels-so-so-'

'Mr. De Kock! I will thank you to behave yourself!' here interrupted an old lady, who sat next to the speaker. 'Please keep your feet to yourself! You have spoiled my brocade! Is it necessary, pray, to illustrate a remark in so practical a style? Our friend here can surely comprehend you without all this. Upon my word, you are nearly as great a donkey as the poor unfortunate imagined himself. Your acting is very natural, as I live.'

'Mille pardons! Ma'm'selle!' replied Monsieur De Kock, thus addressed -- 'a thousand pardons! I had no intention of offending. Ma'm'selle Laplace -- Monsieur De Kock will do himself the honor of taking wine with you.'

Here Monsieur De Kock bowed low, kissed his hand with much ceremony, and took wine with Ma'm'selle Laplace.

'Allow me, mon ami,' now said Monsieur Maillard, addressing myself, 'allow me to send you a morsel of this veal a la St. Menhoult -- you will find it particularly fine.'

At this instant three sturdy waiters had just succeeded in depositing safely upon the table an enormous dish, or trencher, containing what I supposed to be the 'monstrum horrendum, informe, ingens, cui lumen ademptum.' A closer scrutiny assured me, however, that it was only a small calf roasted whole, and set upon its knees, with an apple in its mouth, as is the English fashion of dressing a hare.

'Thank you, no,' I replied; 'to say the truth, I am not particularly partial to veal a la St. -- what is it? -- for I do not find that it altogether agrees with me. I will change my plate, however, and try some of the rabbit.'

There were several side-dishes on the table, containing what appeared to be the ordinary French rabbit -- a very delicious morceau, which I can recommend.

'Pierre,' cried the host, 'change this gentleman's plate, and give him a side-piece of this rabbit au-chat.'

'This what?' said I.

'This rabbit au-chat.'

'Why, thank you -- upon second thoughts, no. I will just help myself to some of the ham.'

There is no knowing what one eats, thought I to myself, at the tables of these people of the province. I will have none of their rabbit au-chat -- and, for the matter of that, none of their cat-au-rabbit either.

'And then,' said a cadaverous looking personage, near the foot of the table, taking up the thread of the conversation where it had been broken off, -- 'and then, among other oddities, we had a patient, once upon a time, who very pertinaciously maintained himself to be a Cordova cheese, and went about, with a knife in his hand, soliciting his friends to try a small slice from the middle of his leg.'

'He was a great fool, beyond doubt,' interposed some one, 'but not to be compared with a certain individual whom we all know, with the exception of this strange gentleman. I mean the man who took himself for a bottle of champagne, and always went off with a pop and a fizz, in this fashion.'

Here the speaker, very rudely, as I thought, put his right thumb in his left cheek, withdrew it with a sound resembling the popping of a cork, and then, by a dexterous movement of the tongue upon the teeth, created a sharp hissing and fizzing, which lasted for several minutes, in imitation of the frothing of champagne. This behavior, I saw plainly, was not very pleasing to Monsieur Maillard; but that gentleman said nothing, and the conversation was resumed by a very lean little man in a big wig.

'And then there was an ignoramus,' said he, 'who mistook himself for a frog, which, by the way, he resembled in no little degree. I wish you could have seen him, sir,' -- here the speaker addressed myself -- 'it would have done your heart good to see the natural airs that he put on. Sir, if that man was not a frog, I can only observe that it is a pity he was not. His croak thus -- o-o-o-o-gh -- o-o-o-o-gh! was the finest note in the world -- B flat; and when he put his elbows upon the table thus -- after taking a glass or two of wine -- and distended his mouth, thus, and rolled up his eyes, thus, and winked them with excessive rapidity, thus, why then, sir, I take it upon myself to say, positively, that you would have been lost in admiration of the genius of the man.'

'I have no doubt of it,' I said.

'And then,' said somebody else, 'then there was Petit Gaillard, who thought himself a pinch of snuff, and was truly distressed because he could not take himself between his own finger and thumb.'

'And then there was Jules Desoulieres, who was a very singular genius, indeed, and went mad with the idea that he was a pumpkin. He persecuted the cook to make him up into pies -- a thing which the cook indignantly refused to do. For my part, I am by no means sure that a pumpkin pie a la Desoulieres would not have been very capital eating indeed!'

'You astonish me!' said I; and I looked inquisitively at Monsieur Maillard.

'Ha! ha! ha!' said that gentleman -- 'he! he! he! -- hi! hi! hi! -- ho! ho! ho! -- hu! hu! hu! hu! -- very good indeed! You must not be astonished, mon ami; our friend here is a wit -- a drole -- you must not understand him to the letter.'

'And then,' said some other one of the party, -- 'then there was Bouffon Le Grand -- another extraordinary personage in his way. He grew deranged through love, and fancied himself possessed of two heads. One of these he maintained to be the head of Cicero; the other he imagined a composite one, being Demosthenes' from the top of the forehead to the mouth, and Lord Brougham's from the mouth to the chin. It is not impossible that he was wrong; but he would have convinced you of his being in the right; for he was a man of great eloquence. He had an absolute passion for oratory, and could not refrain from display. For example, he used to leap upon the dinner-table thus, and -- and-'

Here a friend, at the side of the speaker, put a hand upon his shoulder and whispered a few words in his ear, upon which he ceased talking with great suddenness, and sank back within his chair.

'And then,' said the friend who had whispered, 'there was Boullard, the tee-totum. I call him the tee-totum because, in fact, he was seized with the droll but not altogether irrational crotchet, that he had been converted into a tee-totum. You would have roared with laughter to see him spin. He would turn round upon one heel by the hour, in this manner -- so-

Here the friend whom he had just interrupted by a whisper, performed an exactly similar office for himself.

'But then,' cried the old lady, at the top of her voice, 'your Monsieur Boullard was a madman, and a very silly madman at best; for who, allow me to ask you, ever heard of a human tee-totum? The thing is absurd. Madame Joyeuse was a more sensible person, as you know. She had a crotchet, but it was instinct with common sense, and gave pleasure to all who had the honor of her acquaintance. She found, upon mature deliberation, that, by some accident, she had been turned into a chicken-cock; but, as such, she behaved with propriety. She flapped her wings with prodigious effect -- so -- so -- and, as for her crow, it was delicious! Cock-a-doodle-doo! -- cock-a-doodle-doo! -- cock-a-doodle-de-doo-dooo-do-o-o-o-o-o-o!'

'Madame Joyeuse, I will thank you to behave yourself!' here interrupted our host, very angrily. 'You can either conduct yourself as a lady should do, or you can quit the table forthwith-take your choice.'

The lady (whom I was much astonished to hear addressed as Madame Joyeuse, after the description of Madame Joyeuse she had just given) blushed up to the eyebrows, and seemed exceedingly abashed at the reproof. She hung down her head, and said not a syllable in reply. But another and younger lady resumed the theme. It was my beautiful girl of the little parlor.

'Oh, Madame Joyeuse was a fool!' she exclaimed, 'but there was really much sound sense, after all, in the opinion of Eugenie Salsafette. She was a very beautiful and painfully modest young lady, who thought the ordinary mode of habiliment indecent, and wished to dress herself, always, by getting outside instead of inside of her clothes. It is a thing very easily done, after all. You have only to do so -- and then so -- so -- so -- and then so -- so -- so -- and then so -- so -- and then-

'Mon dieu! Ma'm'selle Salsafette!' here cried a dozen voices at once. 'What are you about? -- forbear! -- that is sufficient! -- we see, very plainly, how it is done! -- hold! hold!' and several persons were already leaping from their seats to withhold Ma'm'selle Salsafette from putting herself upon a par with the Medicean Venus, when the point was very effectually and suddenly accomplished by a series of loud screams, or yells, from some portion of the main body of the chateau.

My nerves were very much affected, indeed, by these yells; but the rest of the company I really pitied. I never saw any set of reasonable people so thoroughly frightened in my life. They all grew as pale as so many corpses, and, shrinking within their seats, sat quivering and gibbering with terror, and listening for a repetition of the sound. It came again -- louder and seemingly nearer -- and then a third time very loud, and then a fourth time with a vigor evidently diminished. At this apparent dying away of the noise, the spirits of the company were immediately regained, and all was life and anecdote as before. I now ventured to inquire the cause of the disturbance.

'A mere bagtelle,' said Monsieur Maillard. 'We are used to these things, and care really very little about them. The lunatics, every now and then, get up a howl in concert; one starting another, as is sometimes the case with a bevy of dogs at night. It occasionally happens, however, that the concerto yells are succeeded by a simultaneous effort at breaking loose, when, of course, some little danger is to be apprehended.'

'And how many have you in charge?'

'At present we have not more than ten, altogether.'

'Principally females, I presume?'

'Oh, no -- every one of them men, and stout fellows, too, I can tell you.'

'Indeed! I have always understood that the majority of lunatics were of the gentler sex.'

'It is generally so, but not always. Some time ago, there were about twenty-seven patients here; and, of that number, no less than eighteen were women; but, lately, matters have changed very much, as you see.'

'Yes -- have changed very much, as you see,' here interrupted the gentleman who had broken the shins of Ma'm'selle Laplace.

'Yes -- have changed very much, as you see!' chimed in the whole company at once.

'Hold your tongues, every one of you!' said my host, in a great rage. Whereupon the whole company maintained a dead silence for nearly a minute. As for one lady, she obeyed Monsieur Maillard to the letter, and thrusting out her tongue, which was an excessively long one, held it very resignedly, with both hands, until the end of the entertainment.

'And this gentlewoman,' said I, to Monsieur Maillard, bending over and addressing him in a whisper -- 'this good lady who has just spoken, and who gives us the cock-a-doodle-de-doo -- she, I presume, is harmless -- quite harmless, eh?'

'Harmless!' ejaculated he, in unfeigned surprise, 'why -- why, what can you mean?'

'Only slightly touched?' said I, touching my head. 'I take it for granted that she is not particularly not dangerously affected, eh?'

'Mon dieu! what is it you imagine? This lady, my particular old friend Madame Joyeuse, is as absolutely sane as myself. She has her little eccentricities, to be sure -- but then, you know, all old women -- all very old women -- are more or less eccentric!'

'To be sure,' said I, -- 'to be sure -- and then the rest of these ladies and gentlemen-'

'Are my friends and keepers,' interupted Monsieur Maillard, drawing himself up with hauteur, -- 'my very good friends and assistants.'

'What! all of them?' I asked, -- 'the women and all?'

'Assuredly,' he said, -- 'we could not do at all without the women; they are the best lunatic nurses in the world; they have a way of their own, you know; their bright eyes have a marvellous effect; -- something like the fascination of the snake, you know.'

'To be sure,' said I, -- 'to be sure! They behave a little odd, eh? -- they are a little queer, eh? -- don't you think so?'

'Odd! -- queer! -- why, do you really think so? We are not very prudish, to be sure, here in the South -- do pretty much as we please -- enjoy life, and all that sort of thing, you know-'

'To be sure,' said I, -- 'to be sure.'

And then, perhaps, this Clos de Vougeot is a little heady, you know -- a little strong -- you understand, eh?'

'To be sure,' said I, -- 'to be sure. By the bye, Monsieur, did I understand you to say that the system you have adopted, in place of the celebrated soothing system, was one of very rigorous severity?'

'By no means. Our confinement is necessarily close; but the treatment -- the medical treatment, I mean -- is rather agreeable to the patients than otherwise.'

'And the new system is one of your own invention?'

'Not altogether. Some portions of it are referable to Professor Tarr, of whom you have, necessarily, heard; and, again, there are modifications in my plan which I am happy to acknowledge as belonging of right to the celebrated Fether, with whom, if I mistake not, you have the honor of an intimate acquaintance.'

'I am quite ashamed to confess,' I replied, 'that I have never even heard the names of either gentleman before.'

'Good heavens!' ejaculated my host, drawing back his chair abruptly, and uplifting his hands. 'I surely do not hear you aright! You did not intend to say, eh? that you had never heard either of the learned Doctor Tarr, or of the celebrated Professor Fether?'

'I am forced to acknowledge my ignorance,' I replied; 'but the truth should be held inviolate above all things. Nevertheless, I feel humbled to the dust, not to be acquainted with the works of these, no doubt, extraordinary men. I will seek out their writings forthwith, and peruse them with deliberate care. Monsieur Maillard, you have really -- I must confess it -- you have really -- made me ashamed of myself!'

And this was the fact.

'Say no more, my good young friend,' he said kindly, pressing my hand, -- 'join me now in a glass of Sauterne.'

We drank. The company followed our example without stint. They chatted -- they jested -- they laughed -- they perpetrated a thousand absurdities -- the fiddles shrieked -- the drum row-de-dowed -- the trombones bellowed like so many brazen bulls of Phalaris -- and the whole scene, growing gradually worse and worse, as the wines gained the ascendancy, became at length a sort of pandemonium in petto. In the meantime, Monsieur Maillard and myself, with some bottles of Sauterne and Vougeot between us, continued our conversation at the top of the voice. A word spoken in an ordinary key stood no more chance of being heard than the voice of a fish from the bottom of Niagra Falls.

'And, sir,' said I, screaming in his ear, 'you mentioned something before dinner about the danger incurred in the old system of soothing. How is that?'

'Yes,' he replied, 'there was, occasionally, very great danger indeed. There is no accounting for the caprices of madmen; and, in my opinion as well as in that of Dr. Tarr and Professor Fether, it is never safe to permit them to run at large unattended. A lunatic may be 'soothed,' as it is called, for a time, but, in the end, he is very apt to become obstreperous. His cunning, too, is proverbial and great. If he has a project in view, he conceals his design with a marvellous wisdom; and the dexterity with which he counterfeits sanity, presents, to the metaphysician, one of the most singular problems in the study of mind. When a madman appears thoroughly sane, indeed, it is high time to put him in a straitjacket.'

'But the danger, my dear sir, of which you were speaking, in your own experience -- during your control of this house -- have you had practical reason to think liberty hazardous in the case of a lunatic?'

'Here? -- in my own experience? -- why, I may say, yes. For example: -- no very long while ago, a singular circumstance occurred in this very house. The 'soothing system,' you know, was then in operation, and the patients were at large. They behaved remarkably well-especially so, any one of sense might have known that some devilish scheme was brewing from that particular fact, that the fellows behaved so remarkably well. And, sure enough, one fine morning the keepers found themselves pinioned hand and foot, and thrown into the cells, where they were attended, as if they were the lunatics, by the lunatics themselves, who had usurped the offices of the keepers.'

'You don't tell me so! I never heard of any thing so absurd in my life!'

'Fact -- it all came to pass by means of a stupid fellow -- a lunatic -- who, by some means, had taken it into his head that he had invented a better system of government than any ever heard of before -- of lunatic government, I mean. He wished to give his invention a trial, I suppose, and so he persuaded the rest of the patients to join him in a conspiracy for the overthrow of the reigning powers.'

'And he really succeeded?'

'No doubt of it. The keepers and kept were soon made to exchange places. Not that exactly either -- for the madmen had been free, but the keepers were shut up in cells forthwith, and treated, I am sorry to say, in a very cavalier manner.'

'But I presume a counter-revolution was soon effected. This condition of things could not have long existed. The country people in the neighborhood-visitors coming to see the establishment -- would have given the alarm.'

'There you are out. The head rebel was too cunning for that. He admitted no visitors at all -- with the exception, one day, of a very stupid-looking young gentleman of whom he had no reason to be afraid. He let him in to see the place -- just by way of variety, -- to have a little fun with him. As soon as he had gammoned him sufficiently, he let him out, and sent him about his business.'

'And how long, then, did the madmen reign?'

'Oh, a very long time, indeed -- a month certainly -- how much longer I can't precisely say. In the meantime, the lunatics had a jolly season of it -- that you may swear. They doffed their own shabby clothes, and made free with the family wardrobe and jewels. The cellars of the chateau were well stocked with wine; and these madmen are just the devils that know how to drink it. They lived well, I can tell you.'

'And the treatment -- what was the particular species of treatment which the leader of the rebels put into operation?'

'Why, as for that, a madman is not necessarily a fool, as I have already observed; and it is my honest opinion that his treatment was a much better treatment than that which it superseded. It was a very capital system indeed -- simple -- neat -- no trouble at all -- in fact it was delicious it was

Here my host's observations were cut short by another series of yells, of the same character as those which had previously disconcerted us. This time, however, they seemed to proceed from persons rapidly approaching.

'Gracious heavens!' I ejaculated -- 'the lunatics have most undoubtedly broken loose.'

'I very much fear it is so,' replied Monsieur Maillard, now becoming excessively pale. He had scarcely finished the sentence, before loud shouts and imprecations were heard beneath the windows; and, immediately afterward, it became evident that some persons outside were endeavoring to gain entrance into the room. The door was beaten with what appeared to be a sledge-hammer, and the shutters were wrenched and shaken with prodigious violence.

A scene of the most terrible confusion ensued. Monsieur Maillard, to my excessive astonishment threw himself under the side-board. I had expected more resolution at his hands. The members of the orchestra, who, for the last fifteen minutes, had been seemingly too much intoxicated to do duty, now sprang all at once to their feet and to their instruments, and, scrambling upon their table, broke out, with one accord, into, 'Yankee Doodle,' which they performed, if not exactly in tune, at least with an energy superhuman, during the whole of the uproar.

Meantime, upon the main dining-table, among the bottles and glasses, leaped the gentleman who, with such difficulty, had been restrained from leaping there before. As soon as he fairly settled himself, he commenced an oration, which, no doubt, was a very capital one, if it could only have been heard. At the same moment, the man with the teetotum predilection, set himself to spinning around the apartment, with immense energy, and with arms outstretched at right angles with his body; so that he had all the air of a tee-totum in fact, and knocked everybody down that happened to get in his way. And now, too, hearing an incredible popping and fizzing of champagne, I discovered at length, that it proceeded from the person who performed the bottle of that delicate drink during dinner. And then, again, the frog-man croaked away as if the salvation of his soul depended upon every note that he uttered. And, in the midst of all this, the continuous braying of a donkey arose over all. As for my old friend, Madame Joyeuse, I really could have wept for the poor lady, she appeared so terribly perplexed. All she did, however, was to stand up in a corner, by the fireplace, and sing out incessantly at the top of her voice, 'Cock-a-doodle-de-dooooooh!'

And now came the climax -- the catastrophe of the drama. As no resistance, beyond whooping and yelling and cock-a-doodling, was offered to the encroachments of the party without, the ten windows were very speedily, and almost simultaneously, broken in. But I shall never forget the emotions of wonder and horror with which I gazed, when, leaping through these windows, and down among us pele-mele, fighting, stamping, scratching, and howling, there rushed a perfect army of what I took to be Chimpanzees, Ourang-Outangs, or big black baboons of the Cape of Good Hope.

I received a terrible beating -- after which I rolled under a sofa and lay still. After lying there some fifteen minutes, during which time I listened with all my ears to what was going on in the room, I came to same satisfactory denouement of this tragedy. Monsieur Maillard, it appeared, in giving me the account of the lunatic who had excited his fellows to rebellion, had been merely relating his own exploits. This gentleman had, indeed, some two or three years before, been the superintendent of the establishment, but grew crazy himself, and so became a patient. This fact was unknown to the travelling companion who introduced me. The keepers, ten in number, having been suddenly overpowered, were first well tarred, then -- carefully feathered, and then shut up in underground cells. They had been so imprisoned for more than a month, during which period Monsieur Maillard had generously allowed them not only the tar and feathers (which constituted his 'system'), but some bread and abundance of water. The latter was pumped on them daily. At length, one escaping through a sewer, gave freedom to all the rest.

The 'soothing system,' with important modifications, has been resumed at the chateau; yet I cannot help agreeing with Monsieur Maillard, that his own 'treatment' was a very capital one of its kind. As he justly observed, it was 'simple -- neat -- and gave no trouble at all -- not the least.'

I have only to add that, although I have searched every library in Europe for the works of Doctor Tarr and Professor Fether, I have, up to the present day, utterly failed in my endeavors at procuring an edition.



5.Bibliografia


Erasmo da Rotterdam:

https://www.ragionpolitica.it/

elogio di Erasmo di Donatella Ferretti - 27 marzo 2004

https://www.liberliber.it/


Pirandello:

"Moduli di scritture",Vol.3C -Di sacco, Baglio, Camisasca, Serio

https://www.classicitaliani.it

Luigi Pirandello, Uno, nessuno centomila in 'Tutti i romanzi', a cura di Giovanni Macchia con la collaborazione di Mario Costanzo, Introduzione di Giovanni Macchia - I edizione 1976, Mondadori, Milano


Sigmund Freud:

"Il nuovo protagonisti e testi della filosofia"- Fornero. vol.3A

https://it.wikipedia.org

https://www.psiche2000.it/introdu.htm

https://www.linguaggioglobale.com/


Edvard Munch:

https://www.pittart.com/

"Il racconto dell'arte" vol.3 Cottino, Dantini, Guastalla


Nietzsche:

"Il nuovo protagonisti e testi della filosofia"- Fornero. vol.3A

https://www.friedrich-nietzsche.it/

https://www.homolaicus.com/


Pinel e la storia dei manicomi dell' Ottocento:

P.L. Cabras, S. Chiti, D. Lippi, Joseph Guillaume Desmaisons Dupallans, La Francia alla ricerca del modello e l'Italia dei manicomi © 2006 Firenze University Press


Edgar Allan Poe:

Poe, Racconti, con uno scritto di charles budelaire, oscar mondadori

https://www.online-literature.com/poe/


Géricault:

"Il racconto dell'arte" vol. 3, Cottino, Dantini, Guastalla

Lombroso e l'evoluzione dei manicomi:

https://it.wikipedia.org/

Università degli Studi di Roma La Sapienza corso di Psicologia, tesina: Valutazione dell'applicazione della legge 180 e dei suoi sviluppi a Roma, dal punto di vista delle problematiche legate agli aspetti psicologici negli adulti.



L'Antipsichiatria:

www. psicoterapeuti.info

Film: Qualcuno volò sul nido del cuculo, regia di Milos Forman


Franco Basaglia e la 180:

Documentario Rai, "i protagonisti della scienza"

Documentario Rai, "i 30 anni della legge 180"

"Codice della sanità", a cura di F. A. Roversi-Monaco e C. Bottari, Maggioli, Rimini 1985

https://it.wikisource.org/wiki/Legge_180/1978


Documentario di Simone Cristicchi, "Dall'altra parte del cancello".

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