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La società alienata in Marx e Pirandello




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La società alienata in Marx e Pirandello


Introduzione


La scelta del percorso tematico è stata dura, varie possibilità mi sono state presentate, e tra le tante ho optato per l'analisi della condizione alienata in cui si trova l'uomo in seguito all'introduzione delle macchine e alla loro crescente diffusione e importanza nella società. Le ragioni di questa scelta vanno ricercate nel mio personale desiderio di cogliere le radici di tale fenomeno, per comprendere più adeguatamente la situazione odierna, che porta ancora in sé i segni della strumentalizzazione operata dalle macchine sugli uomini. Per la vastità dell'argomento si è posta la necessità di restringere il campo di indagine, che è stato limitato all'analisi del concetto di alienazione nei 'Quaderni di Serafino Gubbio operatore' di Pirandello, messi a confronto con le analoghe tesi riscontrabili nel pensiero di Marx. L'accostamento tra questi due autori così diversi mi è stato suggerito dal comune denominatore della macchina e dalla fecondità derivante dalla differenza di prospettiva e di impostazione. La categoria dell'alienazione, esaminata da Marx nelle sue componenti storico-economiche ed espressa in termini concettuali, diviene nel romanzo pirandelliano figura vivente, incarnandosi in un uomo, Serafino Gubbio, ridotto dalla sua professione ad essere 'una mano che gira una manovella' mentre sotto i suoi occhi, 'intenti e silenziosi', si muove lo spettacolo fantasmagorico di un'umanità frastornata dalla vertigine della velocità. Nel mio lavoro partirò proprio dalla presentazione del romanzo, individuandone le tematiche più significative, e collocandole nel più ampio contesto del pensiero pirandelliano. Nel secondo capitolo presenterò invece alcune linee fondamentali del pensiero di Marx sottolineandone la convergenza con le corrispondenti problematiche presenti in Pirandello. Questo per individuare, al di là delle differenze e della lontananza temporale, una chiave di interpretazione della realtà di oggi, in cui il dominio alienante della macchina si ripropone con modalità diverse ma ugualmente insidiose riscontrabili nelle nuove tecnologie, come i computer, la televisione ecc., che portano, come affermavano Marx e Pirandello, alla perdita dell'anima e della propria identità, risucchiata da una macchina che è stata inventata dall'uomo stesso.


Pirandello


Cenni biografici


Luigi Pirandello nasce ad Agrigento (l'antica colonia greca di Akragas che si chiamerà Girgenti fino al 1927) in una tenuta paterna detta 'il Caos', da Stefano Pirandello, garibaldino durante la spedizione dei Mille, e da Caterina Ricci-Gramitto, sposata nel 1863, sorella di un suo compagno d'armi, di famiglia tradizionalmente antiborbonica (questo dato autobiografico sarà importante durante la stesura del romanzo I vecchi e i giovani. Frequentata la scuola nella città natale fino al secondo anno presso l'Istituto Tecnico, dal 1880 lo troviamo a Palermo dove frequenta gli studi liceali e dove la famiglia si era trasferita dopo un dissesto finanziario. Conseguita la licenza liceale si iscrive contemporaneamente sia alla Facoltà di Legge che a quella di Lettere dell'Università di Palermo e nel 1887 si trasferisce alla Facoltà di Lettere dell'Università di Roma, dalla quale è costretto, dopo un diverbio con il preside della Facoltà e docente di Latino Onorato Occioni, ad allontanarsi. Si iscrive, allora, all'Università di Bonn dove si reca con una lettera di presentazione del Professore di filologia romanza Ernesto Monaci. A Bonn all'inizio del mese di gennaio 1890, conosce a una festa da ballo in maschera Jenny Schulz-Lander, alla quale dedica il suo secondo volume di poesie, dal titolo Pasqua di Gea, una ragazza ('una delle bellezze più luminose che io mi abbia mai visto', scrive alla sorella Lina) di cui si innamora e che rivestirà una parte importante nella sua vita anche sul piano spirituale, in quanto gli rimarrà per sempre dentro l'amarezza di un amore non realizzato, l'unico vero della sua giovinezza. Si laurea nel 1891 con una tesi su Suoni e sviluppi di suono della parlata di Girgenti. Nello stesso anno rientra in Italia e si stabilisce a Roma con un assegno mensile ottenuto dal padre. Nel 1894 sposa Maria Antonietta Portolano, figlia di un socio del padre, e l'anno seguente nasce il primo figlio, Stefano. Dopo le prime opere di poesia, scritte in Germania, a Roma comincia a collaborare a giornali e riviste con articoli e brevi studi critici e nel 1897 accetta l'insegnamento presso l'Istituto Superiore di Magistero femminile di Roma. Nel 1897 e nel 1899 gli nascono i figli Rosalia (Lietta) e Fausto. Il 1893 è un anno particolarmente difficile, perché un allagamento nella miniera di zolfo del padre, nella quale aveva investito la dote patrimoniale della moglie, provoca il dissesto finanziario suo e del padre insieme ai primi segni della malattia mentale della moglie, che si aggraverà sempre di più fino ad essere ricoverata in ospedale. Nel 1901 pubblica il romanzo L'esclusa (scritto nel 1893) e nel 1902 Il turno; nel 1904 ottiene il primo vero successo con Il fu Mattia Pascal. Nel 1908 diventa ordinario dell'Istituto superiore di Magistero, risolvendo in parte i suoi problemi economici, e pubblica due importanti saggi: L'umorismo e Arte e Scienza, che scateneranno un contrasto molto vivace con Benedetto Croce che si protrarrà per molti anni. Nel 1909 pubblica il romanzo I vecchi e i giovani e l'anno seguente rappresenta i suoi primi lavori teatrali: La morsa e Lumie di Sicilia.. Nel frattempo continua a scrivere e pubblicare novelle che assumeranno il titolo generale di Novelle per un anno. Il 1915 è uno degli anni più tristi della vita di Pirandello sia per l'entrata in guerra dell'Italia e per il figlio Stefano che parte volontario per il fronte, dove abbastanza presto verrà fatto prigioniero, sia per la morte della madre, verso la quale nutriva un sentimento non solo di amore filiale, ma anche di partecipazione ai suoi intimi segreti dolori, causati da un carattere troppo 'vivace' del marito. Col 1916 comincia la vera stagione teatrale pirandelliana con Pensaci, Giacomino!, Liolà e La ragione degli altri, alle quali seguiranno Così è, se vi pare (1917), Il berretto a sonagli, Il piacere dell'onestà, La patente, Il giuoco delle parti, Ma non è una cosa seria, Tutto per bene, La Signora Morli uno e due, fino ai Sei personaggi in cerca d'autore, del 1921, opera rappresentata da Dario Niccodemi, scatenando violenti contrasti nel pubblico alla prima ma altrettanti consensi già dalla seconda messa in scena, Enrico IV del 1922, Vestire gli ignudi (1922), Ciascuno a suo modo (1924), ecc. Nel 1926 pubblica l'ultimo romanzo, Uno nessuno centomila e fonda a Roma, insieme al figlio Stefano, Orio Vergani e Massimo Bontempelli il Teatro d'arte, nel quale debutterà Marta Abba, giovanissima interprete che diverrà musa ispiratrice di alcune commedie, scritte appositamente per lei, con la quale Pirandello stabilirà un rapporto d'affetti che durerà per tutta la vita. Nel 1934 riceve a Stoccolma il premio Nobel per la Letteratura. Muore nel 1936, il 10 dicembre e le sue ceneri verranno tumulate in una roccia nella tenuta del Caos nella quale era nato 68 anni prima, con funerali strettamente privati, come aveva scritto nelle sue ultime volontà.


Il romanzo e il suo contesto storico


I quaderni di Serafino Gubbio operatore sono in numero di sette e scandiscono le pagine di un diario immaginario, scritto a cose già avvenute. Chi scrive è un operatore cinematografico, Serafino Gubbio, soprannominato Si gira, il quale vuole vendicarsi delle macchine che lo hanno ridotto a una mano che gira una manovella, scrivendo, dal suo punto di vista, le vicende della troupe impegnata nella produzione di un film per la casa cinematografica Kosmograph. Il racconto, in prima persona, si apre con l'arrivo a Roma di Serafino, ospite la prima notte di uno strano tipo di filosofo, Simone Pau, in un ospizio di mendicità. Sono memorie che seguono il percorso di un individuo vittima della macchina da presa, mentre prende coscienza della sua alienazione. Della troupe fanno parte l'attrice Varia Nestoroff, figura esemplare delle nuove dive dello schermo, il regista Nino Polacco, amico intimo di Serafino, e altri attori ed addetti. L'incontro con la Nestoroff riporta alla mente di Serafino momenti del passato: è una donna fatale che ha tragicamente sconvolto la vita felice di due giovani, Giorgio Mirelli, morto suicida, e la sorella Duccella, da lui conosciuti nella paradisiaca 'casa dei nonni' vicino a Sorrento. Un'altra vittima è Aldo Nuti, che aveva abbandonato la fidanzata Duccella per seguire la diva. Una storia che si complica nella tragedia finale, raccontata nel settimo quaderno: il film sta per essere terminato, si sta preparando la scena finale dell'uccisione della tigre, feroce e innocente incarnazione della natura. Nella gabbia, dentro la quale è stata ricostruita la giungla, vengono fatti entrare Nuti e Gubbio, l'uno con il fucile, l'altro con la macchina da presa. Attori e tecnici assistono alla scena finale attorno alla gabbia: appena entra la tigre, 'si gira'. Ma ecco che accade l'imprevisto che trasforma la scena di finzione in scena reale: Nuti, anziché colpire la tigre, volge l'arma contro la Nestoroff che sta assistendo alla scena e la uccide, mentre la tigre si avventa su di lui e lentamente lo sbrana. È qui il punto centrale del romanzo: Serafino è talmente alienato dalla macchina che, impassibile come un automa, continua a girare la scena, in una sorta di raggelante identificazione con la macchina. Il sesto romanzo pirandelliano nasce alla vigilia della prima guerra mondiale, nel 1914 e viene pubblicato per la prima volta su di una rivista letteraria, 'Nuova Antologia', e poi in un volume nel 1916 con il titolo 'Si Gira'; successivamente, nel 1925, riveduto e corretto appare con un nuovo titolo: 'I quaderni di Serafino Gubbio operatore'. Sono gli anni del Futurismo, che al netto rifiuto della tradizione univa l'esaltazione della vita moderna e dei suoi aspetti più caratteristici: la velocità, le macchine, le nuove metropoli e i complessi industriali. Tali principi vennero elaborati per la prima volta dal poeta italiano Filippo Tommaso Marinetti, che nel Manifesto del futurismo del 1909 sostituiva alla vittoria di Samotracia, quale nuovo ideale estetico, l'immagine della 'automobile in corsa con il suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo' mentre, nel 1912 il Manifesto tecnico della letteratura futurista, redatto da Boccioni, Balla, Russolo, Carrà e Severini, era dettato a Marinetti dall'elica turbinante di un aeroplano. Nell'ambito della situazione politica, culturale ed economica italiana, il futurismo rappresenta quindi la fase più clamorosa della subordinazione della letteratura all'industria capitalista, l'esito estremo delle correnti letterarie spiritualistiche, nazionaliste che presupponevano la negazione dei valori umani: valori che non l'industrializzazione in sé svalorizza ma l'industrializzazione capitalista. La negazione del passato della storia, l'odio contro ogni forma espressiva tradizionale, il disprezzo della bellezza classica a vantaggio di una nuova bellezza meccanica, sono gli elementi mediante i quali i futuristi intendono negare all'arte ogni diritto di rappresentare l'uomo nelle sue reali aspirazioni individuali e sociali. Il mito della macchina, del progresso meccanico, rappresenta la costante di una letteratura incapace di osservare realisticamente questo progresso nel quadro generale del progresso sociale. Il tema delle fabbriche, delle macchine, dell'elettricità è certamente uno dei prediletti dei futuristi, ma non si tratta solo di una scelta di contenuti: i futuristi affermano, e realizzano, l'antropomorfizzazione della macchina, la vedono in sembianze e le attribuiscono sentimenti umani: la mitragliatrice è paragonata ad una bella donna, poi ad un tribuno, quindi ad un trapano, a un laminatoio, a un tornio elettrico, a un cannello ossidrico. Ma, d'altra parte, nel futurismo è anche l'uomo a trasformarsi in macchina, sono i suoi sentimenti ad essere espressi con termini presi dalla fraseologia dell'industria: l'uomo ansima come dynamo, i nervi sono paragonati a cavi dell'alta tensione, l'anima grida come un cuore d'acciaio, si protende come un elemento di macchina. Nella struttura e nelle proporzioni del racconto futurista il funzionamento meccanico della nuova civiltà non deve venire intralciato dall'elemento umano; l'uomo non sarà che una rotella nel gigantesco corpo della macchina. E' il ripudio del neoclassico a favore del moderno. Pirandello invece nutre per le macchine una profonda diffidenza. È proprio sulla insistita polemica vita/macchina che si aprono i Quaderni di Serafino, ridotto dalla sua professione ad essere esclusivamente 'una mano che gira una manovella'. L'alienazione di un uomo depauperato di vita e di creatività nel farsi servitore di macchinari è il nucleo intorno a cui ruotano le riflessioni di questo io narrante, più interessato a seguire il suo filo teorico/meditativo che a raccontarci la storia di amore e morte presa a pretesto di narrazione. Siamo, con la prima edizione del romanzo, nel 1915: le macchine che incombono nella nostra vita sono quelle belliche, in una atmosfera pervasa da fremiti futuristi. Il presagio di Pirandello è quello di una Terra devastata dalla follia distruttiva dell'uomo/macchina e ancor di più, il presentimento che, forse, proprio questo esito apocalittico possa essere l'unica via rigeneratrice dell'essere uomo: 'mi domando se veramente tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita, che di giorno in giorno sempre più si complica e s'accelera, non abbia ridotto l'umanità in tale stato di follia, che presto proromperà frenetica a sconvolgere e a distruggere tutto. Sarebbe forse, in fin dei conti, tanto di guadagnato. Non peraltro, badiamo: per fare una volta tanto punto e a capo'.


Il vertiginoso meccanismo della vita


Le esagerazioni futuriste, se da un lato dimostravano l'assurdità di un riconoscimento entusiastico del progresso industriale dentro una concezione statica anziché dinamica della società, dall'altro attestavano che il mondo meccanizzato non era riducibile a un semplice 'contenuto' narrativo o poetico da potersi accettare o scartare a seconda degli interessi dello scrittore, ma una componente essenziale del mondo contemporaneo di fronte alla quale più non reggevano i tradizionali criteri di rappresentazione della realtà. La rivoluzione del linguaggio operata dal futurismo testimonia che lo scrittore è ormai cosciente di vivere in una società che l'industrialismo ha trasformato profondamente. Il tema delle macchine, della velocità, del movimento, tanto caro ai futuristi, diviene quindi, in Pirandello, oggetto di riflessione critica dinanzi al progressivo affermarsi, nella società, di tendenze spersonalizzanti legate all'espandersi della grande industria, nonché al diffondersi delle macchine, che meccanizzano l'esistenza dell'uomo e riducono il singolo a insignificante rotella di un gigantesco meccanismo, privo di relazioni e privo di coscienza. Un primo effetto di questa spersonalizzante situazione è il mito della velocità, che cresce in tutti gli uomini attirati dalla macchina. All'inizio del terzo quaderno viene presentata un'immagine emblematica: la macchina occupata da tre attrici della Kosmograph che ad alta velocità sorpassa la carrozzella con a bordo Serafino: 'Le tre signorine dell'automobile ridono, si voltano, alzano le braccia a salutare con molta vivacità, tra un confuso e gajo svolazzìo di veli variopinti; e la povera carrozzella, avvolta in una nuvola alida, nauseante, di fumo e di polvere, per quanto il cavalluccio sfiancato si sforzi di tirarla col suo trotterello stracco, seguita a dare indietro, indietro, con le case, gli alberi, i rari passanti, finché non scompare in fondo al lungo viale fuor di porta' . È l'indicazione del mutamento prospettico indotto nell'uomo dalla velocità: le tre donne, ridendo, salutano Serafino, non perché osserva acutamente Pirandello nella carrozzella ci sia qualcuno molto caro a loro; ma perché l'automobile, il meccanismo le inebria e suscita in loro una così sfrenata vivacità. Sembrano quasi prendersi giuoco della carrozzella che, lenta avanza pian pianino, rimasta 'indietro comicamente in fondo al viale, fino a scomparire dalla loro vista.' In realtà, in una visione temporale non distorta della vertigine della macchina, non la carrozzella, ma l'automobile è scomparsa: Serafino eccolo là a bordo del suo veicolo. Egli può ammirare 'a uno a uno, riposatamente, questi grandi platani verdi del viale, non strappati dalla vostra furia, ma ben piantati qua, che volgono a un soffio d'aria nell'oro del sole tra i bigi rami un fresco d'ombra violacea: giganti della strada, in fila, tanti, aprono e reggono con poderose braccia le immense corone palpitanti al cielo' . Tale riposata visione della natura non è data alle signorine dell'automobile, le quali possono solo godere di questa e consimili sensazioni di leggiadra vertigine. È il contrasto tra la visione meccanizzata della vita, introdotta dalla seconda rivoluzione industriale, e una concezione più attenta alla situazione umana dei sentimenti. È quella meccanicità che ci porta a vivere caoticamente la nostra esistenza, con il rischio di arrivare alla perdita dei contatti con il nostro essere: 'conosco anche io il congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita che fragorosamente e vertiginosamente ci affaccenda senza requie. Oggi così e così; questo e quest' altro da fare; correre qua, con l'orologio alla mano, per essere in tempo là. Nessuno ha tempo o modo d'arrestarsi un momento a considerare, se quel che vede far agli altri, quel che lui stesso fa, sia veramente ciò che sopra tutto gli convenga, ciò che gli possa dare quella certezza vera, nella quale solamente potrebbe trovar riposo. Il riposo che ci è dato dopo tanto fragore e tanto stordimento, che non ci è più possibile raccoglierci un minuto a pensare'. Secondo Pirandello è la velocità a procurare nello spirito umano un'ansia acuta, che ha la capacità di impadronirsi della nostra mente, causando l'allontanamento dalla vita sociale dell'uomo alienato dalla macchina: ' si va, si vola, e il vento della corsa dà un'ansia vigile ilare e acuta, e si porta via tutti i pensieri. Avanti! Avanti perché non s'abbia tempo ne modo di avvertire il peso della tristezza, l'avvilimento della vergogna, che restano dentro, in fondo. Fuori, è un balenio continuo, uno sbarbaglio incessante: tutto guizza e scompare. Che cosa è? Niente, è passato! Era forse una cosa triste; ma niente, ora è passata. C'è una molestia, però, che non passa, simile a un calabrone che ronza sempre, sembra quasi confondersi con lo striscio continuo della carrucola lungo il filo dei tram elettrici. Il battito del cuore non si avverte, non si avverte il pulsare delle arterie. Guai, se si avvertisse! Ma questo ronzio, questo ticchettio perpetuo della cinepresa, sì, e dice che non è naturale tutta questa furia turbinosa, tutto questo guizzare e scomparire d'immagine; ma che c'è sotto un meccanismo, il quale pare lo insegua stridendo precipitosamente. Ah non bisogna farci l'udito. Darebbe una smania di punto in punto crescente, un'esasperazione a lungo insopportabile; farebbe impazzire. In nulla, più, in mezzo a questo tramenio vertiginoso, che investe e travolge, bisognerebbe fissarsi. Cogliere, attimo per attimo, questo rapido passaggio d'aspetti e di casi, e via, fino al punto che il ronzio per ciascuno di noi non cesserà'.


Il rapporto con la macchina: un'identificazione alienante


L'uomo, ormai schiavo della macchina, appare alienato da se stesso, incapace di esprimere il proprio mondo interiore. 'L'uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, s'è messo a fabbricar di ferro, d'acciaio le sue nuove divinità ed è diventato servo e schiave di esse' . Le macchine succhiano le anime e si nutrono con quelle: 'la macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno di ingojarsi la nostra anima, di divorare la nostra vita'; le macchine che egli ha creato aspettano voraci che l'uomo le sazi: ma 'per la loro fame, nella fretta incalzante di saziarle, che pasto potete estrarre da voi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto?' Questi mostri che dovevano rimanere strumenti sono diventati invece, per forza, i nostri padroni, e le macchine dopo aver ingoiato la nostra vita, ce la restituiscono in produzione centuplicata e continua: in pezzetti e bocconcini, tutti d'uno stampo, stupidi e precisi, da farne, a metterli su, uno su l'altro, una piramide che non arriverebbe neppure all'altezza d'un palo telegrafico. Un mucchio di scatole, scatolette, scatolone scatoline che un soffio basta per abbattere e rotolare giù rendendole solo ingombro inutile per i nostri piedi che vi inciampano' . Ecco le produzioni dell'anima nostra, le scatolette della nostra vita. Può venir fuori anche 'un bel prodotto e un bel divertimento' ma è una vita in scatola meccanizzata, senza anima: l'anima è stata data in pasto alla macchina. Il romanzo dà la netta sensazione di una crisi interiore; Serafino descrive il conflitto causatogli dall'accettare il ruolo di un automa che deve solamente girare la manovella della cinepresa: 'L'anima a me non mi serve. Mi serve la mano; cioè serve alla macchinetta' . Con sottile ironia Pirandello sottolinea la progressiva spersonalizzazione di Gubbio così come il suo asservimento alla macchina, nella fattispecie la cinepresa. E analogamente, con umorismo amaro osserva: ' Sono operatore. Ma veramente, essere operatore, nel mondo in cui vivo e di cui vivo, non vuol dire mica dire operare. Io non opero nulla'. Altri tracciano sul tappeto o sulla piattaforma i limiti entro i quali gli attori debbono muoversi per tenere in fuoco la scena, egli non fa altro che prestare i suoi occhi alla macchinetta perché possa indicare fin dove arriva a prendere. Apparecchiata la scena, il direttore vi dispone gli attori e suggerisce loro l'azione da svolgere, dicendo approssimativamente il numero di metri di pellicola che abbisognano, poi grida agli attori: attenti, si gira! E Serafino si mette a girare la manovella, semplice esecutore di ordini che altri hanno dato. Al termine, deve solo indicare quanti metri di pellicola sono stati impiegati. Per fare questo, non occorre aver un'anima; la qualità principale che gli si richiede come operatore è di arrivare ad essere un serio professionista in grado di rimanere impassibile davanti alla vita che lo circonda, puro ingranaggio meccanico, la cui perfezione, in quanto tale, consiste nel raggiungere un totale stato di impassibilità: girando la manovella non può odiare né amare la Nestoroff, come non può odiare né amare nessuno. Solo alla fine, quando il supplizio d'esser soltanto una mano finisce, egli può riacquistare tutto il suo corpo e riabbandonarsi a quello sciagurato superfluo che è pure in lui e di cui per quasi tutto il giorno la sua professione lo condanna ad esser privo. Quel superfluo che di continuo tormenta inutilmente gli uomini, non facendoli mai paghi di nessuna condizione e sempre lascandoli incerti del loro destino. E tuttavia, sotto la sua maschera di apparente impassibilità, Serafino appare un essere sensibile, mai capace di reprimere completamente le sue emozioni. Come di fronte alla signorina Luisetta, quando, egli sente affiorare in sé dei sentimenti 'non necessari' che non gli si addicono in quanto 'cosa' ma che, per un momento, valgono a fargli godere della sua ingenuità, del piacere che le cagionava il vento della corsa, mentre gli occhi di Serafino brillavano nel contemplarla. La totale identificazione con la macchina emerge chiaramente dalle parole di Serafino che afferma 'assumo subito, con essa in mano, la mia maschera di impassibilità. Anzi ecco: non sono più. Cammina lei, adesso, con le mie gambe. Da capo a piedi, son cosa sua: faccio parte del suo congegno. La mia testa è qua, nella macchinetta, e me la porto in mano.' Gubbio scompone la propria figura umana in pezzi confusi e sovrapposti a quelli della macchinetta, arrivando ad affermare che lui non ha più un'anima, perché non gli serve per girare una manovella. Come Serafino è ridotto a 'una mano che gira una manovella' così questa umanità anonima e senza volto, divenuta serva delle macchine, coincide tutta ed unicamente con le mani funzionali al lavoro. È l'immagine che si staglia davanti agli occhi di Serafino e del lettore, nel momento in cui si mette piede nel reparto Artistico o del Negativo, dove si compie misteriosamente l'opera delle macchine, ' quanto di vita le macchine hanno mangiato con la voracità delle bestie afflitte da un verme solitario, si rovescia qua, nelle ampie stanze sotterranee, stenebrate appena da cupe lanterne rosse, che alluciano sinistramente d'una lieve tinta sanguinea le enormi bacinelle preparate per il bagno. La vita ingoiata dalle macchine è li, in quei vermi solitari, dico nelle pellicole già avvolte nei telai. Bisogna fissare questa vita, che non è più vita, perché un'altra macchina possa ridarle movimento qui in tanti attimi sospeso. Siamo come in un ventre, nel quale si stia sviluppando e formando una mostruosa gestazione meccanica. E quante mani nell'ombra vi lavorano! C'è qui un intero esercito d'uomini e di donne: operatori, tecnici, custodi, addetti alle dinamo e agli altri macchinari, ai prosciugatori, all'imbibizione, ai viraggi, alla coloritura, alla perforatura della pellicola, alla legatura dei pezzi. Basta che io entri qui, in questa oscurità appestata dal fiato delle macchine, dalle esalazioni delle sostanze chimiche, perché tutto il mio superfluo svapori. Mani, non vedo altro che mani, in quelle camere oscure; mani affaccendate su le bacinelle; mani, cui il tetro lucore delle lanterne rosse dà una apparenza spettrale. Penso che queste mani appartengano a uomini che non sono più; che qui sono condannati ad essere mani soltanto: queste mani, strumenti. Hanno un cuore? A che serve? Qua non serve. Solo come strumento anche esso di macchina, può servire, per muovere queste mani. E così la testa: solo per pensare ciò che a queste mani può servire. E a poco a poco m'invade tutto l'orrore della necessità che mi s'impone, di diventare anch'io una mano e nient 'altro' . Gubbio subisce dunque un dramma senza alcuna possibile soluzione, intrappolato com'è fra due modi di vita: quello sentimentale e quello meccanico. Simbolo della sorte miserabile a cui il continuo progresso condanna l'umanità appare un vecchio violinista, incontrato la prima volta da Serafino in un ospizio di mendicità. Erede di una tipografia ben avviata la trascurò fino a ridursi sul lastrico, preso da un'unica passione: il violino. Malgrado i suoi tentativi di sottrarsi alla tirannia delle macchine, il violinista fu ripetutamente costretto ad accettare umili lavori, come quello di alimentare con forme di piombo le macchine da stampa monotype, in modo da ottenere i soldi per riscattare il suo prezioso strumento dal banco dei pegni. La tragedia esplode quando una compagnia cinematografica assume il vagabondo per accompagnare una pianola con il suo violino. La richiesta di asservire il suo talento artistico al ritmo automatico di una macchina lo fa infuriare a tal punto da causargli un accesso di ira cieca che gli procura due settimane di prigione. Rilasciato il vagabondo smette di suonare il suo violino. L'episodio serve da paragone al destino di degradazione provocato da una macchina che il protagonista subisce come operatore. Il violinista entrerà ancora nella vita di Gubbio quando gli verrà proposto di suonare per una tigre che doveva comparire in un film. Alla vista del superbo animale rinchiuso in una gabbia, vittima anch'esso dell'era industriale, il vecchio accetterà di suonare per l'ultima volta. Poco dopo il vecchi violinista muore, raggiungendo così l'unica liberazione che gli era rimasta, il solo tipo di libertà possibile in un mondo in cui tutti i valori umanistici hanno ceduto il posto alle macchine che divorano l'anima.


La cinepresa come gioco di illusione


Di questo rapporto alienante, uomo-macchina, diventa immagine metaforica la cinepresa. Attraverso di essa Serafino ha l'importante compito di filmare la vanità della vita, la quale assomiglia sempre più ad un film in cui ciascuno interpreta un ruolo sciocco ed insignificante. La cinepresa isola gli attori dalla vita concreta, dal rapporto vivo con il pubblico, che il teatro offriva prima loro, e i fotogrammi che la cinepresa riprende, ritraggono immagini staccate, senza alcun significato. L'ostilità che gli attori nutrono per Gubbio è dovuta alla sottrazione vitale che lui, attraverso la cinepresa, attua su di loro, riducendoli da corpo ad ombra; un'ombra che è destinata ad essere veduta 'su uno squallido pezzo di tela' , davanti agli occhi di un pubblico di cui l'attore non si sente più parte viva. Ciascun di essi è li di mala voglia, è li perché pagato meglio, per un lavoro che, se pur gli costa qualche fatica, non gli richiede sforzi di intelligenza. La macchina, con gli enormi guadagni che produce, può compensarli molto meglio di qualsiasi altro impresario o direttore proprietario di compagnia drammatica. Non solo; ma essa, con le sue riproduzioni meccaniche, riempie le sale dei cinematografi e lascia vuoti i teatri, e gli attori, per non languire, si vedono costretti a picchiare alle porte delle Case di cinematografia. In tal modo si vedono allontanati, strappati dalla comunione diretta col pubblico, da cui prima traevano il miglior compenso e la maggior soddisfazione: quella di vedere, di sentire dal palcoscenico, in un teatro, una moltitudine intenta e sospesa seguire la loro azione viva, commuoversi, fremere, ridere, accendersi, prorompere in applausi. Qua si sentono come in esilio. In esilio non soltanto dal palcoscenico, ma quasi anche da se stessi. Perché la loro azione, l'azione viva del loro corpo vivo, là, sulla tela dei cinematografi, non c'è più: c'è la loro immagine soltanto, colta in un momento, in un gesto, in una espressione, che guizza e scompare. Avvertono confusamente, con un senso smanioso, indefinibile di vuoto, anzi di vuotamento, che il loro corpo è quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua voce, del rumore che esso produce muovendosi, per diventare solamente un'immagine muta, che tremola per un momento sullo schermo e scompare in silenzio, d'un tratto, come un'ombra inconsistente, giuoco d'illusione su uno squallido pezzo di tela. Si sentono schiavi anch'essi di questa macchinetta stridula, che pare un grosso ragno in agguato, un ragno che succhia e assorbe la loro realtà viva per renderla parvenza evanescente, momentanea, giuoco d'illusione meccanica davanti al pubblico. La sera della rappresentazione per essi non viene mai. Il pubblico non lo vedono più. Pensa la macchinetta alla rappresentazione davanti al pubblico, con le loro ombre; ed essi debbono contentarsi di rappresentare solo davanti a lei. Quando hanno rappresentato, la loro rappresentazione è pellicola.


Il significato dei 'Quaderni' nell'opera di Pirandello


Il valore metaforico della cinepresa emerge in tutta la sua profondità se letto alla luce del vitalismo sotteso alla concezione pirandelliana della vita. La realtà tutta è vita, perpetuo movimento vitale, flusso continuo, incandescente, indistinto. Ciò che fuoriesce da questo flusso perde forma, si irrigidisce, comincia a morire. Così avviene per l'identità dell'uomo. La cinepresa, che fissa le azioni in una forma, diviene metafora della inveterata tendenza dell'uomo a fissarsi in una realtà che egli stesso si dà. Il flusso continuo della vita, necessitato a calarsi in forme stabili e determinate, non può, per uguale necessità, consistere in nessuna di esse, ma deve passare di forma in forma e incessantemente, urtandovi contro, infrangere, dissolvere e fluidificare schemi e forme. È la necessità per la vita di calarsi in una forma ed insieme l'impossibilità di esaurirvisi. Anche gli altri, con cui viviamo in società, vedendoci ciascuno secondo la sua prospettiva particolare, ci impongono determinate forme. Noi crediamo di essere uno per noi stessi e per gli altri, mentre siamo tanti individui diversi, a seconda della visione di chi ci guarda. Ciascuna di queste forme è una visione fittizia, una maschera che noi stessi ci imponiamo e che ci impone il contesto sociale. La presa di coscienza di questa inconsistenza dell'io suscita nei personaggi pirandelliani smarrimento e dolore. Ancora una volta la metafora della cinepresa appare fortemente significativa e pregnante: le vicende ripresa dalla macchina da presa sono, appunto, finzione, finzione cinematografica, cui manca l'alito genuino della vita. La realtà non è più una totalità organica ma si sfalda in una pluralità di frammenti che non hanno un senso complessivo. Di questa assenza di significato è indice allusivo il nome del protagonista: Serafino. Di lui non abbiamo connotati fisici, ne conosciamo retroterra affettivi, la sua personalità emerge furtivamente in un gioco di specchi, quanto mai sfuggente. L'unica chiave che ci permette di penetrare l'astrattezza del personaggio risiede in quel suo strano nome, Serafino. Certo non casuale in un autore come Pirandello, convinto che il nome fosse il primo biglietto da visita da affidare al personaggio. La natura del nome e del cognome dell'interprete principale del romanzo è stato oggetto di diverse interpretazioni. Una di queste rimanda a San Francesco, descritto nel paradiso dantesco 'serafico in ardore'. Un ulteriore interpretazione si deve a Umberto Artioli il quale notò che 'Dottor Seraphicus' era appellativo attribuito a San Bonaventura, autore di un trattato di mistica dal titolo 'Itinerarium mentis in Deum' . Il nome del protagonista, dunque, sembra riferirsi allusivamente ad un analogo itinerario interiore, un itinerario, tuttavia, che non va 'in Deum', ma procede verso il nulla, non arriva a nessuna soluzione rigenerativa. Nell' 'Itinerarium in nihil' pirandelliano l'io si frantuma, si annulla in una serie di frammenti incoerenti. Se per il Romanticismo e il Decadentismo l'interiorità era il centro del reale, sede dell'esperienza originaria dell'Essere, ora questo centro scompare, il soggetto da entità assoluta diviene nessuno. L'umorismo diviene quindi l'arte moderna per eccellenza perché riflette la coscienza di un mondo non più ordinato ma frantumato, in cui non vi sono più prospettive privilegiate e punti di riferimento fissi, ma solo ambiguità e contraddizioni laceranti. È un'arte critica, che dissolve luoghi comuni e abitudini di pensiero radicale, e costringe a vedere la realtà da prospettive inedite, stranianti, capaci di far saltare comodi e rassicuranti sistemi di certezze. È il continuo contrasto fra la nostra illusione di perfezione e una volontà beffarda che si diverte a farci vedere il rovescio della medaglia, l'altra faccia degli uomini e delle cose deformandole in una smorfia non sai se di riso o di pianto. In questo modo la nostra illusione viene distrutta dall'implacabile apparire del suo contrario. Il contrasto fra l'ideale e il reale, fra l'illusione e la vita, fra la maschera e il volto non è più ancorato a nessuna certezza, ma dà luogo al sentimento dello scacco e dell'impotenza, alimenta una sensazione di casualità, imprevedibilità, relatività delle vicende umane. Se la realtà è magmatica, in perpetuo divenire, essa non si può fissare in schemi e moduli d'ordine totalizzanti, non esiste una prospettiva privilegiata da cui osservare il reale: al contrario, le prospettive possibili sono infinite e tutte equivalenti. Ognuno ha la sua verità, che nasce dal suo modo soggettivo di vedere le cose. Ne deriva una desolata incomunicabilità fra gli uomini: essi non possono intendersi perché ognuno fa riferimento alla realtà come è per lui, cristallizzato nella propria solitudine. Un progressivo mutismo avvolge Serafino, escluso dal mondo, disprezzato dai suoi colleghi di lavoro che lo ritengono un 'ladro di anime'. Il mutismo di Serafino appare come l'ultima difesa che la sua psiche pone per difendersi dal mondo circostante; un mondo che lo vuole trasformato in un automa senza sentimenti e sprovvisto di un io. Questo Serafino lo ha capito e cerca in ogni modo di arrivare ad una perfezione di ripresa paragonabile a quella di un automa. Strumento per arrivare a tale perfezione, tra i tanti, è il mutismo, attraverso il quale l'operatore stacca i contatti con gli uomini per rinchiudersi dentro se stesso. La vendetta compiuta da Serafino sul suo ruolo di automa, protraendolo all'estremo, si ritorce, però, contro di lui: lo choc, provocatogli dall'ultima scena del film in cui Nuti prima assasina con un colpo di fucile la Nestoroff e poi si lascia sbranare dalla tigre, lo rende muto per sempre. Per comunicare con gli uomini non gli resta che 'una penna e un pezzo di carta'. L'afasia così raggiunta è, tuttavia, anche la sua perfezione 'come operatore': il suo tanto vantato 'silenzio di cosa', che lo assimila alla macchina fino alla contaminazione fisica con questa, è pervenuto al suo punto culminante. La parabola è compiuta: quella parabola già prefigurata all'inizio del romanzo dall'incontro emblematico con l'uomo del violino, ridotto anch'egli al mutismo e anch'egli carente di identità, fino alla perdita del nome, sostituito con uno 'schifoso' soprannome. Ma tale 'professionale impassibilità', tale afasia, già dalle prime pagine del romanzo è qualcosa da scontare e di cui vendicarsi: 'soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente'. Quasi surrogato della parola viva, di quello scambio di sentimenti e opinioni da cui Serafino è escluso, la scrittura diviene altresì strumento conoscitivo, di analisi, di oggettività non mediata: 'studio la gente nelle sue più ordinate occupazioni, se mi riesca di scoprire negli altri quello che manca a me per ogni cosa ch'io faccia: la certezza che capiscano ciò che fanno' . Si intravede un bisogno ormai esplicito di conoscenza scientifica, di analisi e rappresentazione, di oggettività non mediata. Attraverso la scrittura Serafino sembra quasi prolungare quell'estraneità alle trame umane che il suo mestiere gli impone di registrare. Il silenzio dell'operatore, allora, appare non già la trascrizione mimetica, meccanica e naturalistica, di una realtà per altro essa stessa convenzionale e ingannevole, ma la rinunzia a coprire di forme di falsa coscienza la contraddittorietà irreversibile dello spettacolo instante. Qui il simbolo meccanico della cinepresa segnala nell'impassibilità finale dell'operatore, nella sparizione di ogni ideologia, di ogni ottica narrativa privilegiante, l'ultima e unica possibilità di formalizzazione della realtà, cioè di conoscenza reale, non mistificata, non compromessa. La rinunzia all'organizzazione ideologica, in tal modo, mette metaforicamente a nudo la crisi di un ruolo ormai insostenibile, falsante e ideologico, quello dello scrittore demiurgo e del suo rapporto con la realtà. Il processo di disgregazione a cui l'umorismo di Pirandello ha sottoposto tutti i miti - da quelli del realismo ottocentesco a quelli del nuovo storicismo - che i suoi contemporanei si sono creati, giunto alle sue conseguenze ultime, approda al deserto di questo silenzio: alla coscienza dell'impossibilità di pronunciare qualsiasi giudizio sulla vita e sulle umane azioni. Si ha quindi la scomparsa della mediazione oggettiva, la sparizione dell'autore in quanto portatore di valori e produttore di forme di coscienza della realtà. L'esilio volontario dello scrittore regista, l'assunzione programmatica dell'ottica straniante distante, è dunque una scelta poetica, il segno della singolare consapevolezza del deperimento oggettivo del ruolo dell'intellettuale. Particolarmente significativa risulta, in questo senso, l'adozione di una figura ricorrente, emblematica: 'il forestiere della vita', colui che ha compreso il giuoco che la società ha intrapreso, e di conseguenza si esclude, si isola, guardando lo scorrere della vita altrui, dall'alto della sua consapevolezza di essere superiore, secondo quella che Pirandello definisce come filosofia del lontano. Essa consiste nel contemplare la realtà da una infinita distanza, in modo da vedere in una prospettiva straniata tutto ciò che l'abitudine ci fa considerare normale, così da coglierne l'inconsistenza, l'assurdità, la mancanza totale di senso. In questa figura di eroe straniato dalla realtà è possibile rilevare la condizione stessa di Pirandello come intellettuale, che rifiuta il ruolo politico attivo e nel suo pessimismo radicale si riserva solo un ruolo contemplativo, di lucida critica del reale. Ma tale analisi non approda ad una visione totalizzante della realtà: l'unità della natura umana, quel flusso ininterrotto che - sia pure con mille contraddizioni - dovrebbe rappresentare la continuità della nostra persona, non può essere colto nel suo fluire dai nostri mezzi di conoscenza e noi siamo condannati a vederci quasi pietrificati in singoli momenti staccati l'uno dall'altro. Di più: è il regno stesso della vita ad apparire come banalità o angoscia o non senso. Questa assenza di significato appare evidente anche nella dissoluzione della struttura narrativa, mediante quella che De Castris ha definito la 'rivoluzione copernicana' del romanzo: e cioè la formalizzazione dell'impossibilità del tempo oggettivo, continuo, dell'azione storica e della dinamica psicologica convenzionale; in una dialettica di piani che, di fatto, si riduce ad una oggettiva significazione della sua non-rappresentatività: del suo essere forma aperta, inconclusa, di un materiale oggettivo non apprezzabile se non come luogo e occasione di non-conclusione e di relatività, in cui si riversa la casualità degli eventi, il caos delle situazioni, l'allinearsi irrazionale delle forme di coscienza. La scelta formale di Pirandello è usata come mezzo per attuare una critica alla società borghese, con le sue ideologie e istituzioni, attraverso il suo contribuire attivamente alla crisi della narrativa in funzione di una critica più complessa dei valori, e cioè delle ideologie, che ne fondavano e ne garantivano l'agibilità. Ed è appunto la prospettiva 'copernicana' in cui Pirandello colloca il problema del rapporto medesimo tra arte e realtà, tra falsa assolutezza del soggetto e delle forme fenomeniche dell'esistenza: una prospettiva che non tanto misura la degradazione oggettiva dei rapporti sociali e degli istituti dell'ordine borghese, quanto la falsità dei valori, delle forme di ricomposizione ideologica della crisi, delle certezze logiche ed etiche tuttora operanti come strumento di violenza e di sfruttamento.

Marx


Cenni biografici


Karl Marx nacque a Treviri nel 1818. Figlio di un brillante avvocato ebreo che, insieme con la famiglia, si era convertito al protestantesimo per motivi politici, nonostante fosse rimasto su posizioni sostanzialmente agnostiche, Marx ebbe un'educazione improntata al liberalismo ed in un primo momento pensò di seguire la carriera paterna iscrivendosi a Giurisprudenza. A Berlino, però, il contatto con il club dei Giovani Hegeliani (dei quali in seguito rinnegherà le posizioni) e con il pensiero di Hegel, lo portarono a maturare la decisione di abbandonare Legge e di iniziare a frequentare la facoltà di filosofia a Jena, dove si laureò con una tesi su Democrito ed Epicuro. Data la politica reazionaria vigente in Prussia, decise che le sue posizioni politiche non gli avrebbero permesso di intraprendere serenamente la carriera universitaria e così divenne caporedattore della Gazzetta Renana, che fu in seguito interdetta dal governo. Proprio a causa dello scioglimento forzato del giornale, Marx fu costretto a trasferirsi a Parigi (1843), dove terminò la stesura della Critica della filosofia del diritto di Hegel. Il 1844 fu l'anno in cui Marx abbracciò definitivamente l'ideologia comunista: ne sono testimoni i 2 saggi che pubblicò sul primo (e ultimo) numero degli Annali franco-tedeschi, redatto insieme con Ruge. Sempre nel '44 Marx strinse una profonda amicizia con Friedrich Engels e con lui cominciò ad interessarsi alle materie economiche, un interesse che sfociò nei Manoscritti economico-filosofici. Il soggiorno francese non durò comunque oltre: sotto la pressione del governo prussiano, Marx fu costretto ad abbandonare Parigi e si stabilì a Bruxelles. Qui, in collaborazione con Engels, scrisse La Sacra Famiglia (diretta contro Bauer ed i suoi discepoli) e maturò il definitivo distacco dalla filosofia tedesca con le Tesi su Feuerbach e, soprattutto, con l'Ideologia tedesca, pubblicata per la prima volta solo nel 1932, in URSS. Nel 1848 la Lega dei comunisti, al cui primo congresso del 1847 Marx non aveva potuto partecipare, gli propose di stendere un documento teorico-programmatico: il frutto di questo lavoro fu il Manifesto del partito comunista, edito a Londra sempre in collaborazione con Engels. Ristabilitosi nel frattempo in Germania, Marx ne fu nuovamente espulso nel '49 e questa volta si trasferì a Londra, dove si ritirò dalla politica attiva dopo aver tentato di ricostituire la Lega dei comunisti. Per Marx, la moglie Jenny e la loro numerosa famiglia, il soggiorno inglese si presentò carico di problemi economici: il suo lavoro al British Museum e la sua collaborazione col New York Tribune non sarebbero stati sufficienti al sostentamento se non fossero arrivati aiuti da Engels. Ciò nonostante Marx non interruppe la sua attività di studio e, nel 1866, iniziò a comporre il I libro del Capitale, che, dopo la sua morte, fu redatto da Engels, il quale si basò sui suoi appunti. Nel frattempo (1864) era diventato la figura dominante dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori, per la quale, nel 1870, scrisse due Indirizzi sulla guerra franco-prussiana. Del 1875 sono gli Appunti sul programma di Bakunin 'Stato e Anarchia' e la Critica del programma di Gotha, una disanima nei confronti della decisione di unificazione dei socialisti tedeschi, per Marx poco rivoluzionaria. Nel 1881 gli morì la moglie Jenny e Marx la seguì 2 anni dopo, lasciando nello sconforto Engels e tutto il movimento operaio internazionale.


Materialismo dialettico e lotta di classe


Un contributo fondamentale dato da Marx alla storia del pensiero è certamente la sua teoria del materialismo storico. Esso si pone come nuova chiave di lettura del divenire storico, sottolineando come le idee giuridiche, morali, filosofiche, religiose, ecc. costituiscono il riflesso e la giustificazione della struttura economica; di conseguenza se la struttura economica cambia, si avrà uno sconvolgimento nella sovrastruttura ideologica. Ma il materialismo di Marx è anche e soprattutto materialismo dialettico. Già Hegel aveva interpretato la realtà in termini di totalità storico-processuale e Marx gli riconosce il merito di aver cominciato 'ovunque con l'opposizione delle determinazioni', ponendovi l'accento ma, altresì, gli rimprovera di averla rinchiusa entro un 'guscio mistico', facendo del pensiero il demiurgo del reale. Occorre, pertanto, capovolgere la dialettica di Hegel, facendola camminare 'sui piedi' e non 'sulla testa'. La dialettica, permette a Marx di comprendere il movimento reale della storia, rinvenendo nello scontro tra le classi la molla del divenire storico: ' la storia d'ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotta di classi'. Lotte che ogni volta finirono con una radicale trasformazione della società o con la comune rovina della classi in lotta. Oppressori ed oppressi; ecco quanto vede Marx nel travaglio della storia umana nella sua totalità. E la nostra epoca, l'epoca della borghesia moderna, non ha affatto eliminato l'antagonismo tra le classi; essa, piuttosto, lo ha semplificato, dal momento che 'l'intera società si va scindendosempre di più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l'una all'altra: borghesia e proletariato.' Per borghesia si intende la classe dei moderni capitalisti, proprietari dei mezzi di produzione e assuntori di salariati. Per proletariato si intende, invece, la classe dei moderni salariati, i quali, non avendo mezzi di produzione propri, sono costretti a vendere la loro forza-lavoro per vivere. La classe borghese sorge all'interno della società feudale, ed è la negazione di questa e la supera. Dai servi della gleba del medioevo si svilupparono i primi elementi della borghesia. Poi la scoperta dell'America, e gli scambi con le colonie dettero alla intraprendente classe borghese e all'industria uno slancio mai conosciuto e 'con ciò impressero un rapido sviluppo all'elemento rivoluzionario entro la società feudale in disgregazione. L'esercizio dell'industria, feudale o corporativa, fino allora in uso, non basto più. Al suo posto subentrò la manifattura: il medio ceto soppiantò i maestri artigiani; la divisione del lavoro tra le diverse corporazioni scomparve davanti alla divisione del lavoro nella singola officina stessa' . Ma nel frattempo crescevano i mercati. Nemmeno la manifattura fu più sufficiente. E fu 'allora che il vapore e le macchine rivoluzionarono la produzione industriale. All'industria manifatturiera subentrò la grande industria moderna; al medio ceto industriale subentrarono i milionari dell'industria, i capi di interi eserciti industriali, i borghesi moderni'. E la borghesia moderna 'ha respinto nel retroscena tutte le classi tramandate nel medioevo'. È questa la ragione per cui la borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria. Infatti, quando i rapporti feudali della proprietà non corrispondevano più alle forze produttive ormai sviluppate, essi si trasformarono in altrettante catene: 'dovevano essere spezzate e furono spezzate' . Ad esse subentrò la libera concorrenza con la confacente costituzione sociale e politica, con il dominio economico e politico della classe dei borghesi. Tuttavia, proprio per la legge della dialettica, come la borghesia è la contraddizione interna del feudalesimo, così il proletariato è la contraddizione interna della borghesia. Difatti 'la proprietà privata, come ricchezza, è costretta a mantenere in essere se stessa e con ciò il suo termine antitetico, il proletariato.' La borghesia, insomma, si sviluppa e cresce come tale alimentando in se stessa il proletariato: 'nella stessa proporzione in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa il proletariato, la classe degli operai moderni, che vivono solo fintantoché trovano lavoro, e che trovano lavoro fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale'. Ed è così che le armi che sono servite alla borghesia per atterrare il feudalesimo si rivolgono contro la borghesia stessa. La realtà è che la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le porteranno la morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai moderni, i proletari. Il progresso della grande industria crea, al posto di operai isolati e in concorrenza, unioni di operai organizzati e coscienti della propria forza e della propria missione. E 'quando la teoria afferra le masse, essa diventa violenza rivoluzionaria' . La borghesia produce insomma i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili. La dimostrazione dell'inevitabilità della vittoria del proletariato e del tramonto della borghesia Marx la offre nel Capitale, il cui fine ultimo è quello di svelare la legge economica del movimento della società moderna.


La teoria dell'alienazione


L'alienazione per Marx consiste nella reificazione dell'operaio all'interno della società capitalista. Anzitutto Marx tende a sottolineare la concretezza della propria analisi in confronto all'astrattezza degli economisti borghesi che spesso ipotizzano situazioni ideali. Il fatto concreto e innegabile, secondo Marx, è che nell'economia capitalistica l'impoverimento dell'operaio è direttamente proporzionale all'arricchimento del capitalista: 'l'operaio diventa tanto più povero quanto più produce ricchezza, quanto più la sua produzione cresce in potenza ed estensione' . Il lavoratore è degradato a merce quanto più produce merci e rafforza la posizione del capitalista beneficiario del suo lavoro. Marx descrive un primo aspetto dell'alienazione economica. Il lavoratore è alienato rispetto al prodotto del proprio lavoro che si è tradotto in merci che non appartengono a lui, ma al capitalista: 'l'oggetto, prodotto dal lavoro, prodotto suo, sorge di fronte al lavoro come un ente esterno, come una potenza indipendente dal producente' . Il lavoro, secondo Marx, non produce soltanto merci, esso produce se stesso e il lavoratore come una merce, precisamente nella proporzione in cui esso produce merci in genere. L'oggettivazione dell'operaio mediante il lavoro si tramuta in espropriazione ai suoi danni da parte del capitalista:' questa realizzazione del lavoro appare, nella condizione descritta dall'economia politica, come annullamento dell'operaio, e l'oggettivazione appare come perdita e schiavitù dell'oggetto, e l'appropriazione come alienazione, come espropriazione. L'oggettivazione si palesa attraverso la perdita dell'oggetto, l'operaio è derubato non solo degli oggetti più necessari alla vita, ma anche degli oggetti più necessari per il lavoro. Più oggetti l'operaio produce, meno può possedere e tanto più cade sotto il dominio del suo lavoro e del capitale. 'L'operaio sta in rapporto al prodotto del suo lavoro come ad un oggetto estraneo'. L'operaio, secondo Marx, mette nell'oggetto la sua vita, e questa non appartiene più a lui, bensì all'oggetto. L'alienazione dell'operaio nel suo oggetto si esprime, secondo le leggi dell'economia politica, in modo che, quanto più l'operaio produce, tanto meno ha da consumare, e quanto più crea dei valori più egli è senza valore e senza dignità. Il capitalista sostituisce il lavoro con le macchine, costringendo i lavoratori ad un lavoro barbarico, e riduce a macchine l'altra parte di lavoratori. Un secondo aspetto dell'alienazione riguarda lo svolgimento stesso dell'attività lavorativa. Più precisamente Marx osserva che nell'economia capitalistica l'operaio non trae soddisfazione dal suo lavoro, ma anzi esso gli produce soltanto fatica e infelicità: ' il lavoro resta esterno all'operaio, cioè non appartiene al suo essere, e l'operaio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge nessuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito' . Egli è a suo agio quando non lavora e si sente come a casa sua, viceversa quando lavora. Il suo lavoro non è volontario, bensì è forzato, costrittivo. Il lavoro non è quindi la soddisfazione di un bisogno, bensì è soltanto un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni ad esso. L'esteriorità del lavoro al lavoratore si manifesta a causa della consapevolezza dell'operaio che mentre lavora sente che il lavoro che sta effettuando non è cosa sua ma di un altro, che non gli appartiene, e che in esso egli non appartiene a sé, bensì ad un altro. Il risultato è che il lavoratore si sente libero ormai soltanto nelle sue funzioni bestiali. Un terzo aspetto dell'alienazione consiste nella perdita da parte del lavoratore della sua essenza che lo differenzia dall'animale. Mentre l'animale produce sempre allo stesso modo e mosso dal bisogno, l'uomo sa produrre nei modi più diversi, anche indipendentemente dal bisogno, quindi anche cose inutili, ma belle: 'l'animale forma cose solo secondo la misura e il bisogno della specie cui appartiene, mentre l'uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e dappertutto sa conferire all'oggetto la misura inerente; quindi l'uomo forma anche secondo le leggi della bellezza.' Infine Marx si sofferma su un quarto aspetto dell'alienazione, quello dell'uomo dall'altro uomo, del lavoratore dal proprietario del prodotto del prodotto del suo lavoro. Poiché il prodotto del lavoro non appartiene all'operaio, e gli sta di fronte come una potenza estranea, ciò è solo possibile in quanto esso appartiene ad un altro uomo estraneo all'operaio. Quando la sua attività gli è penosa, essa necessariamente deve essere godimento per un altro. Quando il lavoratore è in rapporto al prodotto del suo lavoro, al suo lavoro oggettivo, come ad un oggetto estraneo, sta in rapporto ad esso così perché un altro uomo, a lui estraneo e nemico, è il padrone di questo oggetto.


La critica alla società borghese


Come è stato già sottolineato la storia di ogni società, è storia di lotte di classi. La borghesia è essa stessa il prodotto d'un lungo processo di sviluppo, d'una serie di rivolgimenti nei modi di produzione e di traffico mentre il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese. Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l'uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo 'pagamento in contanti'. Ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell'esaltazione devota, dell'entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola: ha posto lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d'illusioni religiose e politiche. La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l'uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi. La borghesia ha svelato come la brutale manifestazione di forza che la reazione ammira tanto nel medioevo, avesse la sua appropriata integrazione nella più pigra infingardaggine. Solo la borghesia ha dimostrato che cosa possa compiere l'attività dell'uomo. Essa ha compiuto ben altre meraviglie che le piramidi egiziane, acquedotti romani e cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate. La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti e, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L'unilateralità e la ristrettezza nazionali divengono sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale. Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. In una parola: essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza. Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive colossali, non paragonabili a quelle create da tutte le altre generazioni passate. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l'applicazione della chimica all'industria e all'agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento d'interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo. Quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive? E tuttavia il prezzo di tutto questo è lo sfruttamento dell'operaio, l'alienazione del salariato e dunque la società borghese per sua natura strutturalmente è dunque una società ingiusta, perché fondata sull'oppressione dell'uomo sull'altro uomo, di una classe sull'altra. In questo contesto l'abbattimento dello stato borghese, e di qualsiasi forma di Stato, appare dunque l'unica via per restituire all'uomo la propria essenza, la propria umanità.


Confronto tra Marx e Pirandello


Da una attenta lettura dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore e degli scritti di Marx emergono alcune linee comuni all'interno delle quali è possibile rintracciare evidenti affinità e delle divergenze. Una delle più significative è l'interpretazione della realtà in termini di dinamismo e di opposizione. Per Pirandello la vita è in continuo divenire è un flusso incessante e mutevole. Quando viene irrigidito in uno schema, in un ruolo, l'individuo si sente perso, gli vengono espropriati i sentimenti le sensazioni, non si sente più uomo. Questo dinamismo si traduce nell'opposizione dialettica tra forma e vita: la vita, essendo continuo movimento, non si può fermare quindi non può ricevere una forma e tuttavia non può fare a meno di essa in quanto tende inevitabilmente a fissarsi e a cristalizzarsi. Un analogo schema concettuale si può riscontrare nel pensiero di Marx: anche per Marx la realtà è in continuo movimento, ma tale dinamismo ha, in Marx, una sua concretezza, che si traduce nelle lotte di classe. È comune dunque ai due pensatori la categoria dell'opposizione che rende il movimento un movimento dialettico. Tuttavia, mentre la dialettica marxiana appare dotata di senso, in quanto auspicava l'avvento della società comunista, e indicava anche all'uomo una direzione da percorrere, la dialettica pirandelliana forma-vita mostra tutta la tragicità del vivere, dominato dal caos e dall'assurdo. Altro punto di contatto è il concetto di alienazione che appare significativo elemento di raccordo tra i due autori malgrado la presenza di divergenze. Per entrambi l'esperienza dell'alienazione causa la perdita dei sentimenti, della morale della concezione della vita è risucchiata dalle macchine. Tale perdita di umanità nei quaderni di Serafino Gubbio operatore appare evidente nella quotidiana esperienza del protagonista: egli non si sente più uomo nello svolgere il suo lavoro che lo fa sentire un automa ma ritrova se stesso solamente quando annota sui suoi quaderni le vicissitudini più importante della giornata. È lo stesso protagonista a definirsi un automa in balia della macchina, che è per lui fonte di sussistenza, e che lui stesso ha deciso di far entrare nella sua vita. L'immagine di Serafino, uomo solo al di fuori del suo lavoro, sembra incarnare nel vivo le parole di Marx relative all'effetto di disumanizzante del lavoro alienato: ' il risultato è che l'uomo si sente libero ormai soltanto nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel bere e nel generare , tutt'al più nell'avere una casa, nella sua cura corporale etc., e che nelle sue funzioni umane si sente solo più una bestia. Il bestiale diventa l'umano e l'umano il bestiale' . L'alienazione che Serafino subisce, tuttavia, è in un certo senso voluta, cercata, in quanto Gubbio vuole diventare un perfetto operatore cinematografico senza scrupoli e sentimenti, mettendo in conto, prima di incominciare il suo percorso di auto-alienazione, che questa sua scelta lo porterà alla perdita del suo io, della sua anima e del suo pensiero di uomo libero. L'alienazione analizzata da Marx è invece una alienazione 'coatta', in quanto la classe meno abbiente, quella operaia, non ha nessun tipo di sostentamento dalla società ed è costretta a lavorare e di conseguenza a subire qualsiasi tipo di sfruttamento e mortificazione, non capendo che tutto quello che le è imposto è frutto di un programma ben definito di arricchimento alle loro spalle da parte di una classe imprenditoriale così disonesta e vile. L'alienazione pirandelliana, portata a compimento in chiave umanistico-letteraria, ha come fine ultimo l'analisi della dolorosa condizione umana, senza però teorizzare una ipotetica via di uscita da tale condizione, mentre quella marxiana analizza l'alienazione concretamente, mettendo in risalto la condizione degli operai in una società così contraddittoria come quella del primo '800, giungendo a formulare una soluzione a tale sfruttamento, quella di una rivoluzione proletaria, mirata alla sconfitta e alla demolizione della società comunista e all'avvento di una società egualitaria senza più soprusi e discriminazioni sociali. In entrambi i casi, emerge in tutta la sua gravità una 'crisi' sociale di non lievi dimensioni, una crisi di cui i due pensatori mettono in luce aspetti complementari: l'uno, Pirandello, ne sottolinea soprattutto la falsità dei valori, la fragilità delle certezze, di quelle sicurezze che Marx aveva considerato come espressione ideologica della classe dominante, smascherandone i nascosti meccanismi egoisti, spesso con sottile ironia. Si tratta di una crisi sociale che a mio parere difficilmente potrà aver termine. Ci saranno sempre coloro che penseranno ad arricchirsi e non si cureranno delle condizioni di quanti permettono tale arricchimento cioè i proletari, e ci sarà sempre chi con il solo pensiero di sopravvivere e mandare avanti una famiglia continuerà a lavorare senza però mai manifestare pubblicamente un disagio, causa la paura di perdere il lavoro e con esso la propria fonte di sussistenza, a costo che gli venga espropriata l'anima.


Conclusione


L'analisi dei 'Quaderni' è stata molto interessante e ricca di riflessioni, e mi ha portato ha comprendere meglio l'intero pensiero pirandelliano. All'interno dei 'Quaderni' sono presenti quasi interamente le tematiche più importanti del pensiero di Pirandello: il continuo scorrere della vita, le varie forme che noi assumiamo e che le persone ci impongono, la critica ad una società borghese in via di sviluppo che ha portato alla perdita dei valori principali di un poeta e delle persone cioè i sentimenti e le sensazioni, e lo smarrimento e il dolore dei personaggi che lo stesso Pirandello in un certo senso provava, assistendo all crollo di una società così amata da lui stesso. L'unico punto negativo che ritengo presente in Pirandello è il non aver saputo teorizzare una possibile soluzione ad una società così amata, anche se ingannevole e fugace. La filosofia marxista ha suscitato in me molte sensazioni e riflessioni. La più forte è stata che, da quando Marx descrisse in tutti i minimi particolari la situazione socio/economica della sua società, le cose ai giorni nostri non sono cambiate. Alle soglie del duemila si sentono ancora storie di bambini costretti a lavorare dodici ore al giorno, per portare a casa un misero stipendio, sfruttati ed obbligati a lavorare in condizioni disumane. E quello che è ancora più tragico è che pochissime persone sentono vicino a loro questo problema e se ne fanno carico, ed i governi che si dichiarano democratici non fanno nulla. Penso che in questo senso la lezione di Marx sia fortemente attuale e costituisca una forte provocazione e un invito a riflettere, ma soprattutto ad agire, secondo quella concezione marxiana che identificava la filosofia nella 'praxis' e che da essa veviva verificata Tutti vorrebbero un mondo più giusto senza che una macchina decida il destino di un uomo, ma questo cammino è lungo e doloroso: dobbiamo avere la certezza che prima o poi verrà portato a compimento.

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