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Pensiero filosofico leopardiano




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Pensiero filosofico leopardiano


Nell'ottocento, il pensiero filosofico di Leopardi non poteva essere accettato dall'idealismo e dal positivismo, in quanto egli non era favorevole al progresso. Oggi, invece, si corre il rischio di esaltarlo come pensatore non sistematico e privo d'ideologia. Leopardi, infatti, manca di sistematicità nel suo metodo di indagine, poiché egli non pensa in quanto filosofo, ma come essere umano e sociale. Questi due criteri, il primo esistenziale e il secondo sociale, sono la rispondenza alle esigenze profonde dell'individuo e ai caratteri della condizione umana. Si evince da ciò il suo interesse per la storia intesa come modo di pensare e per le culture dei primitivi.






La prima riflessione filosofica è sul tema dell'infelicità umana (illuminismo settecentesco). Essa non dipende dalla Natura che è considerata entità positiva, giacché produce generose illusioni che rendono l'uomo capace di virtù e grandezza. La civiltà, però ha distrutto le illusioni che proteggevano l'uomo e lo ha abbandonato ad un'infelicità consapevole ed insopportabile. Questa è la fase del Pessimismo storico. Leopardi, in essa, infatti, giudica l'Italia del suo tempo come un caso limite di allontanamento dalle illusioni antiche. Solo l'azione e l'eroismo sono i rimedi contro la decadenza dei moderni.




Nella seconda fase, Leopardi si allontana dal cattolicesimo per abbracciare il sensismo illuministico (le idee dipendono dalle sensazioni ed il comportamento umano è orientato al procacciamento dell'utile). Egli approfondisce il suo punto di vista materialistico ispirato al meccanicismo settecentesco. Respinge quindi gli elementi spirituali e sostiene che il corpo è l'uomo che pensa, cioè il corpo è materia pensante. Questo sensismo porta alla causa dell'infelicità indicata nel rapporto tra il bisogno dell'uomo di essere felice e la possibilità di soddisfare tale bisogno. Nasce così la teoria del piacere: l'uomo aspira al piacere, ma una volta raggiunto, ne cerca un altro, perché non è mai soddisfatto di quello che ha conseguito. L'umanità, così, si trova in un circolo "vizioso", provocato dalle illusioni prodotte dalla Natura, dal quale non può più uscire. La responsabilità dell'infelicità umana, dunque, ricade per intero sulla Natura che determina la tendenza umana al piacere non soddisfabile. Non è più, quindi, la condizione storica ad essere la causa dell'infelicità, ma la condizione esistenziale dell'uomo (Pessimismo cosmico). La vita è orientata solo per perpetuare l'esistenza senza che il piacere degli individui venga preso mai in considerazione. La civiltà ora non è intesa più negativamente ma ha anche un aspetto positivo, quello di aver svelato la Verità all'uomo che ha così recuperato, se non la felicità, la dignità della coscienza.




Nella terza fase Leopardi scoprì, dopo alcune ricerche, che l'infelicità esisteva anche fra gli antichi. La sua riflessione raggiunse quindi l'atarassia, in altre parole una saggezza distaccata e scettica. Questo distacco era dovuto dal suo nuovo giudizio sulla civiltà, al quale era giunto grazie al contatto con l'ambiente liberale moderato dei cattolici fiorentini. In quest'ultima fase l'esigenza dell'impegno civile e la proposta di una nuova funzione intellettuale sono, per lui, i bisogni della civiltà. Infatti il suicidio costituisce un errore, perché provoca dolore ai superstiti; quindi, lo sforzo degli essere umani deve essere rivolto a soccorrersi scambievolmente (sentimento della fraternità sociale).  Gli uomini, così, consapevoli del male comune, la Natura, devono allearsi per ridurre il più possibile il loro dolore e accrescere la felicità consentita. Sta qui la democraticità del pensiero leopardiano.


La "Ginestra"


In Leopardi l'eruzione vulcanica viene trasfigurata e presa come simbolo dell'ostilità della Natura. "La ginestra, o il fiore del deserto" contiene proprio quest'estremo messaggio di riflessione. Il Poeta invita a prendere atto dell'infelicità degli uomini così da stabilire un rapporto di solidarietà fra tutti i componenti del genere umano, che devono allearsi contro la vera nemica: la Natura. Questo canto è considerato il suo testamento ideale.




Composto da 317 versi endecasillabi esso si divide in sette strofe dalle tematiche diverse. Nella prima, la descrizione del devastante Vesuvio smentisce la concezione ottimistica e la fiducia nel progresso porta Leopardi nella seconda e terza parte dell'opera a criticare le scelte filosofiche degli ultimi decenni. Nella quarta strofa la descrizione dell'universo e della sua immensità mette in luce la piccolezza e la marginalità dell'uomo nel cosmo, rendendo assurdo l'interazione del divino con l'umano. Nella quinta, invece, il Poeta, tramite un esempio, giunge alla conclusione che la Natura non considera l'uomo diverso dalle altre forme di vita, mentre nella sesta strofa è evidente la visione della Natura che non si cura dei regni degli uomini e li fa cadere togliendo ad essi l'illusione dell'eternità. Nell'ultima strofa "la ginestra" abbandonata al suo destino, attende sulle pendici del vulcano la distruzione immanente, ma senza viltà e superbia, meno folle quindi dell'uomo che si crede immortale.


Nella sintassi si nota un prevalere di periodi lunghi, ricchi di subordinate; nello stile riscontriamo, infatti, una musicalità "sinfonica", com'è definita dal Binni, il quale sostiene che vi sono linee musicali che s'intrecciano con vari temi e ritmi. Il linguaggio ricercato traspare dall'uso continuo di latinismi ("d'oste contraria", vv. 139), figure retoriche (allitterazioni, ossimori, antifrastiche, chiasmi, metonimie, metafore e similitudini) e citazioni di autori classici ( "libertà vai sognando", vv. 72, ripreso da Dante) In tutto il canto la presenza del Poeta è riscontrata in numerosi passi: avverbi di tempo e di luogo o pronomi dimostrativi con funzione deittica ("qui, or, questo") e alcune affermazioni dirette ("il tuo stato quaggiù, di cui fa segno/ il suol ch'io premo", vv. 186-187), sono spie linguistiche. Infine ne "La ginestra" sono presenti inviti rivolti al lettore a verificare di persona le affermazioni del Poeta ("A queste piagge / venga colui./ e vegga...", vv. 37-39).


La tecnica dell'ironia è usata da Leopardi in alcuni punti del canto per deridere quegli uomini che guardano alla natura positivamente. Inoltre, in esso, egli tenta un nuovo metodo di ragionamento riconducibile alle procedure dell'allegoria moderna: a partire da descrizioni fondate sull'esperienza, si giunge alla costruzione del significato dell'esistenza della vita e della civiltà. La realtà esprime sofferenza, infatti, ha valore tutto ciò che l'uomo fa per ridurre questo male ed è un errore negare questa realtà e cercare consolazioni spiritualistiche. Il versetto evangelico posto in epigrafe allude, infatti, proprio alla difficoltà con cui la verità si fa largo tra gli uomini, i quali preferiscono illudersi di cose false e consolatorie piuttosto che prendere coscienza di cose vere ma dolorose. Il versetto evangelico posto in epigrafe allude, infatti, proprio alla difficoltà con cui la verità si fa largo tra gli uomini, i quali preferiscono illudersi di cose false e consolatorie, piuttosto che prendere coscienza di cose vere ma dolorose. Dalla condanna della natura come rea il Leopardi arriva alla nuova fede umanitaria. L'uomo lotta contro essa (pessimismo virile) e si unisce agli uomini in un patto sociale poiché la "social catena" fu appunto stretta contro "l'empia natura". La politica cui il Poeta approda è quella di un'umanità universalmente associata per il soggiogamento della natura a vantaggio comune.

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