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Il gattopardo - tomasi di lampedusa




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IL GATTOPARDO

TOMASI DI LAMPEDUSA


INTRECCIO

Il Gattopardo è ambientato in Sicilia fra il 1860 e il 1910 e segue le vicende di un illustre casata siciliana, privilegiando sicuramente la figura del principe Salina, Don Fabrizio. Sebbene gli eventi storici, lo sbarco dei garibaldini e l'annessione della Sicilia, costituiscano uno sfondo ben presente e talvolta interagente, le vicende del romanzo sono essenzialmente "private". Pranzi, cene, rosari, balli, vacanze estive a Donnafugata , sono espressione della rituale esistenza dei protagonisti, in un mondo statico e atemporale.

Solo Tancredi, il nipote prediletto dal protagonista, rompe questo universo chiuso e immobile con la sua giovane vitalità e la sua spregiudicatezza ideologica. A differenza dello zio, osservatore distaccato e scettico degli eventi politici, che turbano la Sicilia, Tancredi si getta nel fiume della storia che avanza. Entra così senza esitazioni prima nelle file dei garibaldini, poi nell'esercito regolare dei Piemontesi, pensando in parte di trarne vantaggi personali, in parte di contribuire ad arginare i pericoli, che il nuovo corso politico avrebbe portato alla sua classe sociale.

Con la stessa spregiudicatezza corteggia, lui nobile, al figlia di un rozzo contadino enormemente arricchitosi, la bellissima Angelica.

Don Fabrizio invece, con motivazioni dettate dalla sua visione fatalistica e scettica della storia, rifiuta la nomina di senatore offertagli dal nuovo regno. Egli rimane a tutelare i ricordi e le reliquie del passato, pur lucidamente consapevole del necessario mutamento dei tempi, dell'irreversibile decadenza della classe nobiliare e della sua stessa casata, che si destina a finire con lui.






L'apparizione del Gattopardo nel 1958 creò un vero e proprio caso letterario, perché nasceva in piena crisi del romanzo. I critici si divisero in due fronti, i gattopardeschi e gli antigattopardeschi, mettendo in dubbio, quest'ultimi, l'autenticità dell'edizione.

Ci fu chi lo considerò uno dei capolavori della narrativa contemporanea e chi lo vide come un frutto fuori stagione, limitato ad una prospettiva decadente.

Del Gattopardo risaltava soprattutto l'impianto storico, che lo rendeva un genere quasi fuori luogo, ormai tramontato.

In effetti però la storia, malgrado sia presente con viva forza e incomba sul destino dei protagonisti, non vela e non soffoca altri aspetti eclatanti dell'opera, come l'introspezione psicologica, che pone in luce la statura morale del principe Salina e, attraverso lui, un'intera classe, quella aristocratica, e un'intera società, quella siciliana.

Il Gattopardo è l'opera di uno scrittore esordiente, pertanto ebbe una genesi complessa e faticosa.

Lo spunto iniziale era autobiografico, Tomasi infatti voleva raccontare una giornata del suo bisnonno, principe Giulio, in occasione dello sbarco dei garibaldini a Marsala.

Da un ricordo familiare Il Gattopardo diviene qualcosa di diverso e più complesso.

Vengono dilatati i confini temporali   dal 1860 al 1862 nelle prime sei parti, 1863 nella VII, 1910 nell'ultima.

Le otto sezioni risultano autonome, quasi dotate di vita propria e non finalizzate alla costruzione di un organismo narrativo unitario. L'unica coesione è nella costante rifrazione dei fatti nella coscienza del protagonista.

Questo potrebbe offrire un spiegazione al senso di disorganicità e di estraneità, che si avverte soprattutto nella V e nella VII parte, in cui il protagonista o non figura più o è uscito di scena.

TECNICHE NARRATIVE

Il soggetto e l'ambientazione, anzi la stessa ideologia del Gattopardo ci può far pensare a Verga, ma le tecniche narrative segnalano la distanza dal romanzo da questo presunto modello.

Non si deve infatti dimenticare che Tomasi ebbe una vocazione letteraria europea, soprattutto nei confronti di Proust e di Joyce.

Nel Gattopardo la narrazione non costituisce un intreccio consequenziale, ma avanza a blocchi con estrema libertà, a volte esclusivamente sulla base delle associazioni mentali del protagonista, dalla cui soggettività sono filtrati eventi e situazioni. Inoltre a differenza dei romanzi naturalisti l'autore è ben presente e tutt'altro che impassibile.

Tomasi è un narratore esterno onnisciente che introduce nel romanzo il proprio commiato razionale e ironico, polemico nei confronti del mondo rappresentato, utilizzando spesso uno spazio neutro, la parentesi.

La stessa aggettivazione ricca e particolareggiata ha un carattere giudicante. Non manca una commossa identificazione del narratore nel protagonista, soprattutto quando è presente la focalizzazione interna, ovvero nei monologhi interiori. Si fluttua quindi fra punto di vista del protagonista e dell'autore.


Tutto il romanzo ruota intorno alla figura del Principe di Salina, Don Fabrizio, siciliano puro, aristocratico puro, simbolo di quella dimensione statica e cristallizzata della Sicilia, che già altri autori avevano messo in luce.

Allo stesso tempo egli percepisce come quel mondo sia destinato a frantumarsi sotto i colpi della recente unificazione italiana,come la Sicilia debba trasformarsi per entrare a far parte del neostato. Una trasformazione che lascerà comunque intatti gli antichi privilegi.

Ad una aristocrazia se ne sostituirà un 'altra, che può anche non essere più di sangue, ma semplicemente politica ed economica. Ai Gattopardi si stanno via via sostituendo i Sedara, uomini incolti e rozzi, che hanno accumulato terre e denaro, ottenendo un posto in società, attraverso speculazioni economiche. Tanti Mastro Don Gesualdo, quegli uomini alienati dal lavoro, che hanno fatto della corsa al guadagno un ideale e uno stile di vita; ora è infatti il loro momento.

Come non vedere dietro a tutto ciò un chiaro e preciso riferimento, da parte dell'autore, alle nuove aristocrazie del decennio 1950-1960, Usa e Urss, due superpotenze che gestiscono l'economia del mondo, le nuove aristocrazie.

Il principe Salina, come forse Tomasi, accetta tutto ciò con disincantata rassegnazione, consapevole del movimento cieco e ciclico della storia, che in fondo trasforma per lasciare tutto inalterato. "Se vogliamo che tutto rimanga com'è , bisogna che tutto cambi" afferma Tancredi, ma è anche la tragica consapevolezza del Principe.

Tragica perché sa che ogni cambiamento prospettato per la Sicilia non significa nulla di reale e concreto, è sempre e solo un'illusorietà che cadrà sotto i colpi della secolare staticità siciliana.

Il Principe è quindi un osservatore distaccato e scettico degli eventi politici che turbano la Sicilia, poiché egli stesso è portavoce della cultura siciliana e l'incontro con Chevalley è determinante per focalizzare questi aspetti della Sicilia, che anche da altri autori, come Verga e Sciascia, sono stati messi in luce.

"I siciliani non vorranno mai migliorare, per la semplice ragione che credono di essere perfetti:la loro vanità è più forte della loro miseria,ogni intromissione. rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla.

Crede davvero di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale.La ragione della diversità deve trovarsi in quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità.Noi fummo i Gattopardi, i Leoni, quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene".

Ecco che cosa è la Sicilia, chi è il principe Salina, un mondo troppe volte calpestato, che però ha mantenuto e salvaguardato proprio in virtù di questo confronto continuo con gli estranei, una superiorità quasi divina. In virtù di questa superiorità ogni novità viene accettata, ma guardata con indifferenza ed albagia.

"I Siciliani non miglioreranno perché non vorranno mai migliorare,amano un'immobilità voluttuosa, amano un sonno che sa di oblio, le novità, afferma il principe Salina a Chevalley, ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali".

Il passato è bello per la Sicilia perché è morto, è il simulacro di un'antica grandezza. L'incontro tra Salina e Chevalley è l'incontro fra due mondi, che non si comprenderanno mai e che soprattutto non riusciranno mai a compenetrarsi. Tant'è vero che alcun vantaggio toccò alla Sicilia dell'unificazione, se non per coloro, che come Calogero Sedara, necessitavano di un nuovo governo per emergere.

Il principe guarda pertanto a tutti quelli, come i Sedara, come a tante piccole formiche, con un senso di disgusto, come sgradevole manifestazione della condizione umana.

Quanto siamo lontani da Verga, che sapeva far parlare solo la gintuzza, Tomasi, gran signore preferisce far parlare gli aristocratici e riapre il portone di casa Leyra, chiuso da Verga e nella duchessa rivive Angelica Sedara, senza quel superstizioso terrore dell'ascesa sociale, di cui Verga aveva adombrato tutte le sue opere.

Questa preoccupazione della colpa da espiare non c'è in Tomasi, poiché il principe sa perfettamente che i suoi antenati non erano migliori di un Gesualdo Motta o di un Calogero Sedara. Eloquente è la definizione dei signori di Padre Pirrone, il prete gesuita di casa Salina, all'erbuario don Pietrino:" Essi vivono in un universo particolare che è stato creato non direttamente da Dio, ma da loro stessi, in secoli di esperienza specialissima di affanni e di gioie loro;essi posseggono una memoria collettiva, quanto mai robusta e quindi si turbano e si allietano per cose delle quali a voi e a me non importa un bel nulla, ma che per loro sono vitali, perché poste in rapporto con questo loro patrimonio di ricordi, di speranze, di timori di classe.forse ci appaiono tanto strani, perché hanno raggiunto una tappa verso la quale, tutti coloro che non sono santi camminano, quella della mancanza dei beni terreni, mediante l'assuefazione. Questi nobili poi hanno il pudore dei loro guai."Forse è per questo che il principe di Salina consiglia ai paesani di Donnafugata di votare si al plebiscito, per accettare con dignità lo sfacelo a cui la sua classe sta andando incontro. Don Fabrizio, saggiamente, fa entrare in gioco il machiavellismo incolto dei siciliani, erigendo un'impalcatura fondata, comunque, su fragilissime basi.

Ma questa definizione è calzante non solo per il principe, ma per tutti i componenti della famiglia Gattopardo, desiderosi di nascondere agli altri tutto ciò che avviene nella loro casa, ma anche nel loro cuore.

Basti pensare alle figlie del principe, Carolina, Caterina e Concetta, rimaste zitelle, che continuano ad avvizzire fra vecchi ricordi e suppellettili, fuori moda incapaci da sempre di manifestare i loro sentimenti, di sottrarsi a rituali di comportamenti decadenti. Su di loro, come sulla classe aristocratica incombe l'ombra della morte, la fuga inesorabile del tempo, che non riescono più a seguire e ad accettare.

Per questo proprio tali figure femminili vivono tutta una vita che è già morte, aspettando un cambiamento, che non avverrà mai, perché non riusciranno mai a cogliere le possibilità che la vita, rapido fluire, offre loro.

Di fronte a questo universo si ergono però Tancredi ed Angelica, desiderosi di vivere e di godere.

Tancredi è sicuramente l'altro personaggio, che campeggia e contribuisce a metter in maggior rilievo il principe.

Tancredi è per il principe "il ragazzo più amato, che non i propri figli", ed amandolo antepone la paternità elettiva a quella naturale.

Tancredi è l'alter ego di Don Fabrizio, umano a differenza di Bendicò e dello stesso zio, perché forse avendo perso tutto il suo patrimonio, avendo subito quella catastrofe economica, che Don Fabrizio paventa da lontano, ha perso il torpore mentale della conservazione, mantenendo però intatta la distinzione innata:il sangue di classe.

Eppure è proprio Tancredi a precipitare i tempi dell'evoluzione prevista, a gettarsi nel fiume della storia, entrando senza esitazione prima nelle fila dei garibaldini.poi nell'esercito regolare dei Piemontesi, mescolando, come dice il principe, interessi personali a ideali politici.

In effetti Tancredi pensa che così facendo potrà arginare i pericoli insiti in tutte queste vicende, per la sua classe sociale. Al di là dell'amore, nel corteggiamento di Angelica, vi è sempre l'idea pretenziosa di recuperare tutto quello che i Sedara si sono guadagnati con il lavoro, ma che un tempo era stato suo.

Angelica in fondo, secondo il suo punto di vista, non porta altro in dote che ciò che già era di Tancredi e della sua famiglia. Recupera attraverso la donna, la terra perduta.

Per rendere consapevole Angelica della sua grandezza, le fa conoscere tutto il palazzo di Donnafugata, le stanze più riposte, gli anditi più segreti.

Rispolverando i luoghi disabitati rievoca la grandezza e la superiorità della sua classe di fronte ad Angelica, che in fondo non considera più di una contadina.

Inoltre la conoscenza degli appartamenti disabitati diviene metaforicamente una vera e propria discesa agli Inferi, una regressione all'antico regime e alla fatiscente irrazionalità, che genera disordine, spreco e stratificazione di spazi.

Malgrado il ruolo importante che Tancredi svolge all'interno del romanzo è vero però che il suo punto di vista emerge raramente, forse solo nella IV parte, dove è assente Don Fabrizio.

I pensieri del giovane scorrono spesso solo in superficie, attraverso monologhi interiori, senza manifesta profondità.

Tancredi è quindi colui che possiamo ascoltare, vedere, ma con gli occhi del quale non vediamo o quasi mai. Tancredi rimane in effetti impenetrabile, perché solo raramente Tomasi scruta dentro di lui.

Squarci della sua interiorità si aprono per un attimo, come aggettivi deittici dei suoi occhi, maliziosi, sfavillanti, inquieti e timorosi. Tutto è visto dagli occhi di Don Fabrizio, come Tancredi così anche i Sedara, che appaiono snob e d arrivisti.


EROS E THANATOS

"Nunc et in hora mortis nostrae.", " Poi tutto trovò la pace in un mucchietto di polvere livida".

Sono le frasi che aprono e chiudono il romanzo. Il tema della morte incombe dunque dalla prima all'ultima pagina, come un'ombra attanagliante che viene vissuta dal protagonista con atteggiamenti ambivalenti da un lato, orrore, disgusto per quella degradazione che essa comporta, di cui non riesce ad intravedere il senso.

Quindi una stessa inorridita pietà accomuna il soldato morto, gli agnelli sbudellati, il coniglio ucciso durante la caccia.

Dall'altro la morte è vista come desiderio di pace, di armonia, di purezza e soprattutto di lucida chiarezza intellettuale.

Ecco che il motivo della morte viene quindi a ricollegarsi all'osservazione delle stelle, a cui si dedica con assiduità il principe di Salina. "L'anima di Don Fabrizio si slanciò verso di loro, verso le intangibili, le irraggiungibili stelle, quelle che donano gioia senza potere nulla pretendere in cambio, quelle che non barattano, come tante altre volte fantasticò di poter presto trovarsi in quelle gelide distese, puro intelletto armato di un taccuino per calcoli, per calcoli difficilissimi, ma che sarebbero tornati sempre."

E' questa la morte che Don Fabrizio corteggia, quella che immagina slanciandosi verso mondi lontani, dove le formalità, le apparenze, le parole non hanno valore."

I momenti trascorsi all'osservatorio sono dunque un' elargizione anticipata delle beatitudini mortuarie. Quando infatti, nella III parte, dedicata interamente alla sua morte, Il principe Salina vivendo alternativamente momenti di lucidità, di sdoppiamento di personalità e di allucinazione, vede una donna bellissima, che gli va incontro.

Morte ed amore, morte e sensualità si coniugano. Questa donna bellissima cede infatti di fronte a lui vecchio, una donna che gli dà piacere, lo affascina e finalmente lo appaga, quella donna che tante volte aveva cercato nel guardare il firmamento stellato.

Le stelle rappresentano dunque qualcosa di certo, dove i calcoli appunto tornano sempre, dove non c'è catarticità, dove non c'è l'umiliante bassezza, che caratterizza l'umanità e la storia.

Tra le stelle tutto è sublime, tutto è voluttuosamente piacevole, perché non vi è posto per false meschinità. Don Fabrizio si esilia da quei sereni regni stellari, quando entra il contabile che lo riporta alla vita di sempre, ma rimasto solo si rituffa nelle nebulose.

Le stelle appagano un ideale affettivo di purezza e di disinteresse, egli proietta nel sublime la propria negazione dell'aggressività , l'assoluzione della pigrizia e l'attrazione erotica per la morte.

Fra i disagi quotidiani che coprono di carte la scrivania dell'amministrazione il principe trova una fuga nelle "atarassiche regioni dominate dall'astronomia", paragonabili alla morfina, da poco scoperta.

Tra le parti del ballo e della morte ecco nuovamente apparire le stelle e così finisce la parte VI: "voleva attingere un po' di conforto, guardando le stelle. Ve ne era ancora qualcuna proprio su , allo zenith. Come sempre il vederle lo rianima. Venere prima o poi si sarebbe decisa a dargli un appuntamento effimero", sarà poi la figura femminile che vede in punto di morte.

Ma il tema della morte si configura poeticamente nel romanzo, soprattutto come dissoluzione, fluire corrosivo e indifferente del tempo, che investe oggetti, uomini e classi sociali.

La morte sempre prospettata dal punto di vista di Don Fabrizio è presente ovunque, anche nel suo atteggiamento di inerzia, che nasce dalla coscienza della vanità dell'agire umano, travolto e ramificato dallo scorrere inesorabile del tempo, simbolicamente visto come un vento che "trascorre incurante sulle sofferenze e sulle illusioni degli esseri viventi".

Gli stessi paesaggi fondali, su cui si muovono e si districano le vicende dei personaggi portano su di sé gli effetti del tempo. La descrizione di casa Salina e del palazzo di Donnafugata, la statua di Flora nel giardino,sono simboli dell'ancien regime, dissoltosi con la Rivoluzione Francese.

La tovaglia rattoppata, ma finissima, il secolare aroma, le ricette centenarie sono le immagini concrete di un decadimento generale,ormai nell'aria.

Questi oggetti sono lo scenario con cui si apre il romanzo il "fasto sbrecciato", che allora era lo stile del regno della Sicilia.

Il palazzo di Donnafugata, smisuratamente grande, smisuratamente decadente, è simbolo di ciò che è stato e che ora non è più, è immerso nel silenzio della morte, in parte sconosciuto anche agli stessi proprietari.

Il palazzo di Donnafugata si erge maestoso, sempre a presenziare la dinastia dei Salina, ma in effetti è un ultimo baluardo, che ben presto cadrà sotto i colpi del plebiscito.

Spetta però al nipote Tancredi esplorare i luoghi simbolici, che lo zio ancora padrone, tralascia. Ed è proprio in questi labirinti e meandri che la morte e l'eros si affiancano, segnati da una linea invisibile ma indelebile.

Da Angelica è quindi simboleggiata la forza dell'eros, capace di distogliere anche Don Fabrizio, dai pensieri funerei.

Lei è un ciclone, che irrompe in casa Salina, travolgendo la funebre immobilità. Nel loro viaggio, quasi attraverso il castello di Atlante, di ariostesca memoria, i due innamorati scoprono l'eros perduto, ma anche l'amore agli occhi di Don Fabrizio è transitoria illusione.

Per i suoi occhi disincantati lo spettacolo dei due giovani, che ballano stringendo i loro corpi, destinati a morire, appare più patetico di ogni altro.

La sensualità stessa dunque è invidiata dalla morte.

Questi in effetti per Tancredi ed Angelica saranno gli ultimi momenti felici,ma lo capiranno, quando ormai saranno, a detta del principe, inutilmente saggi.


1910 ULTIMA PARTE

La villa in rovina del 1860, nel 1910 è diventata la ricca villa Falconieri. Tancredi, ormai morto, con il suo matrimonio con una Sedara, ha spezzato la catena che congiungeva solo i vecchi casati, ha apportato sangue nuovo.

Ciò non vale però per le zitelle, che vivono in una casa immensa nella polvere del passato, fra tarli e reliquie.

L'ottava parte si unifica nel duplice senso della parola RELIQUIE: quello letterale religioso, quello tragico memoriale e affettivo. Il passato torna sempre ad incombere sul presente e tocca a Concetta sopprimere il passato, per rendere muto e fantomatico il presente.

Viene gettato Bendicò imbalsamato, vengono tolte le reliquie, si spegne così la lunga tradizione e la stessa memoria, sotto i colpi della storia e della morte, che di lì a poco li avrebbe annullati del tutto e per sempre.






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