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La letteratura cavalleresca




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La letteratura cavalleresca






Già dal Duecento la materia cavalleresca si era diffusa un'Italia, sia per quanto concerne il ciclo bretone che per quanto concerne il ciclo carolingio. Quest'ultimo particolarmente ebbe larga risonanza nell'animo della nostra gente creando intorno alle valorose imprese dei paladini di Francia una popolarità che il tempo non ha saputo cancellare, si veda ad esempio ancor oggi l'"opra di pupi" siciliana, il teatro cioè dei burattini, che trae argomento delle sue recite da tale materia.

La materia cavalleresca si diffuse inizialmente nella Marca Trevigiana, dove diede vita ad una serie di poemi scritti in un idioma ibrido, detto franco-italiano; passò poi in Toscana e si raggentilì: scrittori popolareschi e cantastorie la diffusero rapidamente in quell'idioma destinato poi a diventare lingua nazionale. Le recite avevano luogo nella piazzetta di san Martino, presso Or San Michele: il "canterino" iniziava con un'invocazione a Dio o ai Santi e interrompeva la sua recitazione al punto culminante per la questua; il racconto veniva ripreso con un'ottava che richiamasse i fatti precedenti e veniva infine concluso raccomandando sé e gli uditori a Dio e preannunziando nell'ultima ottava il seguito dell'avventura per il giorno seguente.

Questi cantari sono stati tramandati oralmente per due secoli e sollevandosi raramente dalla mediocrità; tutta la letteratura cavalleresca sarebbe rimasta così relegata all'anonimato della letteratura popolare se non le avessero dato lustro il Pulci ed il Boiardo, precursori della poesia cavalleresca dell'Ariosto.

Alla tradizione popolaresca si richiama Luigi Pulci (1432-1484) con il suo Morgante.

Nato da antica famiglia fiorentina, economicamente decaduta, è una delle figure più vicine a Lorenzo de' Medici per il quale compie diverse missioni. Passa in seguito al servizio del Principe Roberto di Sanseverino; morto a Padova nel 1484 viene sepolto in terra non consacrata perché accusato di eresia. Di lui ci restano molte lettere in volgare, colme di briose descrizioni dove si rivela la sua arguzia e la capacità di rendere in chiave comica le situazioni più serie; abbiamo poi numerosi versi polemici e faceti e alcune stanze che descrivono piuttosto uggiosamente una giostra di cui era uscito vincitore Lorenzo de' Medici; un poemetto risulta particolarmente degno di nota la Beca di Dicomano, sul genere della Nencia, ma con un più pesante gusto di caricatura burlesca.

Il suo capolavoro è però senza dubbio il già menzionato Morgante poema composto tra il 1460 e il 1473 nei suoi primi 23 canti su sollecitazione di Lucrezia Tornabuoni, madre del Magnifico. Tali canti, letti a mensa man mano che venivano composti e pubblicati in una edizione andata perduta, sono successivamente ripresi, corretti e ampliati di altri 5. Il poema di 28 canti vede così la luce nel 1484 con il titolo arbitrario di Morgante Maggiore (per distinguere questa dalla precedente edizione).

Filo conduttore del racconto è l'inimicizia tra le case di Chiaromonte e di Maganza: Orlando, sdegnato per l'incapacità dell'Imperatore Carlo Magno di sottrarsi alle mani traditrici di Gano, abbandona la corte di Francia e giunge in un'abbazia taglieggiata da tre ladroni, ne uccide due e fa prigioniero il terzo, Morgante, che poi si converte al Cristianesimo.

Morgante segue Orlando come scudiero per un certo periodo, poi lo abbandona in cerca di avventure. Un giorno incontra Margutte, un mezzo gigante maestro di furfanterie, insieme compiono ogni sorta di ribalderia, la più famosa delle quali è quella dell'incendio della casa di un oste che li aveva ospitati.

Comica è la loro fine: Morgante muore per la puntura di un granchiolino, Margutta dalle risa perché una bertuccia ha calzato i suoi stivali. Intanto altri paladini hanno abbandonato la Francia: ne approfitta Gano per tramare contro Carlo, la cui retroguardia guidata da Orlando, viene assalita di sorpresa dai Mori a Roncisvalle.

Invano giungono dall'oriente Rinaldo e Ricciardetto, cavalcando due destrieri che sono poi due diavoli, Astarotte e Farfarello, evocati dal mago Malagigi: Orlando e i suoi paladini soccombono e a Carlo non rimane altro che punire Gano (Che viene squartato da quattro cavalli) ed il re dei Mori, Marsilio, (che viene impiccato).

Limite del poema è l'eccessivo intrigo degli episodi che a stento lasciano trasparire la trama generale del racconto; la derivazione popolaresca risulta evidente per l'alterazione e deformazione della tradizionale materia cavalleresca: il Pulci vuole vedere tale materia con gli occhi del popolo, e ricalca quindi i cantari dei cantimpanchi, spesso ridicolizzando o sminuendo i grandi ed eroici paladini e privilegiando quelle figure che rappresentano il mondo dei ribelli intelligenti, i quali conducono un'esistenza al di fuori di ogni idealità e scrupolo morale. Egli, pur facendo parte del circolo mediceo, non avendo ricevuto una solida educazione umanistica è estraneo alla tendenza filosofica ed estetizzante che caratterizza tale ambiente culturale e vuole soprattutto infondere alla materia cavalleresca trattata il suo spirito comico, deformatore grottesco del reale; le tracce dei cantari sono sviluppate quindi con modi originali che rivelano il borghese colto che, pur non essendo un umanista, assimila dell'umanesimo gli elementi che poi fonde nella sua ispirazione realistica e comica.

Ed è proprio della trasformazione borghese della vecchia materia cavalleresca che scaturisce la comicità, comicità che per il Pulci, tormentato a vita dalla salute inferma e dalle ristrettezze economiche, ha rappresentato forse l'unico mezzo di evasione dalla triste realtà.

Alla comicità si accompagnano l'originalità e la genialità di rappresentazione, riscontrabili nei personaggi più significativi del poema nati dalla fantasia dell'autore.

Morgante ad esempio, figura centrale del poema, è un gigante dalla forza smisurata e primitivo, ma fondamentalmente buono; egli si aggira con un cappellaccio di acciaio arrugginito e usa come arma un battaglio di campana che funge da clava; non può cavalcare un cavallo perché, a causa del suo peso, gli animali gli si "afflosciano sotto" o scoppiano; con la sua lingua , lunga due miglia, ripara l'esercito presso cui combatte; unico suo vizio è la spaventosa voracità: può divorare in men che non si dica un intero elefante arrostito e tale voracità lo rende astuto, persino ladro.

Margutte invece, "mezzo gigante" perché la natura ci arrestò a mezzo nel procrearlo, è carico di vizi: è un ghiottone, un falsario, un bestemmiatore, uno spergiuro; è astuto e scettico dinanzi alle carte sacre e profane ed ha sulla sua coscienza 77 peccati mortali, per non contare i veniali. E' quasi una figura picaresca "avant lettre". Astarotte è il diavolo credente, che tratta difficili questioni teologiche, filosofiche e astrologiche; egli rivela a Rinaldo l'esistenza di altre terre oltre le Colonne d'Ercole, ma di fronte a problemi troppo complicati risponde candidamente "nol so, però non ti rispondo".

Tanta è l'affabilità di questo diavolo che, nel momento del commiato, egli lascia in Rinaldo il rimpianto e la convinzione che anche nell'Inferno vi siano "gentilezza, amicizia e cortesia". La figura di Astarotte rientra si nella tradizione, ma è ricreata profondamente; egli incarna l'irrequietezza del Pulci per le questioni religiose, non sempre considerate con spirito di credente e di cattolico; il poeta sembra infatti, in alcuni sonetti polemici, fare professione di incredulità ed epicureismo , non si sa però fino a che punto egli intendesse prendere in giro, con tali affermazioni, il circolo ficiniano.

Delle sue opinioni eretiche egli fa la palinodia in una "confessione" in terza rima. Non si possono in realtà considerare eterodosse opinioni come quelle che gli infedeli si salvino quando professino la loro religione in buona fede, o il tentativo di conciliare razionalmente predestinazione e il libero arbitrio, tuttavia tali idee (analoghe a quelle del Valla) risultano estremamente ardite per quei tempi.

Gli ultimi cinque canti del Morgante, per i quali il Pulci trasse ispirazione da un poema precedente (la Spagna in rima), perdono la comicità che caratterizza il resto del poema: vi emerge una progressiva tristezza che culmina nella strage di Roncisvalle. In ogni caso va riconosciuto al Pulci il merito di aver iniziato con tale opera un genere nuovo, genere che troverà poi ampi sviluppi nelle opere del Rabelais e del Folengo.

Ma la materia epico-cavalleresca, elaborata a Firenze dal genio burlesco del Pulci, viene trattata in Emilia con tutt'altro spirito dal Conte di Scandiano Matteo Maria Boiardo (1441-1494).

Discendente di una nobile famiglia feudale egli svolge per il Duca Borso diversi incarichi di fiducia, tra cui quello di capitano di Modena e poi di Reggio, dove muore mentre operava affinché tale città fosse risparmiata dai danni derivanti dalla discesa di Carlo VIII.

Frequenta a lungo la corte degli Estensi a Ferrara (uno dei maggiori centri politici e culturali del Quattrocento e del Cinquecento), dove erano ancora molto vivi gli ideali cavallereschi, rinnovati dalla tradizione umanistica impartita da Guarino Guarino. Gli impegni di Governo e di corte non impediscono però al Boiardo di dedicarsi agli studi letterari e alla poesia: dopo qualche mediocre tentativo di carmi e di egloghe latine, dà prova di originalità e fantasia nelle liriche volgari raccolte sotto il titolo ovidiano di Amores, canzoniere in tre libri, composto per Antonia Caprara e che le cui liriche sono ordinate secondo un disegno che vuol tracciare la storia di tale amore, anche se alcune rime sono state composte per altre donne. È  evidente l'influsso petrarchesco, ma vi sono numerosi elementi originali, ad esempio un sentimento fresco e vivo della natura, o un linguaggio più diretto e caldo.

Scrive poi una commedia in terzine di cinque atti, il Timone, tratta da un dialogo di Luciano: insieme all'Orfeo è una delle pochissime opere teatrali del secolo che tragga ispirazione dai miti pagani.

Solo però con l'Orlando innamorato il Boiardo riesce a dare concretezza poetica ai suoi ideali di vita cortese e galante, grazie alla sua capacità inventiva che gli permette di rinnovare e vivificare la materia cavalleresca, inariditasi nelle mani dei cantastorie popolari.

Iniziato nel 1476 e mai concluso il poema vede la luce a Reggio Emilia durante la guerra con Venezia, nelle sue prime due parti (composte di 60 canti); conclusasi la pace nel 1484 l'opera viene ripresa, ma non prosegue oltre il nono canto della terza parte a causa della discesa di Carlo VIII.

Il Boiardo entra in contatto con il mondo favoloso del ciclo carolingio grazie alla ricca biblioteca di romanzi cavallereschi che il Duca Niccolò III e successivamente il figlio Borso avevano raccolto a Ferrara; egli sente così una profonda attrazione per quel mondo fantastico in cui mirabilmente innesta una serie di avventure individuali non in maniera sporadica, come era avvenuto nei precedenti cantari e nei poemi franco-veneti, ma in maniera continua secondo lo spirito fondamentale del poema che è il trionfo della passione amorosa in un intreccio di fiabesche vicende.

Ciò che più lo interessa è la favola la "bella istoria", che egli ravviva del suo canto immaginando di raccontarla ai signori e ai cavalieri di una delle più colte e raffinate corti d'Italia.

La trama, se di trama si può parlare, scaturisce apparentemente da una fusione del ciclo carolingio con il ciclo bretone; il poema è comunque unitario nella visione di una civiltà spirituale in cui si fondono le gesta d'armi dei cavalieri e la capacità di vivere la raffinata vita di corte.

Tema principale è l'amore di Orlando per Angelica, figlia del re del Catai. Essa compare ad un torneo indetto da Carlo fra tutti i paladini, cristiani e non cristiani, e sfida i cavalieri a combattere contro il fratello Argalia, in possesso di armi fatate: il premio per il vincitore sarà proprio Angelica, ma i vinti diventeranno suoi prigionieri; il suo fine è quello di sottrarre con l'inganno i migliori paladini di Carlo Magno alla guerra contro i Saraceni. Numerosi guerrieri infatti, infiammatisi d'amore per lei, accolgono la sfida, ma Ferraguto (o Ferraù) uccide Argalia e si impadronisce del suo elmo. Allora Angelica fugge verso l'Oriente, traendosi dietro Orlando e suo cugino Ranaldo, innamorati e rivali, incuranti dell'Imperatore e della cristianità.

I fuggitivi giungono poi nella selva d'Ardenna: Angelica beve alla fontana dell'amore, innamorandosi così di Ranaldo, il quale, beve alla fontana dell'odio, si ravvede e torna a Parigi.

Attorno alla rocca di Albraccà, dove la principessa si rifugia con Orlando, si ritrovano successivamente i suoi pretendenti, vecchi e nuovi quali per conquistare quali per difendere; tra essi è re Agricane che cinge d'assedio la rocca, ma viene abbattuto da Orlando stesso in un memorabile duello. Essendo stato Ranaldo richiamato in Francia da Carlo, per combattere contro il re africano Agramante che ha invaso la Provenza, Angelica torna in Occidente per inseguirlo scortata da Orlando, ardente ma timido amatore. sennonché, giunta di nuovo in Francia, essa beve alla fonte dell'odio e Ranaldo a quella dell'amore e la passione si inverte nuovamente.

Giunti tutti i paladini a Parigi per preparare la difesa, Ranaldo ha un forte contrasto con il cugino Orlando, a sciogliere il quale interviene lo stesso Imperatore, che affida Angelica al duca Namo di Baviera, promettendola in premio a chi mostrerà più valore nell'imminente battaglia contro i Saraceni.

Il racconto è poi interrotto con una stanza di congedo che deplora la guerra portata in Italia da Carlo VIII (l'Ariosto riprenderà poi esattamente da questo punto la narrazione, nel suo Orlando Furioso).

Vero spirito animatore del poema è l'amore, un amore idealizzato ed inserito in un gioco di fantasia tanto che l'epicità si dissolve nel gusto del meraviglioso.

Sulla trama principale pullula una miriade di episodi la cui materia è desunta da fonti medievali, ma anche classiche, profondamente rinnovate dallo spirito fiabesco in cui sono immerse.

Così attraverso l'appassionata partecipazione alle gioie, ai dolori, alle prodezze dei singoli personaggi si dimentica il resto della narrazione. Infinite sono infatti le vicende minori: si ricordi almeno l'innamoramento di Brandiamante, sorella di Ranaldo, per Ruggero, presentato come capostipite degli Estensi (innamoramento che troverà ampi sviluppi nell'Orlando Furioso).

Nell'Orlando innamorato scompaiono gli ideali religiosi e nazionali che avevano caratterizzato le precedenti narrazioni cavalleresche: la guerra contro i Saraceni interessa il Boiardo solo per le infinite vicende cui da origine; virtù e valore non sono cristiani o saraceni, ma rappresentano un valore assoluto verso il quale si intuisce la sconfinata ammirazione del poeta.

Emerge inoltre un distacco dalla realtà che fa si che l'autore giunga ad idealizzare l'eroismo e ad infondere una colorazione idillica a molte scene, secondo il gusto della colta e raffinata società umanistica, (ne è un esempio l'idillio di Angelica che s'innamora di Ranaldo addormentato e lo copre di fiori).

Il poema è percorso da una larga vena di comicità che si mescola, ma non si fonde, alla seria partecipazione del poeta alle idealità del mondo cavalleresco; tale comicità deriva da una arguta osservazione delle debolezze umane, da situazioni e gesti buffi, persino scurrili.

Tuttavia nell'Innamorato è riscontrabile una certa superficialità di narrazione, dovuta all'assenza di approfondimento psicologico dei personaggi, appena sbozzati e non delineati in maniera precisa attraverso una intensa vita interiore; in tal senso bisogna comunque sempre tener presente il fine dell'opera che è quello di dilettare la "baronia" ferrarese.

In ciò egli riesce abilmente, interrompendo sapientemente le avventure nel punto culminante ed introducendo poi brevi richiami agli avvenimenti precedenti in luogo della invocazione religiosa dei cantari popolari; e ancora inserendo nel mondo cavalleresco, organicamente fuse, reminiscenze di letture classiche e novelle italiane ben note ai suoi ascoltatori (ad es. la novella di Piramo e Tisbe). Forse all'origine del poema non è altro della gioia di evadere  dalla realtà quotidiana: esso si legge come un libro di avventure in cui , a tratti, fiorisce la poesia.

Non molta importanza deve essere attribuita alla forma rude ed incolta nel linguaggio, da lui maneggiato con libertà: abbandona i francesismi, i dialettismi ferraresi-emiliani, le locuzioni della parlata comune; la stessa incuria stilistica non può farci dimenticare la bellezza di Angelica, la passione di Brandiamante, l'ardimento di Ferraguto, la comicità delle avventure di Astolfo, il gioco d'amore che piega invincibili paladini come Orlando e Ranaldo.

Il Boiardo avrà poi come continuatore l'Ariosto che saprà imprimere al poema cavalleresco rinnovato l'orma del suo genio poetico.





Di un genere sorto in Spagna nella seconda metà del sec. XVI, fondato su una figura particolare di protagonista ("picaro"), imbroglione, astuto, ma non malvagio e spesso vittima di curiose peripezie.

La dottrina filosofica di Epicuro, fondata sulla ricerca di un equilibrio interiore, raggiungibile attraverso una serena padronanza di sé di fronte alle cose, nel soddisfacimento dei propri bisogni e nel godimento del piacere, e attraverso la libertà dal timore della divinità e della morte.

Aderenza eccessiva ai beni terreni e alle gioie della vita.

Ritrattazione in versi di quanto espresso in un altro componimento poetico; scritto in cui si ritrattino le opinioni già professate.

Che professa dottrine o opinioni religiose diverse da quelle riconosciute  ufficialmente da una confessione religiosa, un movimento culturale o un partito.

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