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Femminismo




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FEMMINISMO


La parità dei diritti e l'accesso alle professioni sono ormai conquiste definitive delle donne, anche se segnate da numerosi pregiudizi. Infatti, spesso si attribuisce la maggiore responsabilità della "crisi di famiglia"alle aspirazioni di lavoro delle suddette.

Questo tema è stato affrontato anche dai filosofi più importanti, da Hegel a Comte a Engles. Per esempio, August Comte, fondatore del Positivismo europeo, sosteneva che il problema del rapporto tra i sessi andava interpretato in termini di tendenze naturali oggettive che si dovrebbero conservare per preservare la società dalla disgregazione. La subalternità femminile è così da considerarsi organica e naturale, anche se tuttavia è "compensata" da una maggiore disposizione all'affetto e alla socievolezza. Comunque il problema femminile è diventato uno scopo centrale nella definizione erano ritenuti simbolo: cittadino portatore di diritti civili e politici e dei rapporti tra sfera pubblica e sfera privata, di cui rispettivamente l'uomo e la donna soggetto riconosciuto della funzione produttiva, il primo; esclusa dai diritti e garante dell'integrità della vita privata, la seconda. Questa disparità non sarà eliminata né dal Codice civile napoleonico (1804), né da quello dell'Italia unita (1865). Per ricostruire l'evoluzione dei nuclei familiari nell'Ottocento è necessario considerare le differenze economiche, sociali e culturali del Paese preso in considerazione.

Innanzi tutto va chiarito che il concetto di famiglia è troppo generico ed impreciso per l'indagine storica, quindi è importante analizzare le varie tipologie familiari. La famiglia nucleare è composta dai genitori con i figli non sposati; la famiglia complessa invece comprende vari nuclei allegati, quindi anche i parenti. Se invece consideriamo le relazioni tra i membri della famiglia, è possibile introdurre nuove categorie d'analisi: è definita patriarcale la famiglia nella quale esiste una rigida divisione sessuale dei ruoli; è detta di tipo coniugale intimo, invece, la famiglia dove non esiste una forte disparità e le relazioni sono basate più sull'affetto che sull'autorità.

Nella nobiltà e in tutto il patriziato cittadino italiani, per tutta l'età moderna, era importante garantire l'onere e la ricchezza alla discendenza.Il concetto di famiglia era legato ad una continuità ideale d'immagine e d'interesse che inglobava tutti i componenti della stirpe. Mentre il primogenito era in genere l'erede unico e l'unico figlio maschio sposato, gli altri figli (maschi e femmine che siano) potevano accedere a carriere ecclesiastiche o militari. Aumentava sempre di più il nubilato domestico e quello sacro. Questo modello familiare iniziò a dare cenni di crisi nel corso del Settecento a causa della crisi dell'aristocrazia di questo periodo.

In età moderna prevale la tipologia di famiglia complessa e la composizione della struttura di quest'ultima dipende strettamente dalla condizione lavorativa della stessa. C'era una distinzione netta, però, tra le famiglie di proprietari e quelle dei braccianti: le prime abbastanza ampie da garantire un adeguato sfruttamento delle proprietà terriere, le seconde generalmente nucleari. La mentalità borghese, la quale sosteneva che le lavoratrici avevano bisogno di <<protezione>> in quanto donne, andava perfettamente d'accordo con l'esigenza delle famiglie contadine di sorvegliare e proteggere le proprie figlie quando queste si allontanavano, anche di molto, per lavoro. Sorsero così laboratori <<protetti>>, come quello della Consolata di Torino, dormitori e convitti gestiti principalmente da enti cattolici, in cui le giovani andavano quando non erano al lavoro. Per quanto riguarda l'operato maschile, il lavoro era assegnato in base ad una precisa gerarchia di ruoli tra i maschi, alla quale corrispondeva, di riflesso, una sorta di gerarchia femminile. E' importante sottolineare che, mentre nell'Italia del Sud le famiglie erano molto estese, al Nord esistevano soprattutto famiglie nucleari. Questo è riconducibile al fatto che, mentre nel Mezzogiorno le proprietà erano divise in grandi latifondi i quali richiedevano un'elevato numero di braccianti, nell'Italia settentrionale, generalmente, le campagne erano meno estese e quindi gestite dalla famiglia.Tra il XV e il XIX secolo le famiglie aristocratiche hanno assunto via via una struttura nucleare, e nell'Italia Centro-Settentrionale le famiglie divennero sempre più complesse. Infine è importante evidenziare come, nei confronti delle classi subalterne, la mentalità dell'Ottocento elaborò atteggiamenti diversi, a volte di compatimento delle loro condizioni di vita, a volte di denuncia sociale.

Nel corso del XIX secolo il modello patriarcale enrò in crisi profonda e nel frattempo si assistette alla diffusione della famiglia coniugale intima, che interessò dapprima la borghesia intellettuale e delle professioni, e poi anche l'aristocrazia illuminata, fino ad estendersi poi, a tutti i ceti sociali. In questo periodo le classi altolocate abbandonarono l'impiego delle balie in nome dei benefici derivanti dall'allattamento e dall'amore materno. Tra le famiglie dei commercianti, dei bottegai e degli artigiani, la famiglia coniugale intima si sviluppa soprattutto tra la borghesia anche se, fino alla Prima guerra mondiale i matrimoni erano combinati per interesse e senza considerare il rapporto tra i due ragazzi. Invece la famiglia coniugale intima si affermò più velocemente tra i ceti impiegatizi e delle libere professioni.

Quella operaia è una famiglia che deriva da piccoli proprietari terreri, mezzadri o piccoli affittuari; è quindi tendenzialmente molto estesa e continua ad essere unità di produzione, oltre che di consumo con associazioni di lavoro agricolo e lavoro industriale, svolto soprattutto da donne e giovani. Le trasformazioni nei valori e nelle strategie delle famiglie dei ceti popolari si producono lentamente. Queste, agli inizi del Novecento, vivono in una situazione di grande precarietà perchè il numero delle unioni regolari diminuisce, le ragazze lavorano solitamente fino alla maternità, il lavoro è instabile e di conseguenza anche la residenza. Intorno alla fine dell'Ottocento si infittisce il flusso migratorio di lavoratori verso le città a causa dell'ampliarsi del mercato. I mestieri riguardanti i compiti riproduttivi e domestici sono ormai esclusivamente femminili. Comunque, oltre a queste, alcune lavoravano in fabbrica in condizioni materiali molto più dure rispetto a quelle che operano nel sistema artigianale o domestico. Molti scrittori dell'Ottocento, infatti, denunciano i ritmi di lavoro pesanti e le condizioni ambientali malsane i quali causano problemi sulla loro capacità riproduttiva.


Un'altro aspetto molto importante del tema sul femminismo è quello che concerne i diritti, la dote e la proprietà delle donne.

Per tutta l'età moderna i rapporti tra uomini e donne sono stati segnati principalmente dal modello patrilineare (improntato secondo l'asse privilegiato padre-figlio maschio) di trasmissione dei beni. La donna invece aveva il compito di garantire le nascite di eredi maschi legittimi ricoprendo così un ruolo riproduttivo e materno all'interno di questo sistema. Durante l'età moderna ed in parte anche in età contemporanea, le ragazze erano praticamente obbligate a scegliere tra il destino di moglie o madre, oppure tra monacale. Secondo la legge, le donne erano da considerarsi come i minori; da nubili stavano sotto la podestà del padre e, una volta sposate, passavano alla podestà del marito.La famiglia aveva l'obbligo di costituire una dote che serviva sia per il matrimonio sia per entrare nei monasteri. E' importante inoltre sottolineare che alle donne, fino a questo momento, non poteva spettare l'eredità

Poi, invece, grazie all'estensione nel territorio italiano del Codice civile napoleonico (1806), furono introdotte sensibili innovazioni per i diritti femminili. La novità più radicale fu il diritto di ereditare, riconosciuto alle figlie come ai figli. Inoltre la dote non fu più obbligatoria ma facoltativa, quindi si poteva scegliere se rimanere fedeli al sistema di ancien régime (dote) o decidere di fare la comunione/separazione dei beni. Il Codice napoleonico rafforzò l'autorità del marito all'interno della famiglia e nei confronti della moglie: le donne sposate erano sottoposte all'autorizzazione maritale, un vincolo che faceva dipendere dalla decisione del marito la possibilità della coniuge di disporre del patrimonio, anche quello personale. Il Codice, riguardo il matrimonio civile e il divorzio, prevedeva anche quì una forte disuguaglianza tra i due coniugi: il marito poteva chiedere il divorzio per adulterio della moglie, mentre quest'ultima poteva farlo solo se il marito aveva l'amante in casa come concubina; ancora, per quel che riguardava la podestà, questo esercizio spettava quasi del tutto al padre.

In Italia, la sansione definitiva riguardo alla successione delle figlie femmine fu prodotta dal Codice civile unitario, noto anche con il nome di Codice Pisanelli, varato nel 1865, entrato in vigore nel 1866 e rimasto in vigore fino al Codice fascista del 1942. Il Codice unitario riconosceva alla moglie vedova il diritto di successione all'eredità: è la prima volta che a queste si riconosceva il diritto ad una quota di proprietà del coniuge. Nonostante la legge fosse molto più flessibile, permane ancora la tendenza a favorire i primogeniti maschi i sostenitori della gerarchia e della divisione dei ruoli, ai fini di mantenere l'autorizzazione maritale, sostenendo che la subordinazione della donna al marito era garanzia di unità famigliare. Per mezzo secolo l'autorizzazione maritale fu abolita provocando ovviamente forti lamentele da parte degli emancipazionisti. Possiamo notare come l'Ottocento sia risultato favorevole sia per le mogli, e principalmente per le ragazze nubili che non erano più sottoposte alla patria podestà e potevano disporre della loro quota di eredità. Concludendo, se una giovane nella seconda metà dell'Ottocento aveva intenzione di lavorare poteva farlo, almeno formalmente, mentre una donna sposata rimaneva sempre subordinata alle decisioni del marito.


Grazie ad innumerevoli inchieste condotte per conto del Parlamento italiano, sulle condizioni delle classi agricole e delle campagne, riferendoci alla società dell'Ottocento possiamo parlare di quella rurale, considerandola come la più rappresentativa dell'economia italiana dell'epoca. Tra le varie inchieste sui contadini in Italia Meridionale prendiamo in esame quella di Jacini svolta tra il 1878 e il 1885 e quella di Faina svolta tra il 1907 e il 1910. In quest'ultima viene confermata l'esistenza di modelli economici e sociali molto diversi, a seconda del luogo in cui ci troviamo. Il Faina, pur riconoscendo nella famiglia "il nucleo sociale per eccellenza", decide di dare una conformazione della famiglia contadina. Nel mondo rurale la donna la troviamo dedita essenzialmente a tre tipi di occupazione: il lavoro nella casa, il lavoro nei campi e la produzione di manufatti per l'autoconsumo, o da destinare al mercato. Ogni mansione riveste un preciso valore economico e chiarisce il ruolo occupato dalla donna, nella scala gerarchica familiare. Possiamo prendere in considerazione due tipi di famiglie e di lavori:

Il lavoro nella famiglia appoderata

Il lavoro nella famiglia dei salariati agricoli

Iniziamo a esaminare il primo punto. Nella pianura piemontese, lombarda e veneta nell'Ottocento, erano diffusi gli esempi di intervento capitalistico con aziende e cascine gestite con criteri imprenditoriali, da proprietari-coltivatori e da affittuari e costituivano una categoria sociale nuova e intraprendente. Nella cascina l'organizzazione familiare poggiava su una rigida divisione dei ruoli. Al vertice c'era la figura maschile del capofamiglia o reggitore, che organizzava il lavoro e amministrava il patrimonio. Nella conduzione della casa gli corrispondeva la moglie o reggitrice, che si occupava dei compiti di maggiore responsabilità, come la conduzione della cucina, la gestione del bucato e la vendita dei prodotti del cortile. Sotto la sua direzione, le nuore e le figlie non ancora maritate, o anche le cognate, svolgevano tutti i pesanti lavori domestici oppure, alle dipendenze del reggitore, aiutavano nell'attività agricola. La famiglia appoderata esercitava un rigido controllo su ogni membro. Ad esempio i figli maschi sposandosi rimanevano in famiglia, a patto che il podere fosse in grado di accogliere nuove forze lavoro. Si tratta quindi di una struttura in cui ogni membro è collocato all'interno di una precisa gerarchia parentale e produttiva allo stesso tempo. Per quanto concerne la posizione della donna ciò dipende dal loro vincolo coniugale, ossia dall'importanza del ruolo ricoperto dal marito. Inoltre le donne erano escluse dal patrimonio familiare, pur contribuendo al suo accrescimento con il loro lavoro; l'unico loro diritto era al vitto, all'alloggio e al vestiario.

Una seconda tipologia familiare era quella di chi non era legato alla terra che lavorava: i salariati o braccianti che si occupavano presso le aziende agrarie della pianura Padana, oppure erano i contadini che alternavano il lavoro stagionale nelle grandi proprie latifondiste del Meridione, alla coltivazione di un proprio fondo insufficiente, però, a sostentarli. Spesso questo proletariato agricolo ci viene descritto in condizioni di povertà. Dall'inchiesta Jacini possiamo dedurre che questa classe sociale costituisce il problema centrala della questione agricola. Di solito l'impegno del bracciante era a giornata e, considerato che il lavoro era sempre precario, nella famiglia del salariato si rendeva necessario l'apporto di tutti. Difatti moglie e figli si prestavano come braccianti nei periodi di grande fabbisogno lavorativo. In questo contesto anche i legami familiari si allentavano. L'emigrazione era spesso frequente in questo ceto. Le gerarchie parentali non avevano più ragione di esistere e le donne potevano collocarsi nei lavori più diversi. Nelle condizioni peggiori erano disposte anche a spostarsi altrove per cercare lavoro, ciò accadeva molto spesso nelle campagne, poteva durare mesi, ma anche anni, come accadeva per il baliatico. Questo tipo di occupazione si andava progressivamente femminilizzando. Erano richieste soprattutto le nubili e le vedove. Negli ultimi  decenni dell'Ottocento, le giovani e le nubili trovano occupazione presso i laboratori legati al settore dell'abbigliamento. Il salario di una donna non superava mai la metà di quello di un lavoratore maschi adulto. Il lavoro femminile era inteso come contributo minore e per questo non riceveva un riconoscimento di valore. Nella cultura meridionale, la casa e i campi corrispondevano a una separazione rigorosa dei lavori femminili e maschili. In realtà il lavoro nei campi delle donne è ampiamente documentato anche al Sud, specialmente presso le famiglie più povere dei lavoratori giornalieri, ma era sempre vissuto come marginale, temporaneo.

Le donne furono una presenza fondamentale in tutto il mondo rurale dell'Ottocento. L'inchiesta Jacini riporta:




QUOTE DI OCCUPATI (POSTA UGUALE A 10 L'OCCUPAZIONE MASCHILE)


MASCHI


FEMMINE


BAMBINI


MONTAGNA


10


4


1


COLLINA


10


5


1


ALTA PIANURA


10


5


2


BASSA PIANURA


10


8


4

Però le statistiche ufficiali del secolo tendono a sottolineare il numero delle donne occupate. Il lavoro continuo e pesante a cui le donne si sottoponevano, anche durante le gravidanze, le portava a sfiorire precocemente nel fisico, o a compromettere la salute dei nascituri.

Chiarita la questione sull'occupazione femminile, ci sembra opportuno passare a esaminare il passaggio dalla manifattura alla fabbrica osservando I caratteri dell'industrializzazione in Italia. Nel nostro paese la trasformazione del sistema produttivo si realizzò in tempi e modi diversi dalla rivoluzione industriale inglese. La fabbrica meccanizzata era una realtà molto poco diffusa e ciò fu dovuta principalmente al ritardo dell'unificazione politica e del mercato, alla quasi totale assenza nel sottosuolo di combustili fossili, alla scarsa disponibilità di capitali. Gli storici hanno individuato la data dell'inizio del processo d'industrializzazione nel periodo tra il 1881 e il 1887. Nel 1870 lo Stato avviò un'inchiesta sulla situazione dell'industria e solo la filatura era stata meccanizzata. Gli stabilimenti di notevoli dimensioni fino alla metà dell'800 furono pochi e dopo l'abolizione delle dogane interne nel 1860 si aggiunsero solo le manifatture di Stato, come i tabacchifici, le officine ferroviarie e gli opifici militari. Nel 1876 la media degli occupati era di 26 operai per fabbrica, che diventeranno 39 nel 1903.

Solo con gli anni Ottanta, lo Stato interverrà a sostegno dell'industrializzazione con una linea politica protezionistica che consentì l'introduzione o l'ammodernamento dei macchinari. Nel rilevamento del 1901 solo due milioni e mezzo di abitanti si dichiararono salariati dell'industria e di questi il 40% costituito da donne e bambini.

Osservando i dati forniti dai censimenti possiamo notare che l'avvento del tasso d'industrializzazione non fu accompagnato dall'aumento del tasso di occupazione delle donne, che dal 1881 diminuì costantemente. La spiegazione di ciò è da ricercare nello sviluppo dell'industria pesante e nelle leggi protettive. La fabbrica fu causa di numerosi e radicali cambiamenti nelle abitudini di lavoro dei suoi addetti, nel loro stesso sistema di vita. Nel momento in cui la filatura e poi la tessitura divennero meccanizzate vediamo, all'inizio, essere gli uomini a trasferirsi negli opifici per attendere ai filatoi idraulici, le mule. Per l'industriale conveniva addestrare al nuovo meccanismo un uomo piuttosto che una donna, ritenuta come uno spreco di tempo e denaro.

La società riconosceva nella donna la sua funzione riproduttiva e conservatrice della famiglia.

La crisi agraria di fine Ottocento obbligò gli industriali ad adeguare i salari degli operai, così cominciarono le emigrazioni  dei contadini disoccupati.




 

Il salario femminile subì un'ulteriore ribasso. L'apporto economico delle donne al reddito familiare era indispensabile.

Fino all'inizio del 1900 in Italia non esistevano forme di prevenzione contro gli infortuni, né forme di igiene industriale, l'impiego di minori e donne, la lunghezza della giornata lavorativa, il lavoro notturno e gli ambienti malsani producevano effetti sul fisico. Nelle filande le donne erano costrette a tenere per molto tempo le mani nelle tinozze d'acqua bollente, nei cotonifici la polvere e i coloranti danneggiavano l'apparato respiratorio.

I divieti, gli obblighi e il relativo sistema di punizioni, trasformavano gli opifici in luoghi simili a carceri duri.

I caratteri del lavoro femminile erano perciò: la divisione sessuale del lavoro, la formazione differenziata, l'attribuzione di mansioni meno qualificate e con paghe inferiori, il prevalere del ruolo riproduttivo e domestico, nella considerazione della donna e la sua collocazione sociale inferiore.

Esaminiamo ora un'altra questione molto importante: l'istruzione.

Prima della legislazione unitaria, esperimenti di scuola di base sia maschile che femminile si ebbero nel Lombardo Veneto, nel Granducato di Toscana e nel Regno di Sardegna; in questi casi oltre al tasso di frequenza molto basso si accentuava il divario tra scolarità maschile e femminile. La qualità dell'insegnamento nelle scuole private femminili era approssimativa se non di più. Esempi di ciò erano li possiamo trovare negli istituti che non insegnavano a scrivere per impedire che le ragazze scrivessero lettere d'amore. 

L'obbligatorietà dell'istruzione di base per entrambi i sessi fu stabilita in Piemonte nel 1859 con la Legge Casati, che fu successivamente estesa a tutta l'Italia dalla più incisiva Legge Coppino del 1887 che presentava però due limiti:

Non prevedeva sanzioni per i genitori che non mandavano i propri figli a scuola;

Confermava la divisione dei ruoli e disparità formativa tra maschi e femmine.

Nell'Ottocento l'analfabetismo fu sicuramente più diffuso tra le donne.

Nel 1883 le ragazze furono ammesse nei licei e negli istituti tecnici. Tra le scuole secondarie pubbliche, furono le scuole normali (scuole per diventare insegnanti) a registrare la maggiore affluenza di donne. Anche in queste scuole esisteva una diversificazione del curriculum, considerato che per le maestre erano previsti i "lavori donneschi", mentre per i maschi nozioni di diritto civile.

Quella della maestra fu una delle poche professioni che si aprirono alle donne del ceto borghese.

Esisteva una sorta di graduatoria di stipendio, per cui al primo posto si trovano i maestri, quindi le maestre.

Costrette a lunghi periodi lontane da casa vivevano fra pregiudizi e condizionamenti. Alla fine dell'Ottocento, a seguito dello sviluppo del commercio e delle comunicazioni, troviamo la figura dell'impiegata.

Con i regolamenti di Bonghi e Coppino (1876) vennero aperte le porte delle università alle donne. Il numero di queste crebbe in modo lineare, raggiungendo la cifra di 257 lauree tra il 1877 e il 1900.

Solo dopo la Prima guerra mondiale fu abolita la norma discriminante e le donne furono ammesse a esercitare le professioni liberali.

Inoltre nel 1878 furono creati due istituti superiori di magistero femminile a Roma e a Firenze.


Anche se la donna sembra essere una presenza fondamentale nell'economia del XIX secolo, ancora non aveva ottenuto un'adeguata considerazione. Il dibattito sulla donna lavoratrice sorse già dal 1800, nel momento in cui sorsero le prime fabbriche; iniziarono ad essere formulate domande come: a che cosa deve servire il salario ad una donna? Che tipo di lavoro è adatto a queste? Che cosa può comportare il lavoro per la femminilità? In epoca preindustriale, la donna era quella dell'antico regime ossia destinata a fare da moglie e da madre; nel Risorgimento, invece, si sentì la necessità di rivalutare la posizione della donna e la sua partecipazione alla costruzione dello Stato. Fu in questo periodo che iniziarono le prime battaglie per l'emancipazione femminile, di cui ricordiamo quella contro l'autorizzazione maritale, contro la disparità salariale, l'impossibilità ad accedere a determinate professioni, la disuguaglianza per l'accesso all'istruzione, la mancanza del diritto di voto. In Italia la diffusione d'idee emancipioniste avvenne attraverso una serie di pubblicazioni, tra cui La donna, La Cornelia, Unione femminile. All'interno del movimento emancipazionista vi erano due posizioni distinte, ossia chi pensava che la società fosse formata da individui, a prescindere dall'essere femmine o maschi, e chi ammetteva le diversità tra sessi ed avanzava l'idea di complementarietà tra i due. Comunque il movimento femminile si concretizzò in iniziative diverse e numerose, che vanno dal proclamare sciperi, all'organizzare centri d'accoglienza per le givani che si trasferivano in città per lavoro.

Per quel che riguarda la questione legislativa, fino al 1886 non esisteva nessuna norma che poneva un limite d'età minima per l'impiego di donne e bambini. Poi si stabilì un'età minima di nove anni che diventò di dodici nel 1902, grazie ad una legge richiesta dal Partito socialista, ed inoltre si vietò il lavoro notturno per i maschi sotto ai quindici anni e per le donne sotto i ventuno, la giornata lavorativa per quest'ultime era di dodici ore mentre per i fanciulli di undici, era previsto il riposo settimanale (anche se non retribuito). Il problema della sicurezza e dell'igene, non fu affrontato, e la retribuzione di una donna, invece di essere equiparata e quella di un uomo, era uguale a quella di un fanciullo. La legge però si occupava soltanto del lavoro in fabbrica, mentre quello agricolo, quello a domicilio e quello domestico non erano tutelati quindi permaneva lo sfruttamento femminile. Nel 1910 venne istituita la prima Cassa di maternità che introdusse un sussidio per le gestanti; pian piano però, l'assunzione di manodopera femminile divenne sempre meno conveniente. La Prima guerra mondiale mobilita le donne e a partire da questa inizia una trasformazione lenta e sofferta dell'immagine femminile che avrebbe prodotto nuove conquiste, le quali però verranno ridimensionate durante con l'avvento del fascismo che ribadirà la funzione riproduttiva della donna. Si dovrà attendere lo Stato repubblicano e la costituzione democratica perchè alle donne vengano riconosciuti gli stessi diritti garantiti agli uomini, almeno formalmente.

Concludendo, possiamo affermare che il primo lavoro extradomestico non fu quello in fabbrica e quindi non dipese dall'industrializzazione. La vera novità del XIX secolo, fu il dibattito sulla donna lavoratrice che da questo momento in poi caratterizzerà le mentalità future.






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