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Evoluzione del concetto di Tempo nel pensiero filosofico




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Evoluzione del concetto di Tempo nel pensiero filosofico

Figura -Il concetto di tempo nel tempo


Le diverse rappresentazioni del Tempo

Cos'è il tempo? Questa è una delle tipiche domande alle quali pensiamo di poter rispondere facilmente, ma quando ci poniamo davanti alla domanda stessa non siamo in grado di darne una giusta definizione. Fin dall'antica Grecia molti filosofi hanno cercato di darne un'interpretazione: segno che esso costituisce un elemento importante dell'esperienza umana, emblema stesso della caducità della vita e forse per questo non interamente comprensibile.

In primo luogo ci si domanda se il tempo abbia un andamento lineare o circolare. Nel primo caso il tempo sarebbe costituito da una retta lungo la quale i punti che rappresentano gli istanti del tempo si collocano l'uno di seguito all'altro senza alcuna possibilità di ripetersi se non in modo accidentale e approssimativo; nel secondo caso, invece, il tempo sarebbe costituito da una circonferenza, in cui il succedersi dei punti-istanti sia in fondo apparente, dal momento che in essa si ripassa all'infinito per ogni punto in cui si è già passati, così che ogni momento potrebbe essere considerato contemporaneamente precedente e successivo rispetto a tutti gli altri.

In secondo luogo sorge la problematica riguardante la multidimensionalità del tempo. Tutti noi pensiamo al tempo nella sua triplice forma di passato, presente e futuro. Se però analizziamo la problematica da più vicino ci accorgiamo che il passato non esiste più, il futuro non esiste ancora e il presente, nella sua mancanza di consistenza (spessore), ci scorre continuamente fra le mani e sembra impossibile da cogliere. Dunque, il tempo stesso sembra ridursi alla somma di realtà prive di qualsiasi consistenza. Ancora, la scoperta della teoria della relatività ha aggiunto ulteriori problematiche appunto legate alla relatività di un evento in base all'osservatore ed alla sua condizione e alla relatività del concetto di contemporaneità di due eventi.  

Riportiamo di seguito il pensiero di alcuni importanti filosofi che hanno cercato di dare una propria interpretazione al concetto di tempo.



Anassimandro

Il primo pensatore nella cui opera viene trattato specificatamente il concetto di tempo è il presocratico Anassimandro. Per la prima volta ci si pone la domanda sul principio di tutte le cose, ovvero sul principio che di lì a poco si sarebbe chiamato essere. Secondo Anassimandro il 'principio delle cose che sono è l'illimitato. donde le cose che sono hanno la generazione, e là hanno anche il dissolvimento secondo la necessità. Infatti esse pagano l'una all'altra la pena e l'espiazione dell'ingiustizia secondo l'ordine del tempo' . Dal frammento si evince una concezione circolare del tempo, dove i vari enti si generano e si distruggono secondo una precisa scansione destinata a ripetersi infinitamente. Secondo Anassimandro il tempo si è legato anche alla distruzione, ma prevale l'idea che rappresenti piuttosto un elemento di ordine e di regolarità nella realtà.

Platone

Secondo Platone il tempo è nato con il mondo, plasmato dal demiurgo, il divino artigiano, prendendo come modello il mondo delle idee. Infatti il tempo esprime la presenza di un ordine, che però è quello appartenente a un mondo che è soltanto l'imitazione del mondo vero, quello delle idee. Solo a quest'ultimo inerisce l'ordine assoluto che compete a ciò che è immobile ed eterno. Pertanto il tempo, nel momento stesso in cui esprime la presenza di una relativa armonia nel mondo sensibile, implica anche la caducità di tutto ciò che ne fa parte. "Egli pensò di produrre un'immagine mobile dell'eternità, e, mentre costituisce l'ordine del cielo, dell'eternità che permane nell'unità, fa un immagine eterna che procede secondo il numero, che è appunto quella che noi abbiamo chiamato tempo".

Aristotele


Nel IV libro della Fisica, Aristotele tratta il problema del tempo. La tesi secondo la quale il tempo si identificherebbe con il moto della sfera celeste, coincide con quella espressa da Platone nel Timeo. Tuttavia appare subito chiaro ad Aristotele che il tempo non può essere ridotto al movimento circolare dei cieli. Da un lato, se così fosse, una parte di un moto circolare sarebbe ancora tempo(essendo sempre tempo una qualsiasi parte di esso), pur non essendo più di per sé circolare. Dall'altra parte, se ci fossero più cieli in movimento, ognuno di questi moti rappresenterebbe un tempo: si giungerebbe così al paradosso di più tempi contemporanei. Dunque il tempo non può essere identificato con il movimento né con il mutamento, in quanto il tempo è presente dappertutto, mentre il mutamento esiste solo nella singola cosa che cambia. Tuttavia si può stabilire una connessione tra il tempo e il mutamento, poiché non c'è coscienza del tempo ove non ci sia coscienza del mutamento; quindi il tempo dovrà essere necessariamente una proprietà del movimento.

Pertanto il tempo non è movimento, ma il movimento lo possiede in quanto misura. Eccone la prova: giudichiamo il più e il meno col numero, un movimento sarà maggiore e minore col tempo. Il tempo è, pertanto, un certo numero. E poiché il numero è in due sensi (infatti chiamiamo numero sia ciò che viene numerato, sia ciò che è numerabile, sia ciò con cui numeriamo), il tempo è ciò che è numerato e non ciò con cui misuriamo.
E come il movimento è di volta in volta sempre diverso, così anche il tempo [..].


Sant'Agostino

Il problema del tempo è collegato in S. Agostino all'obiezione dei pagani riguardo alla creazione del mondo ad opera di Dio. Il Dio cristiano o è perfetto, e allora non si capisce perché senta la necessità di creare l'universo, oppure era imperfetto e solo con la creazione ha raggiunto la perfezione. Quindi: o perfetto prima e imperfetto dopo, o imperfetto prima e perfetto dopo. Ma il 'prima' e il 'dopo', dice Agostino,i limiti del tempo, non riguardano Dio. Il tempo è una sua creatura; la sua dimensione è quella dell'eternità. Dio, principio e fine, alfa e omega. Se il tempo però non è un problema per Dio, lo è per la comprensione degli uomini. Il tempo è infatti una strana realtà: il passato non è più, il futuro non è ancora e il presente non posso identificarlo nell'istante attuale, perché questo è subito trascorso, non è più. Quindi una realtà costituita dal non essere ma che modifica l'essere. La soluzione di Agostino, che anticipa quella di Henri Bergson, è assolutamente originale: per concepire il tempo, realtà dinamica, non possiamo utilizzare una definizione 'statica' ma una altrettanto dinamica; come non concepiremo mai un fiume, sempre diverso per le sue acque, se non ci fosse il letto su cui scorrono, così lo scorrere del tempo è accompagnato dalla nostra coscienza che fa sì che noi abbiamo l'apprensione del tempo come memoria del passato, attenzione al presente, attesa del futuro.


Isaac Newton

"tempo assoluto, vero, matematico, in sé e per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, scorre uniformemente, e con altro nome è chiamato durata; quello relativo, apparente e volgare, è una misura (accurata oppure approssimativa) sensibile ed esterna della durata per mezzo del moto, che comunemente viene impiegata al posto del vero tempo: tali sono l'ora, il giorno, il mese, l'anno."

Nella seconda metà del seicento Newton propone una concezione dello spazio e del tempo come realtà assolute. Tale concezione è perfettamente funzionale alla fisica matematizzata quale si è venuta sviluppando a partire soprattutto dall'opera di Galileo. Newton si propone di distinguere nettamente il tempo e lo spazio relativi, di cui fa uso il senso comune, da quelli assoluti, che vengono utilizzati nell'ambito del discorso scientifico. Per Newton il tempo vero è di per sé assoluto, poiché la sua natura non risulta modificata da eventuali enti in esso esistenti. Esso scorre uniformemente e tale flusso o durata non è in relazione alcuna con oggetti che vi sono immersi. Il tempo, in analogia con lo spazio, viene concepito come una sorta di recipiente, la cui natura non risulta influenzata dalla presenza o meno in esso di un contenuto, né dalle caratteristiche di tale contenuto. Il tempo relativo, contrariamente, è quello che si calcola utilizzando come unità di misura determinati movimenti dotati di una certa regolarità: esempi ne sono il giorno, misurato dal moto di rotazione della Terra intorno al proprio asse, o l'anno, individuato dal moto di rivoluzione del nostro pianeta intorno al Sole.


Gottfried Leibniz

Leibniz fonda la sua dimostrazione della relatività dello spazio e del tempo sul principio di ragion sufficiente, per il quale nulla esiste o avviene senza che vi sia una causa o un motivo perché esista o avvenga, e proprio nella maniera determinata in cui esiste o avviene. Secondo Leibniz, il tempo e lo spazio non sono assoluti, ma, in quanto rispettivamente ordine delle successioni e delle coesistenze, vanno concepiti come relativi agli oggetti. Infatti per Leibniz, solo una volta ipotizzati come esistenti degli oggetti se ne possono poi pensare le relazioni. Di conseguenza lo spazio risulterà l'insieme delle relazioni che legano gli enti coesistenti, mentre il tempo sussisterà solo come insieme delle relazioni fra gli stati successivi di tali enti. Secondo Leibniz, il tempo, una volta che viene concepito come assoluto, cioè sussistente indipendentemente da realtà temporali, diventa impossibile spiegare perché Dio abbia fatto esistere le cose in un determinato momento e non prima o dopo: la sua azione sarebbe priva di motivazione e sfuggirebbe di conseguenza al principio di ragion sufficiente. Ma se il tempo è soltanto l'ordine della successione fra gli stati degli oggetti, la medesima successione di eventi non risulterebbe modificata da un'ipotetica anticipazione o posticipazione. Perciò sarebbe insensato chiedersi perché le cose non esistano prima o dopo la loro attuale collocazione temporale, dal momento che non esiste alcun tempo assoluto dove potrebbero essere anticipate o posticipate. Di conseguenza non è mai esistito alcun tempo prima dell'esistenza delle cose.



Immanuel Kant

Il tempo non é qualcosa che sussista per se stesso o aderisca alle cose , come determinazione oggettiva , e che perciò resti , anche astrazion fatta da tutte le condizioni soggettive delle intuizioni di quelle : perchè nel primo caso sarebbe qualcosa che , senza un oggetto reale , sarebbe tuttavia reale . Per quanto riguarda il secondo caso , come determinazione o ordine inerente alle cose stesse , non potrebbe precedere gli oggetti come loro condizione , ed esser conosciuto e intuito a priori per mezzo di proposizioni sintetiche . Cosa che invece ha luogo , se il tempo non é altro che la condizione soggettiva per cui tutte le intuizioni possono accadere in noi . Infatti allora questa forma delle intuizioni interne può essere rappresentata a priori , cioè prima degli oggetti . Il tempo non é altro che la forma del senso interno , cioè dell' intuizione di noi stessi e del nostro stato interno . Infatti , il tempo non può essere una determinazione di fenomeni esterni : non appartiene nè alla figura , nè al luogo , ecc. ; determina , al contrario , il rapporto delle rappresentazioni del nostro stato interno . [] Il tempo é la condizione formale a priori di tutti i fenomeni in generale . [] Se posso dire a priori : tutti i fenomeni esterni sono determinati a priori nello spazio e secondo relazioni spaziali ; posso anche , movendo dal principio del senso interno , dire universalmente : tutti i fenomeni in generale , cioè tutti gli oggetti dei sensi , sono nel tempo , e stanno fra di loro necessariamente in rapporti di tempo ( Estetica Trascendentale).

Nella prima parte della Critica della ragion pura, Kant studia i principi a priori della sensibilità cioè lo spazio e il tempo. In quel periodo Newton aveva supposto l'esistenza di uno spazio e di un tempo assoluti, mentre Leibniz aveva negato che spazio e tempo avessero una realtà in se stessi e aveva proposto di considerarli come semplici relazioni tra corpi. Kant affronta questo problema tentando di conciliare le due ipotesi e giunge alla soluzione che spazio e tempo non sono né una realtà oggettiva in se stessa, né semplici relazioni tra oggetti, ma piuttosto forme a priori della sensibilità umana. Esse condizionano ogni nostra esperienza sensibile in quanto le cose ci sono presentate sempre situate all'interno di uno spazio e di un tempo. Da un lato questi dunque operano solo in presenza dei dati dell'esperienza, ma dall'altro sono ricavati per astrazione dalla sensazione.
Il tempo non è un concetto derivato dall'esperienza. Infatti non possiamo rappresentarci una successione o contemporaneità dei fenomeni se non presupponendo già il tempo come la forma entro la quale percepire tali rapporti. Dunque il tempo è a priori, nel senso che viene concettualmente prima di qualsiasi fenomeno e ne è la condizione di possibilità. Questo carattere a priori del tempo consente di fare alcune affermazioni altrettanto necessarie, che risulterebbero impossibili se il tempo fosse un concetto empirico: infatti l'esperienza non è mai in grado di fornirci una conoscenza certa e universale. Del tempo siamo così in grado di affermare in particolare, che le sue diverse parti sono sempre successive e non sussistono mai insieme. Kant arriva ad affermare che il tempo è un'intuizione a priori: a priori perché non deriva dall'esperienza ma ne è fondamento; intuizione, perché egli definisce in questo modo la percezione diretta di una singola realtà, distinguendola dal concetto che è sempre una percezione mediata che unifica diverse altre percezioni. Si capisce, così, il motivo per cui il tempo, come già lo spazio, sia stato concepito come forma a priori della sensibilità e non dell'intelletto. Pur non derivando dalla sensibilità, ha chiaramente a che fare con essa, dal momento che l'intuizione è, propriamente, la modalità conoscitiva della sensibilità che fornisce le singole percezioni, laddove il concetto è la modalità propria dell'intelletto che tale molteplicità di percezioni sensibili unifica.

Inoltre il tempo non esiste oggettivamente, cioè indipendentemente dai modi della percezione di un soggetto. E non esiste oggettivamente né come realtà assoluta in cui gli oggetti sarebbero immersi, né come determinazione relativa dipendente dall'ordine sussistente fra di essi. Nel primo caso, infatti, si cadrebbe nell'assurdità di una realtà che, tuttavia, non è un oggetto o una sostanza; nel secondo, non potrebbe essere concepito, come invece avviene, anche indipendentemente e concettualmente prima degli oggetti che vi sono contenuti. Il tempo è dunque la forma del senso interno, in quanto è la particolare modalità attraverso la quale percepiamo i fenomeni della nostra interiorità. Esso, propriamente, non riguarda i fenomeni esterni, la cui forma a priori è lo spazio; tuttavia, poiché tutte le rappresentazioni, comprese quelle della realtà esterna, in quanto tali riguardano la nostra interiorità, il tempo è, direttamente, forma del senso interno e, indirettamente, forma del senso esterno. Spazio e tempo, come forme della sensibilità, rendono possibile la formulazione di proposizioni sintetiche a priori, ovvero quelle proposizioni che sono sintetiche in quanto non si limitano ad analizzare il soggetto per esplicitarne il contenuto, ma aggiungono qualcosa di nuovo a quanto è insito nel concetto di soggetto; sono tuttavia a priori in quanto non derivano dall'esperienza.


Søren Kierkegärd

La riflessione sul tempo è un tema centrale nel pensiero del filosofo danese. Kierkegaard tratta del tempo nei tre stadi della vita. Nel primo, quello estetico, l'uomo, incapace di prendere delle scelte, si lascia condurre dalla propria sensualità e dalla ricerca di piacere i tutte le sue forme: l'esteta vive così nell'istante, non ha presenti alla mente né il passato né il futuro, poiché egli è nel momento, si perde totalmente nello stato d'animo senza essere in grado di controllarlo. Nel suo agire non c'è un principio e una fine, ma ogni momento ha valore per se stesso, e non in funzione di un futuro che ne sarà effetto e di un passato che ne è causa. L'esteta è colui che è privo di un progetto di vita che dia un senso alla sua esistenza.
Nel secondo stadio, quello etico, l'individuo tenta di trovare il senso esistenziale in una scelta che si configura come stabile e che, pur essendo sempre individuale, trova conforto nei valori collettivi condivisi dalla comunità. Simbolo di tale atteggiamento è il matrimonio. La dimensione di questa scelta non è più quella dell'istante puntiforme proprio dello stato estetico, ma quella del tempo lineare. In esso la vita è intesa come progetto costruito nella sequenza di passato, presente e futuro e si caratterizza per la capacità del singolo di trovare la propria soddisfazione nella ripetizione, cioè nella continua riconferma dell'impegno assunto, come avviene nel matrimonio. Il terzo stadio è quello religioso; la dimensione temporale che gli è propria è il momento. Il momento è punto di intersezione fra eternità e tempo, in cui, per utilizzare una rappresentazione geometrica, in cui la prima si cala perpendicolarmente sul corso lineare del secondo. E' nel momento che avvengono le decisioni umane, in particolare la decisione fondamentale di rapportarsi a Dio. Nello stadio religioso il senso dell'esistenza sarà rinvenuto nel relazionarsi direttamente e individualmente con l'infinito e l'assoluto. Dunque Kierkegaard arriva ad affermare che l'esistente è composto di tempo ed eternità, cioè proprio degli elementi che costituiscono il momento.


Friedrich Nietzsche

Se già il carattere oggettivo e assoluto del tempo è  messo fortemente in dubbio, circa cento anni dopo Kant, Friedrich Nietzsche rifiuta la concezione lineare e quantificata del tempo, creando la dottrina dell'Eterno ritorno dell'Uguale, il più abissale dei suoi pensieri, come lui stesso lo ha definito.

Questa teoria viene presentata nell'opera Così parlò Zarathustra, in cui il pensiero di Nietzsche trova il suo massimo compimento. La dottrina, già accennata ne La gaia scienza è suggestivamente formulata nel capitolo 'la visione e l'enigma', in particolare nel passo in cui Zarathustra, il profeta dell'eterno ritorno, assiste all'enigmatica visione di: "un giovane pastore, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca. Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto?. [] la mia mano tirò con forza il serpente tirava e tirava - invano! Non riusciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca : 'mordi! Mordi! Staccagli il capo!' il pastore poi morse così come gli consigliava il mio grido; e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente e balzò in piedi. Non più pastore, non più uomo, un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva. Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!". (Così parlò Zarathustra).
Interpretando simbolicamente il passo, il morso del pastore (l'uomo metafisico disgustato dall'idea dell'eterno ritorno, a sua volta simboleggiato dalla circolarità del serpente) è l'atto con cui l'uomo, fondando lo stesso eterno ritorno, si libera dalla malattia e dalle catene e diventa superuomo. La dottrina dell'eterno ritorno non è la semplice ripresa della concezione greca di un tempo circolare, e non è neanche riconducibile ad una semplice critica allo storicismo o alla precedente concezione lineare e meccanicistico-deterministica del tempo, secondo cui ogni momento non ha il suo senso dentro di sé, ma nei momenti che lo precedono e lo seguono. Il tempo che Nietzsche propone è un tempo in cui si assiste ad un eterno ripetersi dell'attimo che si risolve in se stesso, che presenta unità di essere e significato: "Tutto va, tutto torna indietro; eternamente ruota la ruota dell'essere. Tutto muove, tutto torna a fiorire, eternamente corre l'anno dell'essere. Tutto crolla, tutto viene di nuovo connesso; eternamente l'essere si costruisce la medesima abitazione. Tutto si diparte, tutto torna a salutarsi; eternamente fedele a se stesso rimane l'anello dell'essere. In ogni attimo comincia l'essere; attorno ad ogni 'qui' ruota la sfera del 'là'. Il centro è dappertutto. Ricurvo è il sentiero dell'eternità".

Per comprendere la portata innovativa della dottrina di Nietzsche dell'eterno ritorno dell'uguale non è sufficiente analizzarne soltanto l'aspetto teorico, si devono infatti considerare le implicazioni pratiche che questa idea comporta nella vita dell'uomo e nella società una volta che essa viene accettata. Il problema non consiste quindi nel voler suggerire una nuova concezione del tempo ma nel produrre un uomo, un oltreuomo, un 'über-mensch' capace di volere la ripetizione eterna della propria esistenza, quindi di aderire entusiasticamente alla vita:

«Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: "Questa vita, come tu ora la vivi e l'hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione []. L'eterna clessidra dell'esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!»


Henry Bergson

Henry Bergson tratta il tema del tempo nel Saggio sui dati immediati della coscienza. In quest'opera il filosofo distingue due tipi di tempo: il tempo della scienza e il tempo reale. Ciò che distingue questi due concetti di tempo è la coscienza che permette di cogliere la vera realtà delle cose.

Tempo della scienza

Il tempo della scienza è il tempo spazializzato, reversibile, poiché un esperimento può essere ripetuto ed osservato una quantità infinita di volte. Il tempo della scienza si caratterizza per una molteplicità quantitativa, individuata dalla distinzione ed esteriorità reciproca degli elementi che lo compongono. Bergson paragona il tempo spazializzato della fisica a una collana di perle, tutte uguali e distinte fra di loro.

Un esempio che chiarisce il tempo spazializzato  è il concetto di numero. Infatti le unità che compongono il numero devono essere considerate come identiche le une alle altre. Per poter essere contate le unità che compongono un numero devono essere distinte le une dalle altre e l'unica cosa che le rende distinguibili è la diversa posizione che occupano nello spazio. La successione nel tempo, invece, ci presenterebbe solo un elemento alla volta. Inoltre ogni numero è sintesi di unità e molteplicità. Infatti ogni unità è tale solo provvisoriamente, nel momento in cui la consideriamo come elemento semplice che viene da noi mentalmente aggregato ad altre unità. Ciò costituisce un numero.

Tempo omogeneo

Spazio e tempo non possono essere considerati come mezzi omogenei, perché, se così fosse, non potrebbero essere distinguibili. Quando si concepisce il tempo come un mezzo omogeneo, esso viene visto come il luogo in cui i fatti possono succedersi. Perciò il tempo cessa di essere tale per diventare spazio. La durata e il tempo reale vanno cercati altrove.


Tempo reale e durata

Il tempo reale è il tempo dell'interiorità della coscienza ed è caratterizzato dalla molteplicità qualitativa che si esprime nella durata nella quale i differenti stati di coscienza si compenetrano reciprocamente.

La durata è l'espressione che indica il tempo reale in contrapposizione con quello spazializzato della scienza. La durata è una sintesi dell'essere e del divenire. Infatti è caratterizzata da un radicale permanere e da un radicale mutamento. Da un lato ciò che dura mantiene in sé tutto ciò che è già stato, avendo in sé tutti gli stati che lo hanno preceduto; dall'altro la durata aggiunge sempre qualcosa di nuovo, altrimenti il tempo non esisterebbe. Bergson paragona la durata ad un gomitolo di filo, che continuamente muta e cresce su sé stesso.

Dunque ogni stato, nella durata, conserva tutti gli stati precedenti, ma contemporaneamente aggiunge qualcosa di irriducibile e nuovo. La durata è essere e divenire, è conservatrice e creatrice: è un flusso, che nel continuo accrescersi, conserva il nucleo originario all'interno. Nel flusso del tempo reale non è possibile ritagliare elementi distinti, cosa che è invece fattibile nello spazio, cioè nel tempo spazializzato. Nella durata gli stati di coscienza si fondono gli uni negli altri, poiché ogni stato precedente penetra in quello successivo per essere conservato.

Al tempo reale bisogna arrivarci attraverso la meditazione.

Bergson, dopo aver delineato quest'ultima concezione di tempo, si domanda se sia possibile misurare  la durata.

Apparentemente il tempo ci appare come una grandezza misurabile, poiché contiamo i momenti successivi della durata. Bergson porta un esempio: il trascorrere di un minuto si connette alle sessanta oscillazioni di un pendolo. Tuttavia se le oscillazioni le consideriamo tutte insieme ci troveremo davanti ad una rappresentazione simbolica ed indiretta del tempo, dove i secondi sono raffigurati come punti che si giustappongono simultaneamente lungo una linea. Se, invece, vogliamo rappresentare le oscillazioni in successione, allora dovremo considerarle singolarmente; ma, non essendoci l'idea di durata in nessuna rappresentazione di una singola oscillazione, non potrà nemmeno esserci nella somma di tali rappresentazioni. Dunque, l'unico modo di recuperare l'idea di durata, sta nel concepire l'immagine di ogni oscillazione come fondentesi e compenetrantesi con quella precedente, secondo il concetto di molteplicità qualitativa.

A fondamento della molteplicità quantitativa si ritrova quella qualitativa e al di sotto del tempo omogeneo quello reale. L'analisi si conclude nell'individuazione, al di sotto di un io superficiale attraverso il quale entriamo in contatto col mondo esterno, di un io più profondo che si può cogliere solo quando ci sforziamo di rientrare in noi stessi. L'origine di un io superficiale risiede in un indebita proiezione nello spazio dell'io autentico, la cui esistenza si svolge nella durata. Il primo passaggio si ha quando la molteplicità qualitativa delle nostre sensazioni, che si compenetrano, viene trasformato in una serie di strati di coscienza successivi, distinti gli uni dagli altri. La parte superficiale del nostro io smarrisce la vera natura della durata e finisce per vivere in un tempo omogeneo che di essa è soltanto una rappresentazione simbolica. L'intero io finisce così per essere spezzettato in una serie di stati di coscienza che, senza più fondersi reciprocamente, si giustappongono nel tempo omogeneo che è in realtà solo una quarta dimensione dello spazio.


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