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Intervista a Carla Chiappini




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Intervista a Carla Chiappini



Carla è una giornalista con la passione dello scrivere, del far scrivere, del comunicare attraverso la stampa. È impegnata in un contesto nel quale il suo lavoro assume valenza pedagogica e di aiuto. Vediamo insieme a lei come vive questo suo ruolo e cosa ne pensa delle potenzialità pedagogiche della scrittura.



Nel mio ultimo capitolo ho parlato delle realtà carcerarie nelle quali viene utilizzata la scrittura: laboratori di scrittura creativa, siti internet e giornali. Mi puoi parlare del tuo lavoro di formatrice nella redazione di Sosta Forzata?


Partendo dal punto che, comunque, io mi sento più giornalista che formatrice, dato che la mia formazione è giornalistica. Mi sono resa conto, però, che lavorando in un posto in cui le persone non scrivono abitualmente, e comunque sono abituate molto poco anche a raccontare di sé, una formazione per me sull'uso della scrittura autobiografica nei luoghi di cura era molto importante. Seguendo un corso a Milano con Demetrio, ho imparato come dei piccoli trucchi a volte riescono a smuovere delle resistenze. In carcera la gente parla pochissimo di sé stessa, ancor che meno in un gruppo perché sa che è rischioso scoprire delle fragilità; col sistema della scrittura, abituando a degli esercizi piccolissimi, sono arrivata a scoprire nelle persone con cui lavoravo, dei particolari della loro vita molto diversi, anche molto riservati che mi hanno costruito una immagine di loro più completa. Questo è stato utile soprattutto per rispondere ad un mio desiderio/sfida che è quello di far scrivere qualcosa a tutti, allora con dei trucchi anche minimi, proponendo anche una sola parola, e dicendo "voi su questa parola scrivete quello che vi viene in mente immediatamente", ho visto tante cose. Per esempio ho visto delle persone che facevano poca fatica, e quindi facilmente scrivevano dei ricordi da bambini, dei loro papà, ma ho visto anche persone che si rifiutavano proprio di tornare indietro, oppure che resistevano molto e poi quando riuscivano a scrivere raccontavano cose dolorose, malinconiche.

Queste scritture in carcere sono diventate una risorsa preziosa, perché una comunicazione dal carcere non può essere un blaterare sulle questioni nazionali, internazionali e politiche, deve essere qualcosa che parla di quel posto, e un modo per parlare proprio di quel posto, in maniera efficace è parlare di che persone sono oggi in carcere, che storia hanno, che provenienza, che vicende umane. Incredibilmente la scrittura anche per un gruppo di persone con una cultura medio-bassa avendole alleggerite dall'obbligo di scrivere bene, che è molto condizionante, è stato uno strumento validissimo. Mi ha regalato delle bellissime sorprese, nel senso che quando ormai ero disperata e non sapevo più come chiudere il giornale ho avuto dei regali dalle persone da cui non pensavo mai di poter avere delle sorprese,         queste mi hanno portato degli scritti per me molto preziosi.


Queste persone scrivono anche spontaneamente o hanno bisogno sempre di una sorta di stimolo?


In carcere si scrive per tantissimi motivi: alcuni scrivono lettere, oppure si fanno scrivere lettere dallo scrivano, per i propri cari perché mancano, per questa grande nostalgia che c'è.

Poi c'è chi scrive probabilmente per cercare di capire cosa è successo, per non perdere il filo. Mi ricordo del diario di un ragazzo che aveva scritto nel periodo di isolamento, il suo era un isolamento strano perché non era punitivo ma dovuto al fatto che era venuto da un altro carcere con una malattia contagiosa, cioè la Scabbia, e quindi non l'hanno potuto portare in sezione. Ha dovuto fare questo isolamento abbastanza lungo proprio nel periodo natalizio, e quindi quando mi ha portato questo quaderno mi ha detto: «Carla, questo qui l'ho scritto per non diventare matto». Nel quaderno c'era la storia sintetica della sua vita, con una serie impressionante di lutti e di dolori, che alla fine non potevano lasciare indifferenti, ma sono convintissima che lui lo aveva scritto solo per sé.

C'è anche una persona che scrive canzoni, e quindi scrive delle cose in canzone, spesso in cui parla di sé , del suo bambino.

Infine ci sono quelli che vanno stimolati, che non scriverebbero. Ci sono gli stranieri che fanno questo sforzo enorme di scrivere in una lingua non loro e a questo proposito c'è anche chi dice che sarebbe meglio lasciare che loro scrivessero nella loro lingua e poi cercare di tradurre insieme, io personalmente dopo averci molto riflettuto amo molto la scrittura degli stranieri, perché è una scrittura immediata, non c'è elaborazione linguistica, non c'è quel vezzo, non c'è quello che è inutile, le persone straniere scrivono i fatti essenziali. La semplicità del linguaggio non toglie per niente l'efficacia, io naturalmente parlo da lettore, non so se per loro sarebbe meglio o peggio scrivere nella loro lingua, ti dico che per chi legge l'essenzialità è emozionante e molto bella. Questa è una cosa su cui rifletto molto spesso perché mi è capitato più volte di vedere che anche delle persone semplicissime con poca conoscenza della lingua riescono a dire delle cose che in qualche modo fanno pensare.


Sempre parlando delle scritture di vita qual è il limite tra la verità e l'elaborazione fantastica degli avvenimenti?


C'è un po' di entrambe le cose. C'è una forma di romanzo quando la scrittura racconta le gesta passate, esiste in carcere questa scrittura in cui ci sono racconti che sono evidentemente romanzati. Parlano in genere di rapine. Ma ne ho avuti pochi. In genere sono i vecchi di galera che si raccontano con queste gesta un po' romanzate. Nelle persone che parlano di sé stesse o della carcerazione vedo pochissima manipolazione, in genere scrivono proprio quello che è vero.

Credo che la verità di una scrittura si percepisca, dove c'è finzione, si sente qualcosa che non va, che non risponde ed a me è capitato veramente poche volte, se non nei racconti delle rapine oppure a volte quando viene messa un po' di enfasi sulle storie amorose. Nel momento in cui vanno a toccare le loro storie, le loro sofferenze, lì c'è tanta verità.

Penso che questo nasca anche dal fatto che si cerca di creare una situazione in cui loro si fidino. Poi esiste una forma di sollecitazione che è come se contagiasse il gruppo: se uno di loro comincia a scrivere una cosa vera, io mi sono accorta che istintivamente stimola gli altri a scrivere cose vere, anche quando ragioniamo tra di noi, se c'è un intervento ben fatto, approfondito, serio poi gli altri fanno fatica a spostare il piano su una cretinata. C'è una forma di contagio per cui quelli che sono da più tempo in redazione scrivono delle cose che poi gli altri riprendono.

Questo è il grande segreto dei gruppi di scrittura autobiografica: la scrittura di me suscita la scrittura di te perché magari c'è un piccolissimo particolare che ti fa venire in mente una piccola cosa che avevi nascosta dentro, ed è un contagio molto bello e divertente.

Questo non succede con la parola, perché è molto diverso, anche se si è tutti lì e si scrive insieme, c'è un momento di riflessione che quando si parla non può esserci.


A livello di gruppo nonostante si scriva di cose così delicate non si teme il giudizio dell'altro?


Il momento in cui si scende in profondità è un momento raro, magico, un momento carico di emozioni che non succede poi tanto spesso. Di solito si parla seriamente ma non ci si regala più di un tanto. Certamente nel momento in cui uno ti regala una riflessione più profonda, qualcosa di proprio suo, succede spesso che qualcun'altro abbia lo stesso desiderio.

Dal primo momento in cui le persone arrivano in redazione al momento in cui danno un contributo profondo ci vuole tempo. I nuovi arrivati vedo che stanno molto in silenzio, ascoltano, c'è ancora molta osservazione.

Un ragazzo nigeriano è venuto per un anno in redazione e non ha mai scritto e non ha mai aperto bocca, quest'anno ha iniziato a collaborare e mi ha detto che è perché solo adesso riesce ad avere fiducia.

Ci sono persone anche abbastanza anziane che rischiano comunque, dicendo una cosa di sé. Come fanno anche i giovani. Però ci sono dei temi su cui proprio cala il silenzio. Per esempio mi è successo con un ragazzo che normalmente scrive molto ed è di mamma italiana e di papà del Camerun, gli ho chiesto come lui si sentiva dentro se italiano o africano, e di scriverlo. Ma non è riuscito, mi ha scritto tutt'altro.

C'è un livello oltre cui la scrittura è proprio una scommessa. Per esempio c'è lo scrivano che ha scritto che a lui piace molto quel ruolo, perché è un ruolo di aiuto, ho chiesto a lui di aggiungere dieci righe al testo nel quale doveva spiegare il perché a lui piace così tanto aiutare le persone. Invece mi ha portato tutt'altro, una ripetizione di quello che aveva già scritto. Sotto quello evidentemente non riusciva a scendere perché in quel momento non era possibile.

Però è bello e anche misterioso, perché ogni tanto c'è questa apertura, c'è come una porta che si apre e una persona comincia e regala anche cose molto belle.


Chi scrive sul giornale, lo fa solo per sé o anche per comunicare la vita del carcere a Piacenza? 


Loro hanno molta consapevolezza e ci tengono molto ad essere pubblicati. Devo dire che c'è una forma di vanità, che accomuna tutti i giornalisti e gli scrittori del mondo, di vedere le proprie cose sul giornale. Anche se all'inizio è un dialogo con sé stessi, però non spiace far leggere le proprie cose. Se così non fosse i racconti non me li darebbero nemmeno.

Sono persone veramente escluse che vivono una solitudine pesante perciò l'idea di aprirsi un varco, una finestra al di là di questo isolamento non dispiace. Qualcuno scrive anche per le famiglie, piace far vedere a loro il giornale.

In redazione c'è sempre il senso di questa cosa che stiamo facendo, il dire come si sta dentro, come si soffre, come è pesante il carcere, questa responsabilità la sentono molto. Sentono di essere la voce di un mondo un po' sommerso.


Infatti ho visto che molti articoli sono di protesta, di denuncia.


Si, assolutamente sì, anche perché c'è moltissima ingiustizia e c'è molta rabbia.

La rabbia è uno dei sentimenti del carcere insieme alla paura e alla nostalgia. La nostalgia è fortissima soprattutto per gli stranieri, non c'è persona straniera che non dica e scriva la mancanza per il suo paese. Questo sarebbe un dato su cui sarebbe bello riflettere.


In questo lavoro voglio dimostrare che la scrittura ha una potenzialità pedagogica e quindi di cambiamento. Tu hai potuto vedere in prima persona detenuti cambiare grazie anche alla scrittura?


Ho visito delle persone sicuramente esprimersi con maggiore serenità, ho visto persone far gruppo in un posto dove non esiste se non la solitudine. Quanto la scrittura abbia aiutato le persone che ho visto, a me non è dato sapere, non riesco, ma glielo auguro.

Ho visto cambiare la loro scrittura, li ho visti scendere sempre di più nei dettagli, li ho visti scrivere più sereni, collaborativi. Ma affermare da questo che la scrittura li ha cambiati non posso. Io credo che la scrittura aiuti tutti e quindi che aiuti anche loro.

Questo tipo di lavoro in cui si scrive per qualcuno da comunque un senso di utilità, cioè la percezione di poter essere ancora utili a qualcosa. In maniera più o meno espressa, più o meno consapevole c'è questa percezione. Possono affermare: «sono ancora in grado di fare qualcosa di buono, di utile, forse anche un giornale del carcere».

Poi credo che la scrittura sia formidabile anche per le lunghe detenzioni, perché i cambiamenti delle persone hanno dei tempi lunghissimi, se no sono solo delle rapide conversioni superficiali, sono un pensare: io mi rendo conto che per uscire devo dire quella cosa, e gliela dico. Ma non è un vero cambiamento, i cambiamenti sono lunghissimi, quindi nelle lunghe carcerazioni, nelle redazioni come quella di Ristretti Orizzonti, vedi veramente delle cosa che hanno dell'incredibile, vedi persone che magari hanno commesso reati gravissimi, riuscire a descrivere, non il reato, ma la situazione in cui accaduto, dopo 5, 6, 7 anni. Io non posso pensare a tempi lunghi, io vedo le persone per poco tempo. Mi piace però pensare che loro riacquistino un po' di fiducia.


Forse il cambiamento riguarda una maggiore consapevolezza?


Sì, consapevolezza del senso di quello che stanno facendo. I tempi sono lunghi, molte volte vedi le persone per un anno, poi escono e quelle cose belle che hanno fatto si perdono, o magari non succede. Io quello che posso dire è che restano dei contatti, dell'affetto e della stima.

Io vorrei sperarlo, ma abbiamo dei tempi così ristretti, siamo di corsa, li vedo più sereni, ma non so mai qual è il vero strumento di  questo, se il fatto di aver lavorato in gruppo, se il fatto di avere un'attenzione personale, data dal fatto che ognuno di loro è in quel momento un giornalista, uno scrittore, forse bisognerebbe sentire loro.

Io ti posso dire che nella mia vita la scrittura mi ha aiutata.


La scrittura, perciò, secondo te può avere questo effetto anche in altri contesti problematici, in cui comunque vi sia devianza, sofferenza..


Sì, sicuramente. È uno strumento che io trovo meraviglioso, che da una voce anche alle persone che non l'avrebbero. Nella scrittura anche la persona timida che nel gruppo non parlerebbe mai ha la possibilità di esprimersi. È molto utile leggere insieme queste cose, è molto utile condividerle perché io sono convinta che oltre all'aiuto che la mia scrittura offre a me, è molto utile quello che la scrittura di altri riesce a dare a me.

C'è sempre nella storie di queste persone un piccolo filo in comune, un incrocio. Sono storie diverse in cui si vedono proprio delle cose affini, per esempio ci sono tanti ragazzini che hanno perso la mamma giovanissimi, se uno di loro riesce a scriverlo una volta l'altro forse la volta dopo riesce a scriverlo, e l'altro ancora.questa catena mi piace, questo fatto che l'esperienza di uno possa comunque sollecitare e aiutare l'altro a descrivere e raccontare la sua esperienza, questo sì, è sicuramente  terapeutico. Queste cose nel carcere, altrimenti, rimarrebbero sprofondate nel profondo dello stomaco, così invece riescono ad uscire.

Per me è una passione grandissima, e in tanti anno non ho mai visto controindicazioni, non ho mai visto in questo lavoro qualcosa che abbia ferito o fatto del male a qualche persona, no, è in fin dei conti una delle pochissime cose di una certa profondità che si può fare dentro al carcere in modo indolore.

Non è facile, ma nella scrittura è la persona che si dosa, dosa il suo intervento, la sua confessione, la sua riflessione; invece nel parlare certe persone o si chiudono o se eccessivamente pungolate non stanno bene. In carcere se tu vai a toccare dei temi che risultano molto delicati, non in generale, ma per quella persona in quale momento, puoi farle male. In genere sono gli affetti, scrivendo da sé uno sceglie quello che vuole dire, quello che non vuole dire, in qualche modo c'è però sempre una parte di sfogo.


I detenuti auto-dosano i loro interventi, ma tu dopo averli letti pubblichi ogni loro scritto? O ci sono degli interventi che preferisci non pubblicare?


In genere, ho scelto solo in base alla qualità, nel senso che se c'erano cose troppo banali non le pubblico.

L'unica volta che mi sono rifiutata di pubblicare qualcosa, era tutta un'altra valutazione. Era di una persona che aveva commesso due omicidi e aveva scritto una lunga memoria in cui sostanzialmente si difendeva, non tanto dai giudici, che lo avevano giudicato condannato ma nei confronti della versione data dai giornalisti, pretendeva che la sua versione dei fatti avesse voce. Addirittura voleva che avesse una voce tonante, che andasse su un quotidiano locale. Quella volta abbiamo molto litigato, e non mi sono prestata perché non ritenevo opportuno che i genitori e i famigliari delle vittime fossero ri- immersi così brutalmente in quella storia.

In genere direi che a parte quando attaccano troppo pesantemente le istituzioni e so già che pagherebbero pesantemente per quello, pubblico tutto. Magari, prima di decidere, ne discutiamo insieme e chiedo se è proprio convinto di quello che ha scritto. Ma non pubblico solo le cosa che attaccano in specifico quella istituzione.


Nell'equipe di psicologi e educatori chiedono un tuo parere o un tuo contributo alle osservazioni?


C'è stato un momento in cui volevano che entrassi in questa equipe allargata, ma io mi sono rifiutata. La relazione che ci deve essere tra me e loro è una relazione privata, il nostro non è un gruppo di osservazione nella maniera più assoluta, io non sono in grado di osservare nessuno, non so chi di loro si salverà e chi ricadrà. Non lo so e non è il mio compito.

Ma non lo sanno neanche loro, rare volte mi è capitato di sentire persone che volevano uscire e fare ancora degli "sfracelli". In genere sperano di ritrovare la moglie, la famiglia, un po' di pace.

Chi scrive deve sentirsi libero di cambiare idea anche cinque minuti dopo, perché in quel momento preciso sentiva quelle cose e le ha scritto. Non devono essere osservate e sviscerate come se fossero uno strumento di analisi, se non le persone non scrivono più. Oppure scrivono delle bugie.

C'è già comunque una forte auto-censura in carcere, tante volte cose che escono a voce poi non vengono scritte, mi è capitato più volte. Ci si accorge che le cose stanno vacillando, ma per un detenuto dichiarare una crisi matrimoniale vuol dire ammettere di non avere una situazione tranquilla, vuol dire ritardare l'affidamento in prova o qualsiasi misura alternativa, il prezzo è troppo caro, la verità si paga troppo. Allora magari alludono solamente.

Non voglio sentirmi in quell'ottica, io sono una giornalista, io mi occupo di comunicazione e ho un obiettivo su tutti: dire cos'è il carcere, che persone ci finiscono dentro, quanto stanno male, quanto per esempio in un futuro si potrebbe farli stare meglio, con una visione un po' più ampia, più moderna della detenzione, questo è il mio obiettivo.

Poi che all'interno di questo nascano amicizie, confidenze, conoscenza va benissimo. Ma il mio desiderio non è di fare cambiare quelle persone, glielo auguro, però non è quello che io devo fare. Devo semplicemente aiutarli a raccontare, con la speranza che la gente si renda conto che molte delle proiezioni che abbiamo noi sul carcere sono proprio delle fantasie, e la fantasia a volte è dannosa.

Questo è il mio punto di partenza, ed è anche l'unico modo per lavorare lì dentro. Se ti metti in una posizione ambigua a metà tra l'educatore e lo psicologo, è un disastro. Mentre io ripeto e ribadisco chiarissimo che sono una giornalista che vuole fare un lavoro di comunicazione con precisi obiettivi dichiarati prima, da lì poi nascono belle cose.


Dall'istituzione penitenziaria il laboratorio giornalistico è vista come parte del trattamento?


Sì, come tutte le attività culturali e lavorative, sono messe in questo grande "pentolone" che è il trattamento penitenziario. Ma questa parola è estremamente ambigua, potrebbe essere anche il modo in cui vengono trattate le persone.

Il giornalismo è parte del trattamento come tutte le attività proposte, come la scuola, il lavoro, il cineforum, che vanno ad aiutare attraverso la formazione culturale in un contesto come quello del carcere.


Aiutano ma non hanno come scopo quello di aiutare?


Sì, o meglio avendo come scopo quello di aiutare, ma come avviene all'esterno.

Se io facessi quel lavoro all'esterno, l'ho fatto, avrei lo stesso desiderio di tirare fuori da quelle persone tutto il meglio o il dolore che hanno. Non perché secondo me quelle persone devono cambiare, io a loro lo dico «a me non interessa che voi cambiate, dovete semplicemente non commettere più reati, basta». Non è importante che uno stravolga la sua personalità, l'importante è scegliere con decisione una strada che non riconduca qua dentro, poi si cambia in questo sforzo. Questa ossessione del cambiamento la vedo come una sorta di violenza, già loro lì dentro stanno male, esiste una richiesta più alta per un essere umano di quella di cambiare? È una richiesta secondo me altissima, ai limiti della follia in quel contesto soprattutto.


Forse sarebbe meglio al posto di cambiamento usare la parola consapevolezza?


Sì, avere una capacità di scelte giuste, avere più fiducia in sé stessi, avere più razionalità, per molti di loro credo sia importante avere più calma, più ponderatezza. Però il cambiamento molte volte viene inteso in altro modo, come manipolazione.

Non «devi cambiare» ma «devi ragionare». Perché molte volte le storie si complicano per panico, per insoddisfazione, per delle cose anche piccole, per delusione, fondamentalmente perché uno decide che non ne vale più la pena di fare tanto sforzo. Nel momento in cui uno decide che quello sforzo non ne vale più la pena, è finita, ricade al 99.9%.

Certo che se io riuscissi a pensare che qualcuno di loro si appassiona alle belle cose, a un bel libro, a un bel film, sarei felicissima, ma non so se ci si riesce.

Io so che loro lì, in quel momento, danno il meglio di sé, di questo sono convinta, stanno proprio dando il meglio e questo mi fa tanto piacere.

Quello che io chiedo a loro è il meglio, gli chiedo di essere come io li vedo, li vedo delle persone in gamba, intelligenti, anche buone, e forse in questo insistere nel vederli così li costringo un po' ad essere così.

E' uno strano gioco, però c'è tutto l'apparato penitenziario che disgusta queste persone, ed è disgustato da queste persone, in quei momenti, come a scuola o a giornalismo, gli viene detto un'altra cosa, «per me in questo momento sei una risorsa importante, perché dobbiamo fare un lavoro insieme e quindi devi dare il meglio per fare il miglior giornale possibile», ogni volta dico che dovrà essere il miglior giornale che facciamo. Non sempre ci si riesce, a volte è difficile, però io credo che nel vedersi in un ruolo positivo effettivamente assumono un atteggiamento positivo, questo indipendentemente dalla scrittura.

La cosa più importante alla fine è questa: non perché loro sono lì, in quel contesto, con quel peso, con quella macchia che è il loro reato, io ho un atteggiamento diverso da quello che avrei fuori. Se avessi un gruppo di persone che devono ragionare sulla comunicazione mi verrebbe da fare la stessa cosa, cioè di dire loro che sono bravi, che ce la devono fare, che se lavoriamo insieme qualcosa di assolutamente straordinario verrà fuori.

Questa è proprio una mia passione, vedere le persone sfidare i loro limiti, perché se chiedi ad un ragazzo turco di scrivere in italiano, gli chiedi di sfidare un suo limite, se vedi una persona anziana chiusa che ti racconta del suo papà ti stupisce e ti rendi conto che allora lavorando, qualcosa di bello è saltato fuori. Non so se questo è una lavoro da educatore, è un qualcosa che a me piace molto.

È bello dare la possibilità alle persone di descriversi invece di essere descritte, perchè le parole che uno sceglie per scrivere di sé sono molto più aderenti a se stesso, alla sua coscienza, ai suoi sentimenti. Le parole che uso io sono solamente le mie, sono le parole di Carla.


* *


Nonostante le numerose chiacchierate fatte in questi mesi con Carla quest'ultima è stata per me una scoperta. La riflessione sul suo vivere la professione di giornalista all'interno del carcere e su quello che lei si aspetta dalla scrittura è qualcosa di nuovo rispetto a ciò che è stato detto e ripetuto nelle pagine precedenti. Carla ha sottolineato come il suo compito non sia educativo, e ancor meno quello di cambiare le persone. Lei chiede ai detenuti di scrivere, dando il meglio che possono e andando a fondo nelle riflessioni, si impegna perché la redazione sia un gruppo unito e collaborativo, concentrato verso l'obiettivo finale che è quello di mandare in stampa il giornale, offre ai detenuto la possibilità di assumere un ruolo positivo, in cui sentirsi utili e apprezzati, instaura con loro una relazione di fiducia e rispetto. Tutto questo genera, senza avere come scopo quello di generare, un processo fortemente auto-educativo e curativo. Le persone progressivamente vanno più a fondo nel loro raccontarsi, vivono più serenamente la loro condizione e aprono di fronte a sé spiragli a un futuro diverso che non riconduca nella cella di un carcere.

Il laboratorio di giornalismo si dimostra così un eccellente occasione riabilitativa e curativa all'interno delle opportunità offerte dal Trattamento Penitenziario.



















Conclusioni





Nello svolgersi dei capitoli abbiamo scoperto un nuovo modo di considerare la scrittura, diverso dal semplice mettere una dopo l'altra le parole sul foglio in modo artificioso e grammaticalmente corretto.

La scrittura si è dimostrata un efficace strumento di cura. Attraverso lo scrivere autoanalitico l'individuo, dopo aver impresso sulla carta i propri pensieri autoanalitici, dopo averli riletti, viene travolto da una consapevolezza che non ha confronti: la consapevolezza di esistere più che mai. La scrittura impedisce a chi la compie di dimenticare di essere esistito, di essere ancora in vita e di avere infinite possibilità di fronte a sé.

All'interno del carcere tale consapevolezza è ancora più significativa, perché queste persone costrette a vivere isolate dalla società, dagli affetti, abituate a pensarsi come errore e devianza, nella scrittura trovano un modo per comunicare, un modo per essere utili a qualcosa di positivo, per iniziare a pensare a sé stessi in un nuovo ruolo, gratificante e costruttivo.

Mettere per iscritto i propri pensieri, dare la possibilità agli altri di leggerli, riconoscere quello che si prova e che si desidera richiede un grande sforzo e una dimostrazione di coraggio.

Essere determinati nel dare un nome alle cose è molto importante, permette di identificare cosa è accaduto, cosa ci circonda e cosa si desidera per il futuro, senza nascondersi dietro bugie o mezze verità.

Entra così in gioco una autentica assunzione di responsabilità verso sé stessi e una consapevolezza maggiore, di ciò che nella propria vita, volenti o nolenti, è accaduto, e apre spiragli per un futuro più felice, che non riconduca ancora nella cella di un carcere.

Nell'arrivare a queste conclusioni è stato molto interessante leggere i racconti, le riflessioni, le lettere di chi è detenuto, e scoprire che quello che cercavo non era nelle pagine di un manuale di pedagogia, o nelle parole di qualche erudito, ma nella semplicità delle parole di chi soffre perché la sua vita si è dimostrata un fallimento, perché i figli crescono senza gli abbracci di un genitore, perché il debito con la società va saldato, e la libertà verrà restituita solo al termine degli anni decisi da un giudice.

Mi piacerebbe che anche la scrittura della mia tesi avesse risvolti di cambiamento.

La scrittura all'interno delle carceri dovrebbe essere valorizzata, estesa a più persone, maggiormente diffusa e le possibilità di comunicazione tra il dentro e il fuori incentivate e aumentate. Così che tutte le potenzialità educative dello scrivere possano diventare realtà per tutti i detenuti, da quelli accusati di infamia, alle donne, agli stranieri, ecc.

Proprio per il suo essere un autoanalisi, la scrittura dovrebbe essere stimolata in più contesti di cura, in più realtà, e la comunicazione tra le varie scritture aiutata in modo da rendere possibile un "contagio" fecondo e terapeutico.

In questo un ruolo decisivo deve essere assunto dagli educatori, coloro che si trovano ogni giorno nel difficile compito di migliorare la capacità di agire e la consapevolezza dei loro "educandi".

Lo scrivere di sé può trovare spazio all'interno di un progetto educativo di gruppo, poiché offre l'opportunità a tutti di conoscere gli altri e contemporaneamente sé stessi, in un gioco di somiglianze che genera riflessioni sempre più profonde, come afferma anche Carla: "È uno strumento che io trovo meraviglioso, che da una voce anche alle persone che non l'avrebbero. Nella scrittura anche la persona timida che nel gruppo non parlerebbe mai ha la possibilità di esprimersi. È molto utile leggere insieme queste cose, è molto utile condividerle perché io sono convinta che oltre all'aiuto che la mia scrittura offre a me, è molto utile quello che la scrittura di altri riesce a dare a me. C'è sempre nella storie di queste persone un piccolo filo in comune, un incrocio. (.)Per me è una passione grandissima, e in tanti anno non ho mai visto controindicazioni, non ho mai visto in questo lavoro qualcosa che abbia ferito o fatto del male a qualche persona."

Nei progetti educativi, la scrittura potrebbe rappresentare uno strumento efficace nell'ambito dell'interculturalità e dell'integrazione. Dando la possibilità agli stranieri di raccontare, e ricordare, la vita nel paese di origine, il difficile viaggio affrontato, la grande nostalgia per la propria cultura, si crea un occasione di condivisione e di riflessione efficace in tutte le fasce di età.

I contesti educativi che potrebbero essere citati sono molteplici, per esempio la psichiatria, l'handicap, la tossicodipendenza, la scuola e tanti altri ancora, in ognuno dei quali l'educazione può aumentare la sua efficacia aiutando le persone attraverso biro e fogli, sui quali i pensieri, le storie, le emozioni, si rivelano agli occhi di scrive e di chi legge innescando  processi di cambiamento.






















BIBLIOGRAFIA




Volumi:


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Riviste:


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Sosta Forzata, Giornale della Casa Circondariale di Piacenza, 2, Aprile 2004;

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Sosta Forzata, Giornale della Casa Circondariale di Piacenza, 2, Luglio 2005;

Sosta Forzata, Giornale della Casa Circondariale di Piacenza, 3, Dicembre 2005


Siti Web:


www.mestierediscrivere.it

www.ristretti.it

www.trasgressione.net

www.supereva.it






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