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L'Italia entra in guerra - La seconda guerra mondiale




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L'Italia entra in guerra - La seconda guerra mondiale


Una settimana dopo l'intervento italiano, la Francia, stremata dagli attacchi tedeschi, le cui truppe erano ormai entrate a Parigi, capitolò definitivamente, chiedendo l'armistizio, senza che le truppe italiane avessero ancora combattuto contro quelle francesi. Il 21 giugno l'esercito italiano invase il confine francese, riscontrando enormi difficoltà, e riuscendo così ad avanzare in pochi territori. Il 24 giugno, tuttavia, l'Italia firmò il proprio armistizio[i] con la Francia. «Tunisia, Gibuti, Corsica, Nizza, Savoia, Dalmazia», erano le rivendicazioni scritte a grosse lettere in un cartello innalzato fra la folla, a spiccare e riempire il centro di una fotografia. Ma le conquiste italiane furono poche ed irrisorie, rispetto alle iniziali richieste avanzate e desiderate dal regime fascista, e forse proprio per tale motivo il Minculpop si affrettò ad intervenire.

Se il 22 giugno il Minculpop aveva ordinato, probabilmente per motivi di segretezza militare, di non diramare nessuna notizia sull'eventuale armistizio, all'infuori di quanto fosse stato dichiarato dall'agenzia Stefani, il 24 giugno esso precisò che il comunicato sull'armistizio e sulla cessazione delle ostilità andava dato «a taglio, con titolo a non più di tre colonne», e ordinando di non apporre «nessun commento, nessuna cronaca, nessun sunto di commenti esteri», ma al massimo era possibile «pubblicare una fotocronaca di non più di tre o quattro fotografie». Inoltre esso impartì l'ordine di «non parlare di storico incontro e non usare nessun'altra espressione consimile», sia nei titoli, sia nelle didascalie fotografiche[ii]. Tale decisione di minimizzare l'avvenuto era forse successiva alla delusione delle minime conquiste conseguite.

In questa fase del conflitto, il Reparto Guerra fotografò gli effetti dei bombardamenti francesi a Ventimiglia, per poi seguire l'esercito mentre oltrepassava il confine, e giungeva a Mentone. Qui, gli operatori del Reparto fotografarono ancora gli effetti dei bombardamenti, intervallandoli a fotografie di placidi scorci del panorama costiero, con paesaggi cartolinistici di insenature e mare. Essi fotografarono il 26 giugno i soldati italiani reggere uno stendardo francese, la milizia in marcia oltre il confine, la bandiera del XV Fanteria a Ponte S. Luigi, od un ritratto del duce con l'elmetto affisso sulla roccia.

Il Reparto Guerra fotografò Mussolini nelle sue ispezioni alle truppe nelle varie zone di operazione, o mentre visitava i primi feriti negli ospedali di Torino o nella zona di Ventimiglia. Esso concentrò le sue attenzioni sui reticolati e sui richiami alla folla appesi sulle mura di Mentone, recitanti: «Appel au CALME. Restez calmes et confiants », per poi esaltare l'opera di ricostruzione italiana nella città[iii].

Ma esisteva una realtà negata dalle fotografie del Luce, che semmai iniziava già ad affiorare nelle produzioni dei soldati fotografi. Il Reparto Guerra, infatti, non fotografò le torrette blindate del Forte dello Chaberton[iv], considerato un gioiello del sistema fortificato alpino italiano, e distrutte dal tiro delle artiglierie francesi il 21 giugno 1940. Il forte, posto a 3.130 metri di quota, con otto cupole corazzate e cannoni da 149/35, era vantato nella propaganda ufficiale come un inespugnabile appostamento difensivo, e le immagini della sua distruzione, anche se non dovevano essere portate a conoscenza dell'opinione pubblica, circolarono presto in forma semiclandestina fra i militari impegnati nelle operazioni sul fronte occidentale. E furono ancora i soldati, e per la precisione il tenente Vittorio Luoni, a fotografare una corona[v] di fiori donata dai soldati francesi di Briançon per onorare i caduti italiani, ad Oulx sul fronte occidentale, sempre nel giugno del 1940. Anche tale fotografia non fu divulgata ufficialmente; mentre l'episodio analogo, con il mazzo di fiori deposto dagli alpini italiani del «Susa» sul monumento di Termignon, per onorare gli avversari francesi caduti, fu enfatizzato come un nobile gesto di cavalleria degli italiani.

Nel frattempo, gli operatori del Reparto Guerra, il 25 giugno, ripresero la signora Balbo distribuire piccoli doni ai soldati dell'esercito e dell'aviazione in Tripolitania, per poi fotografare, nel luglio del 1940, i funerali che si svolsero a Bengasi per celebrare maestosamente Balbo[vi], caduto in volo insieme al suo equipaggio. Successivamente, il Reparto Guerra fu incaricato di nascondere le impreparazioni militari e i primi fallimenti della «guerra parallela[vii]» italiana.

Il 28 ottobre del 1940 fu impartito l'attacco alla Grecia, ma l'offensiva iniziò ben presto a delinearsi fallimentare di fronte all'efficace difesa greca, tanto che già a metà novembre, le truppe italiane furono costrette a rifugiarsi in Albania, sospinte dal contrattacco greco, che minacciò nel dicembre di invadere la stessa Albania.

Il Reparto Guerra testimoniò le carenze e l'impreparazione militare italiana, anche se le didascalie, apposte sulle fotografie pubblicate, cercavano di negare le evidenti difficoltà italiane, per propagandare una realtà ed un messaggio politico di ben diversi significati. Tali fotografie di soldati e muli impantanati nel fango, infatti, venivano strumentalizzate non soltanto per attestare ed enfatizzare la tenacia e la forza di volontà delle truppe che combattevano contro ogni sorta di ostacolo, ma anche per cercare di evidenziare un'arretratezza nelle vie di comunicazione del paese invaso, e conseguentemente criticare l'operato del governo greco, che non aveva provveduto a creare adeguate infrastrutture per il proprio paese.

Emblematica, ed al limite del grottesco, era a tal fine la didascalia che accompagnò la pubblicazione, nel novembre del 1940, di una fotografia raffigurante alcuni soldati intenti a marciare nel fango, e che recitava: «Ecco come i nostri soldati trovarono le strade greche: il governo del 4 agosto che prometteva di portare la Grecia all'altezza delle grandi potenze, in quattro anni non ha costruito una ferrovia, non ha dato al paese neppure le strade di grande comunicazione.[viii]»

Il messaggio di questa didascalia soddisfaceva interamente la logica del regime fascista. Era stato lo stesso Pavolini, infatti, nel rapporto ai giornalisti tenuto il 29 ottobre 1940 alle ore 19.30[ix], ad ordinare alla stampa di non svalutare il soldato greco, né tanto meno la popolazione greca, ma di riservare e rivolgere tutte le critiche e gli attacchi contro la classe dirigente del paese.

«Non svalutare il combattente greco.Niente contro il popolo greco.Tutto contro il regime e contro quel tanto di classe non voglio dire dirigente, ma di classe "mangiante" che si è accentrato ad Atene, e Salonicco, ecc.», aveva detto Pavolini ai giornalisti nel rapporto.

Così, come già avvenuto durante il conflitto etiopico, e ribadito dopo la presa di Mentone, il soldato italiano era rivestito ancora una volta dall'immagine retorica del portatore della civiltà, della cultura, della tecnologia in un paese arretrato. Tale politica iconografica era estesa a tutti i fronti, e si sarebbe perpetuata per tutto il corso del conflitto.

«Il soldato italiano adopera bene il piccone quanto il moschetto: eccolo all'opera per riattivare il ciglione del Derna interrotto dal nemico in fuga», sarebbe stata, nel luglio del 1941, la didascalia apposta su una fotografia del Reparto Guerra, a edificare l'immagine del soldato buono che ricostruiva ciò che la guerra, e soprattutto il nemico, aveva distrutto.

Il messaggio del soldato edificatore di civiltà, inoltre, aveva costituito il tema centrale anche nella quasi totalità della produzione fotografica effettuata in Albania, dove, una volta conquistata, gli operatori del Reparto medesimo si erano prodigati essenzialmente a raffigurare i continui lavori edili, idraulici, agricoli e stradali nel corso del loro svolgimento, per poi soffermarsi a fotografare le manifestazioni ginniche della GLA, con le consuete immagini di ragazze in blusa bianca ad esercitarsi con cerchi e biciclette.

Ed in Africa Settentrionale, già dal novembre del 1940, il Reparto Guerra fotografò i soldati italiani intenti nella costruzione delle strade. Nel caso africano, però, la costruzione delle strade era dovuta in molte occasioni ad esigenze logistiche, avendo l'esercito conquistato posizioni in cui non sussistevano vie di comunicazione né per l'inoltro di rifornimenti, né per lo spostamento dei contingenti militari. Ma in questo caso, le fotografie delle costruzioni, e le apposite didascalie, divenivano uno strumento per nascondere un eventuale errore strategico, ed innalzare l'immagine del regime fascista.

Sempre in Africa Settentrionale, intanto, alla fine di ottobre, l'offensiva italiana condotta da Graziani era stata bloccata; mentre in dicembre si ebbe sia una controffensiva inglese in Egitto, sia il delinearsi delle difficoltà italiane a mantenere il settore etiopico. Il Reparto Guerra, tuttavia, continuò a costruire la tranquillità delle truppe italiane, con le solite immagini di vita dalle retrovie, cercando inoltre di attestare la superiorità militare italiana, fotografando in continuazione i rottami di aerei o di furgoni inglesi abbattuti, nonché i fucili abbandonati. Ma ben presto, tale forma di rappresentazione non era più sufficiente per dimostrare l'imbattibilità dell'esercito propugnata dal regime fascista.

Le fotografie di solitari automezzi militari catturati al nemico, se comparate al totale dei mezzi bellici utilizzati da esso, potevano soltanto danneggiare l'immagine militare italiana, piuttosto che rafforzarla. Lo stesso Minculpop, infatti, attraverso una disposizione telefonica nel febbraio del 1941[x], dopo aver ricordato che un giornale aveva pubblicato «una fotografia di "un" carro armato catturato agli inglesi», ordinava categoricamente di «astenersi da simili pubblicazioni quanto mai inopportune quando si pensi alla massa del materiale bellico che gli inglesi hanno usato contro di noi in Libia.»

Analogo discorso valeva per i soldati nemici catturati. Facendo riferimento ad una fotografia di soli quattro prigionieri, e pubblicata da alcuni giornali, il Minculpop ordinava il giorno stesso agli altri giornali di non riprenderla, ricordando che potevano essere pubblicate soltanto le fotografie che riguardavano o «gruppi numerosi» di prigionieri «oppure alti comandi, come fu il caso del maresciallo dell'Aria britannico[xi]

Anche la rappresentazione della guerra come una pacifica scampagnata andava sempre più lentamente in frantumi, di fronte alle difficoltà militari italiane. Le fotografie delle scene delle retrovie, con i soldati in riposo a scrivere lettere o a giocare a pallone, potevano ora danneggiare l'immagine dell'esercito italiano, soprattutto se confrontate alle fotografie delle altre nazioni, che tendevano a riprendere i propri soldati durante i combattimenti.

Sempre nel febbraio del 1941, durante un consueto rapporto, il ministro del Minculpop raccomandava ai vari giornalisti presenti di effettuare controlli più accurati sulle fotografie da pubblicare. A base di tale rapporto, vi era il fatto che un giornale avesse pubblicato diverse fotografie tedesche e rumene, e poi una fotografia di soldati italiani intenti a giocare a bocce in un dopolavoro. Il ministro, premettendo che il gioco delle bocce era «favorito dal regime», annotava tuttavia che tale accostamento di immagini poteva dare «la possibilità di stabilire dei confronti», e di «fare dell'antifascismo senza volerlo[xii].» D'altronde, da una comparazione fra le varie fotografie, non era molto edificante, se non addirittura tracciabile di disfattismo, l'immagine che poteva risultare sia per il regime fascista, sia per lo stesso esercito italiano, di un soldato italiano che invece di combattere si divertiva a giocare. Un'immagine senz'altro che poteva essere resa ancor più controproducente in un periodo di stasi operativa.

Il Reparto Guerra, tuttavia, continuò, per tutta la durata del conflitto in Africa, a produrre le solite fotografie di carri armati ed automezzi «distrutti dalle nostre artiglierie», o a ritrarre i soldati durante l'arrivo e la distribuzione della posta, eccezione fatta per qualche immagine che cercava di raffigurare soldati eroici intenti a lanciare bombe a mano, con modalità espressive e tagli di inquadratura che ricordavano da vicino la celebre fotografia «morte di un miliziano» di Robert Capa. D'altronde, nonostante qualche critica occasionale, questa era l'unica rappresentazione fotografica della guerra che potesse essere accettata dalle esigenze della censura.

Nell'aprile del 1941, infatti, il Reparto Guerra, riprendendo alcune «tombe dei caduti italiani devastate dagli inglesi con scritte antifasciste», fotografò un loculo su cui era stata impressa la frase «reserved for Mussolini», ma tali immagini furono tutte catalogate come riservate. Lo stesso sarebbe avvenuto nel 1942, quando gli operatori fotografarono alcuni aerei italiani danneggiati od abbattuti dalle artiglierie inglesi, od ancor di più quando essi ripresero i soldati italiani intenti a rammendarsi le uniformi e ripararsi le scarpe, testimoniando così lo sfacelo e le difficoltà italiane.

Tornando al fronte greco-albanese, il Reparto Guerra fotografò spesso il trasporto di feriti, ma in molte occasioni le sue immagini furono catalogate come riservate, come nel caso delle fotografie che ritraevano il trasporto dei soldati feriti, nel novembre del 1940, attraverso i mezzi aerei. Essendo incaricato di celare il più possibile le difficoltà operative dell'Italia, gli operatori del Reparto Guerra ripresero i soldati mentre mostravano fieri i fari di un aereo nemico abbattuto, oppure mentre, sotto la neve, si accingevano a preparare un particolare albero di Natale, guarnendo dei rami con bombe a mano.

E sempre a Natale, quando l'operatore Rino Filippini filmò i soldati italiani con la barba lunga, le divise strappate, le maniche delle giacche scucite per avvolgercisi i piedi nudi alla meno peggio, il Minculpop gli comunicò che i «soldati italiani non devono avere né le scarpe rotte né la barba incolta[xiii]

Successivamente, nel marzo del 1941[xiv], il Reparto Guerra fotografò la visita di Mussolini, riprendendolo mentre passava in rivista le varie truppe, per cercare di innalzare loro il morale, od ancora mentre esaminava le varie carte in vista della prossima offensiva. Le fotografie di simili visite ed ispezioni di Mussolini al fronte rientravano in una simbologia iconografica che tendeva ad innalzare ed esaltare il duce quale un geniale stratega militare, nonché quale condottiero militare dell'intera nazione. Tuttavia, anche le offensive italiane di marzo si rivelarono un fallimento, e fu soltanto l'intervento delle truppe naziste in Jugoslavia ed in Grecia che risollevò le sorti italiane.

La fotografia, però, doveva cercare di celare l'inferiorità militare italiana e la sua subordinazione all'esercito tedesco, e semmai esaltare l'amicizia e la fratellanza fra i due eserciti. Questo significato politico era assegnato alle fotografie che ritrassero l'incontro fra le truppe italiane e tedesche a Dibra, sul fronte albanese-jugoslavo. Il Reparto Guerra fotografò le truppe italiane mentre occupavano Struga, Ocrida; mentre sfilavano per le vie di Korcia, ricevendo il saluto della popolazione; od ancora le riviste delle truppe italiane a Lubiana nella giornata dell'Esercito e dell'Impero. A Lubiana, nei mesi successivi, il Reparto fotografò i soldati italiani e il Genio ferroviario, mentre ricostruivano il viadotto di Borovinca.

La celebrazione della vittoria sulla Grecia, durante il maggio e il giugno del 1941, fu invece affidata alle fotografie del Reparto Guerra che ripresero i soldati italiani passeggiare fra le rovine dell'Acropoli, durante la rivista delle forze dell'Asse ad Atene. In seguito, il Reparto Guerra passò a produrre un'immagine più folclorista della guerra, come attraverso le fotografie che ritraevano i soldati italiani seduti in qualche barbiere del luogo a farsi tagliare i capelli, o intenti a regolare e dirigere il traffico stradale della città.

Sempre l'Acropoli, infine, era il teatro della simbolizzazione dell'amicizia e dell'alleanza con la Germania, affidata alle fotografie della cerimonia dell'alzabandiera, che riprendevano appunto le bandiere italiane e tedesche sventolare assieme e vicine fra le rovine dell'antica Grecia.

Per celebrare l'amicizia fra le due nazioni, ed attestare la comunità d'intenti, il regime fascista e tedesco, fra il 1941 ed il 1942, emisero contemporaneamente una serie di francobolli, su cui erano raffigurati i volti di Mussolini e Hilter, ai cui lati vi era un fascio littorio ed un'aquila imperiale poggiata su una svastica. Sul francobollo di 25 centesimi, vi era stata apposta la scritta «Due popoli un fuhrer»; mentre al centro del francobollo da 50 centesimi, e per la precisione sotto i visi dei due dittatori, era stata apposta la scritta «Due popoli una guerra».




[i] Le conquiste italiane previste dall'armistizio prevedano due fasce smilitarizzate,una lungo i confini italo-francesi ed una lungo quello libico-tunisino, oltre all'utilizzazione del porto di Gibuti.

[ii] Disposizione del 24 giugno 1940 riportata in Mignemi A., L'Italia s'è desta, pag.68 ed in Matteini C., Ordini alla stampa, pag.107.

[iii] A Mentone fu inviato, come Commissario Civile, Giuseppe Freudiani, già segretario federale del PNF di Verona e poi di Pavia, con l'incarico di predisporre i piani per la ricostruzione fascista della città. Freudiani, per visualizzare l'opera svolta in tale settore, e con la collaborazione del fotografo pavese Chiolini, fece redigere alcuni album fotografici, tra cui Mentone dalla distruzione alla rinascita. L'intento era di celebrare e testimoniare l'evolversi della ricostruzione della città, attraverso dei fotomontaggi, e delle didascalie che alcune così recitavano: «Mentre i nostri soldati cadevano nell'agguato di Ponte S. Luigi», «.e le artigliere francesi di Capo Martino battevano la ridente città». La didascalia «Il Duce visitando Mentone dispone la sua immediata ricostruzione» era apposta sopra di un fotomontaggio che includeva, ed accostava, la cartina della città ad una fotografia di Mussolini, intento a carezzare e salutare delle donne e dei bambini del luogo. Le altre pagine intendevano celebrare la ricostituzione dei servizi pubblici e dell'ordine, autorità, giustizia. Vedi Mignemi A., La seconda guerra mondiale. 1940-1945, pag.52-57.

[iv] Le fotografie dei danni subiti dal forte furono realizzate dai soldati della 515° batteria GAF. Vedi Mignemi A., La seconda guerra mondiale, pag.84.

[v] Sulla fascia della corona vi era scritto: « Les troupes de Briançon aux soldats italiens morts pour leur pays », giugno 1940. Vedi Mignemi A., La seconda guerra mondiale, pag.85.

[vi] L'aereo su cui volava Italo Balbo era stato abbattuto per errore dalla contraerea italiana, mentre sorvolava nel cielo sopra Tobruk, il 28 giugno 1940.

[vii] L'intenzione di Mussolini era di condurre appunto una guerra parallela a quella tedesca, che desse all'Italia una sua sfera d'influenza ben precisa nel futuro nuovo assetto mondiale. La seconda guerra mondiale, pag.85.

[viii] La fotografia, con conseguente didascalia, fu pubblicata dal Tempo, il 7 novembre 1940, n.76. Il 1 giugno 1939 uscì il primo numero del Tempo, edito da Arnaldo Mondadori. Il settimanale cercava di delegare alla fotografia la descrizione dei fatti, lasciando alla parte scritta un carattere quasi secondario. Inizialmente esso si ispirò al modello di Life, e tale eventuale somiglianza lo fece accusare di esterofilia da parte del giornale il Tevere di Interlandi.

[ix] Vedi ACS, MCP, Gabinetto, b.49, f. Rapporto ai giornalisti 29-10-XIX, sf.313.23.

[x] Disposizione telefonica del 12 febbraio 1941, conservata in ACS, MCP, Gabinetto, b.50, f. 12-2-XIX, 314.3.

[xi] Disposizione del 16 gennaio 1941, riportata in Matteini C., Ordini alla stampa, pag.136 e in Mignemi A., L'Italia s'è desta, pag.69.

[xii] Rapporto del 15 febbraio 1941, conservato in ACS, MCP, Gabinetto, b.51, f.315.7, sf. 13.

[xiii] La polemica ebbe anche alcuni strascichi, e Filippini, dopo essere stato ricevuto dal Ministro del Minculpop, ha raccontato che Pavolini chiuse l'argomento «battendo un pugno sul tavolo e dicendomi che in questo Paese la verità non si dice». Vedi Laura E.G., Le stagioni dell'Aquila, pag.190.

[xiv] Nel marzo del 1941 il Luce disponeva di 14 fotografi di guerra, così dislocati: 4 in Albania, 2 in Africa Settentrionale e 1 in A.O.I, 3 presso basi navali o a bordo di unità da guerra, 2 presso basi aeree, 2 infine impiegati per compiti speciali, con il compito di fotografare la preparazione della guerra nei suoi più multiformi aspetti. Per quanto riguarda la produzione, si attestavano a tale data la quantità di 12.700 negativi prodotti e catalogati. Vedi Fotografi di guerra, in Cinema, n.114, 25 marzo 1941, pag.190.

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