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La corte medicea




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La Corte Medicea




Nella Firenze del Quattrocento si riuniscono numerosi poeti ed artisti, sorretti da un mecenatismo che non si risolve solo in aiuti economici, ma anche in incitamenti alla creazione di opere d'arte.

Promotore di tale convegno di "grandi spiriti" (tra cui ricordiamo il Pulci, Pico della Mirandola, il Verrocchio, Michelangelo, il Pollaiolo, il Botticelli) è proprio Lorenzo de' Medici (1449-1492), che viene ricordato con l'appellativo di Magnifico.

Egli, ancora ventenne, si trova a capo della propria famiglia, dimostrandosi ben presto uomo di grande abilità politica: consolida il predominio del suo casato in Firenze e garantisce la pace all'interno della repubblica fiorentina, facendo inoltre da arbitro tra gli stati regionali della penisola e ponendosi al centro di una politica di equilibrio che risparmia all'Italia pericoli esterni per almeno quarant'anni.

Il Magnifico organizza fastosi spettacoli e ospita uomini di lettere tanto che Guicciardini afferma: "sebbene la città non fusse in libertà, nondimeno.. sarebbe impossibile avesse avuto un tiranno migliore e più piacevole".

Ma Lorenzo è anche un poeta di grande vivacità e armonia spirituale. Il suo Canzoniere con il relativo Commento in prosa (modellato sulla Vita Nuova di Dante) risente di influssi platonici, petrarcheschi nonché stilnovistici.

Risente ancora del platonismo per l'ideale d'amore inteso come contemplazione della bellezza, un poemetto in ottave, le Selve; tale titolo è dovuto alle numerose figurazioni allegoriche che s'intrecciano senza un disegno prestabilito ai quadri d'ispirazione realistica, così come nella selva nascono piante e arboscelli senza ordine. Due altri poemetti l'Ambra e il Corinto, di tono in apparenza idillico che via via diviene più realistico, segnano il distacco graduale da ogni concezione filosofica. Nel primo Lorenzo vuole creare una favola mitologica (a somiglianza del Ninfale fiesolano del Boccaccio) per celebrare la collina dove aveva fatto erigere la sua villa preferita, quella cioè presso Poggio a Cajano; nel Corinto, classico solo esteriormente, ci presenta due personaggi che sembrano venir fuori per magia della meravigliosa natura della campagna Toscana: il pastore Corinto che è, innamorato di Galatea, ma non essendo corrisposto effonde per lei lamenti d'amore.

Si è molto discusso circa il carattere essenziale della poesia del Magnifico che è di per se molto varia nei temi trattati, negli atteggiamenti spirituali e nei modi poetici assunti. Le sue liriche di solito si distinguono in rime di gusto popolaresco e rime colte (sotto l'influsso del Petrarca e dello Stilnovo); in realtà, come già visto, le rime colte si tingono di realismo, così come quelle popolaresche rivelano senso di misura e finezza stilistica.

Di certo però il realismo (inteso come attitudine dell'autore a darci il senso della realtà) diviene dominante nella Caccia col falcone e ne I Beoni: la prima composizione è il racconto, in ottave, di una partita di caccia; nella seconda il poeta immagina di incontrare, tornando in autunno in città, una folla di gente che si reca in un'osteria, quella dell'oste Giannesse, per gustarne il vino. Sfila così una processione di allegre caricature e buffe macchiette, in una sorte di parodia ai Trionfi del Petrarca; Lorenzo vi esprime realisticamente la tipica arguzia fiorentina della canzonatura che non risparmia alcun ceto sociale, neanche quello ecclesiastico.

La stessa spensieratezza è riscontrabile nei Canti Carnascialeschi e nelle Canzoni a ballo, opere che testimoniano l'ormai raggiunta maturità artistica dell'autore.

Era usanza in Firenze, nelle feste di carnevale e di calendimaggio , che i giovani, travestiti, percorressero le vie della città cantando e ballando in cortei raffiguranti divinità pagane, o in maschera caricaturali delle varie categorie artigiane, spesso su carri allegorici. Il Magnifico riprende tali usanze popolari, e compone egli stesso numerosi canti, poi musicati da esperti; essi sono generalmente brevi e conservano briosità e schiettezza popolare. Il più famoso è il "Trionfo di Bacco e Arianna" i cui personaggi mitologici, pur trasmettendo allegria e spensieratezza, richiamano alla caducità del tempo, alla tristezza del "carpe diem" oraziano, traducendo il senso del finito che, nonostante tutto tormenta l'anima del Rinascimento.

La Nencia da Barberino, è un'altra opera poetica degna di nota; scritta in ottave essa è stata attribuita al Magnifico per lungo tempo, ma studi recenti sembrano averla attribuita piuttosto ad un Giambullari (forse padre dello storico). Sia stata composta da Lorenzo o no, essa comunque si rivela opera di grande valore artistico, suscitando l'ammirazione di poeti come Carducci e Leopardi; rappresenta con crudo realismo la celebrazione del fascino di Nencia da parte del pastore Vallera, che si esprime originalmente nel suo linguaggio contadinesco.

Concludono e completano la personalità artistica del Magnifico le Laudi e la Sacra Rappresentazione dei Santi Giovanni e Paolo, composta per un gruppo di studenti di catechismo; in essa l'aspirazione religiosa rimane nell'ambito della concezione umanistica di un Dio cui gli uomini possono avvicinarsi attraverso i beni terreni, che sono immagine transeunte del divino. Il senso di limite, di finito che sovrasta ogni gioia terrena, appena offuscato dalla gioia della festa mondana, richiama una meditazione sul significato ultraterreno dell'esistenza: così Lorenzo cerca e trova conforto in Dio.

La figura più rilevante della corte Medicea è però indubbiamente Angelo Ambrogini (1454-1494) detto dal nome latino della sua patria, Montepulciano (Mons Politianus), il Poliziano.

Orfano del padre a soli dieci anni si reca a Firenze a studiare e a cercare fortuna; si rende noto nel circolo mediceo con una versione latina di certi libri dell'Iliade, che dedica al Magnifico. Questi gli affida nel 1473 l'educazione del figlio Piero e poi di Giovanni; a ventisei anni ottiene la cattedra di eloquenza greca e latina sempre a Firenze, ma in seguito ad un contrasto con Clarice Orsini, moglie del suo protettore, viene allontanato per breve tempo dalla città. Nel 1480 è ospite dei Gonzaga a Mantova, dove compone la "favola" teatrale dell'Orfeo in occasione delle nozze tra Francesco Gonzaga e Isabella D'Este.

Ma la rappacificazione con Lorenzo non tarda a giungere e a Firenze lo coglie la morte, appena quarantenne.

La produzione giovanile ci dà un saggio della capacità del Poliziano di infondere ai suoi versi eleganza classica: troviamo numerose odi ed elegie latine, insieme ad epigrammi greci; la più nota di tali composizioni e un'elegia scritta per Albiera degli Albizzi, morta sedicenne, alla vigilia delle nozze.

Le Sylvae (chiamata così per l'estemporaneità della loro composizione) sono scritte a prolusione dei suoi corsi universitari (Manto, Rusticus, Ambra, Nutricia). Si tratta di dotte esercitazioni in versi che mirano a tratteggiare la figura del poeta di cui l'autore si appresta a leggere e commentare le opere, inquadrate in miti fantasiosi o racconti di vaste proporzioni storiche. In una sua lettera all'umanista romano Paolo Cortese il Poliziano teorizza l'uso vivo e moderno del latino; inoltre contro i propugnatori dell'imitazione di un unico modello di stile, Cicerone appunto, sostiene che lo stile è personale e può risultare dall'assimilazione di vocaboli ed espressioni derivate dagli autori di ogni età. Tali idee sono esposte anche nelle sue Praelectiones, o prolusioni che teneva ai corsi dello studio fiorentino, scritto in prosa.

Ma l'eco delle sue lezioni accademiche ci giunge anche dalla Miscellanea, raccolta di osservazioni, interpretazioni, chiarimenti di questioni linguistiche ed archeologiche, dove procede a valutare quelli moderni; di recente scoperta è la seconda Centuria, rimasta però incompleta per la morte dell'autore.

Solo però nel Poliziano volgare è possibile trovare pagine degne di essere annoverate tra le più belle della poesia italiana e soprattutto nelle Stanze per la giostra del Magnifico Giuliano , poemetto in ottave, scritto per celebrare le prodezze compiute da Giuliano de' Medici (fratello minore di Lorenzo) nella giostra tenuta a Firenze nel 1475 in onore di Simonetta Cattaneo. Della giostra arriva a narrare solo la premessa in quanto la morte di Giuliano nella congiura dei Pazzi fa sì che l'opera si interrompe nel secondo canto. Ne è lieve intreccio una favola amorosa: il giovane Iulo è dedito alla caccia e disprezza quel "mal giocondo" che è l'amore; per le insidie di Cupido giunge durante una partita di caccia in un boschetto dove gli appare una bellissima ninfa, Simonetta, di cui s'innamora immediatamente. Cupido allora si affretta a tornare nel regno di Venere ad annunciare la sua vittoria alla dea madre, la quale infonde a Iulo il desiderio di distinguersi nelle armi per conquistare il cuore della ninfa. Il poema si interrompe a questo punto.

Nelle Stanze la contemplazione della realtà precisa è ispirata dall'amore della bellezza sensibile, e trova esiti felici nei quadri pittorici dove la cura dei particolari si accompagna ad un senso armonico di linee e colori che rende inevitabile il richiamo al suo concittadino e contemporaneo Botticelli.

Così spettacoli di aperte campagne e di scene bucoliche sfilano nell'elogio della vita agreste tessuto da Iulo: la natura che fa da sfondo alla breve favola è colta nei vividi colori della primavera. Simonetta è l'anima di tale mondo fatato: appare improvvisamente come un'immagine di sogno e scompare con la stessa leggerezza, lasciando dietro di sé il rimpianto di una visione troppo bella perché possa durare a lungo e tra il pianto della natura echeggia quello del cuore di Iulo. Ancora il regno di Venere, con le porte istoriate di rilievi mitici, con personaggi allegorici divenuti figure umane e con l'eterna primavera è il luogo, dove "non volgan gli anni a lor quaderno": è l'immagine insuperata di quell'immobile felicità terrestre che sognano i poeti del Rinascimento.

La bellezza è così fermata in un clima primaverile dove tutto è armonia e grazia, e solo lontanamente giunge l'eco delle passioni: un'atmosfera di sogno, al di là del quale è la vita vera e dalla precarietà del sogno scaturisce una vaga malinconia.

Nelle Stanze Poliziano ha saputo creare un mito nuovo, quello dell'eterna giovinezza, mito che s'incrina lievemente nella consapevolezza della caducità delle cose terrene.

Il motivo della fugacità della bellezza ritorna nella Favola d'Orfeo, primo componimento scenico letterario di argomento profano nella storia del nostro teatro in volgare: per la prima volta si rappresenta nello schema della Sacra Rappresentazione una materia profana. Del dramma sacro riprende l'annuncio dell'argomento (fatto però da Mercurio anziché da un Angelo), la bocca dell'Inferno sulla scena e il metro, che è l'ottava. Come detto in precedenza l'Orfeo risale al soggiorno mantovano del poeta; composto in occasione del matrimonio di Francesco Gonzaga e Isabella d'Este, tratta la storia mitica di Orfeo ed Euridice: amata da Aristeo, un giovane pastore, che la rintraccia e la insegue, Euridice fugge, ma viene morsa da una serpe e muore. Orfeo, disperato, decide di scendere alle "tartaree porte": il suo dolcissimo pianto commuove gli dei d'Averno che gli concedono di riportare la sua amata moglie sulla terra, a patto di non voltarsi indietro a contemplarla prima di essere tornati alla luce del sole. Il suo immenso amore fa sì che Orfeo contravvenga al divieto, perdendo Euridice per sempre. Uscito allora dall'Averno, Orfeo impreca contro le donne e contro l'amore, ma suscita l'ira delle Baccanti che lo uccidono e ne straziano il corpo.

Nelle interpretazioni allegoriche del tempo il mito di Orfeo racchiude un significato mistico (cui lo stesso Lorenzo de' Medici accenna in un commento alle proprie rime), ma nella poesia della Favola non rimane nulla di tale significato allegorico se non la tristezza dell'universale fine delle cose; tale tristezza, già espressa da Orfeo nella preghiera agli Dei d'Averno, affinché gli restituiscano l'amata, trova ancora riscontro in una lettera in cui il Poliziano esprime il proposito di superare nella gloria degli studi la malinconia che scaturisce dalla caducità della vita terrena.

Del resto la vicenda di Orfeo non è sentita drammaticamente dall'autore, ma è risolta in espressioni liriche, come il lamento di Aristeo, la preghiera di Orfeo o ancora il coro delle Baccanti; è così escluso ogni conflitto interiore e alla realtà della passione è sostituita l'irrealtà dell'immaginazione

Le composizioni che costituiscono la lirica minore del Poliziano sono state definite improvvise e fuggitive: su tutte (Canzonette, Canzoni a ballo, Rispetti , Strambotti ) emerge la "Ballata delle rose" in cui una bionda fanciulla canta, in un mattino di primavera, la malia esercitata sul suo animo dai fiori, soprattutto le rose, la cui vita fugace si traduce in un dolce invito a godere la giovinezza, anch'essa preziosa e fuggitiva.

Sempre nell'ambito della corte medicea opera un altro grande poeta: Pulci, ma di lui si tratterà approfonditamente nel paragrafo che segue.









Appartenente all'ambito letterario dell'Idillio (= Quadretto georgico o pastorale realizzato in un breve componimento poetico o musicale, generalmente improntato ad una incantata serenità.


L'antica festa del primo giorno di maggio, che si festeggiava nella Firenze rinascimentale inneggiando al risveglio della natura e alla bellezza femminile.

La qualità delle cose destinate a perire, labilità.

Destinato a passare in quanto soggetto alla legge del divenire.

Carattere estemporaneo, pronunciato cioè o scritto senza preparazione, improvvisato.

Discorso introduttivo. Prima lezione di un professore universitario nominato o trasferito di recente

Strofa parte della canzone o componimento autonomo; spesso sinonimo di ottava (strofa in 8 versi).


Componimento popolare in versi, di carattere amoroso, formato da una strofa di quattro endecasillabe a rime alterne seguiti da una o due coppie a rime baciate.

Breve componimento poetico, proprio della poesia popolare, generalmente in ottave e a rima alterna.

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