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Giovanni Verga - Vita dei campi: la scelta del Verismo, I vinti e la morale dell'ostrica, La roba e la volontà di vivere, Per riflettere




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Giovanni Verga



Vita dei campi: la scelta del Verismo

Nella prefazione a L'amante di Gramigna, Verga espone all'amico Salvatore Farina la poetica del Verismo.

In questa lettera, ricalcando il vocabolario del verismo francese, Verga sottolinea subito la necessità del fatto che lo scrittore debba essere impersonale e raccontare il fatto così com'è, nudo e schietto, e colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare. Perseguendo ciò, ci si avvicina sempre di più al vero. Di conseguenza, il romanzo verista risulta perfetto, poiché sembra nascere da sé, senza che il lettore sia in grado di percepire il lavoro dello scrittore, definita macchia del peccato d'origine (r. 32 l'opera d'arte sembrerà essersi fatta da sè).

È qui che sta la grande illusione del Verismo, le cui premesse sono assolutamente anti-romantiche e soprattutto, anti-Manzoni. Basti pensare ai Promessi Sposi, dove l'autore aveva il ruolo di narratore omniscente, mettendoli a confronto con I Malavoglia, in cui la voce narrante di Verga si mescola tra le tante voci degli abitanti di Aci Trezza.

Per quanto riguarda il linguaggio, Verga sceglie quello popolare, ben diverso dal dialetto, che avrebbe trasformato le novelle in un prodotto regionale. Per cui Verga modella l'italiano sul dialetto siciliano, utilizzando anacoluti, soprannomi, espressioni popolari sgrammaticate in modo da ottenere un registro medio-basso.


La Lupa è la storia di un amore tragico tra la suocera, chiamata dagli abitanti del villaggio la Lupa, e il genero Nanni.  

La Lupa è da subito descritta come una donna molto sensuale che esercita su chi la guarda un fascino a cui è impossibile resistere: alta, magra e prosperosa, benché non più giovanissima, pallida, come se avesse la malaria (un elemento che ricorre spesso nelle sue novelle), ma soprattutto con due occhi enormi e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano.

Il carattere famelico della Lupa, che mangia gli uomini, è sottolineato subito dopo, perché spolpava i mariti e i figli delle altre donne, e per questo viene esclusa dalla vita del paese. Lei stessa decide di non partecipare alla quotidianità del villaggio, perché non veniva mai in chiesa, né a Pasqua né a Natale, né per ascoltar messa, né per confessarsi, infatti perfino il parroco si era infatuato di lei.

La Lupa è l'unico personaggio che sa quello che vuole e vive le sue emozioni fino in fondo: non ha paura di esprimere la sua passione per Nanni (Te voglio) e di viverla. Il giovane contadino invece si sente da lei irretito e non riesce né a reagire né a dirle di no. Mentre la figlia della Lupa, Maricchia, non prende mai parte.

Verga utilizza inoltre alcune tecniche narrative che gli permettono di raggiungere l'impersonalità oggettiva. Ad esempio, abolisce la messa in scena, ovvero la presentazione graduale dell'ambientazione e dei personaggi, per cui il lettore è catapultato da subito nel racconto, che in questo caso inizia con il ritratto della Lupa, senza nessun antefatto.

L'autore utilizza un linguaggio tipico degli abitanti del luogo, avvalendosi anche di nomi e soprannomi che delineano meglio la personalità dei personaggi. Ad esempio, il nome Maricchia, per il suono, dà l'idea di qualcosa di sgradevole, mentre il soprannome Lupa fa capire subito che la protagonista sia dotata di una sensualità quasi violenta.


I vinti e la morale dell'ostrica

Verga aveva progettato di scrivere cinque romanzi, il cosiddetto Ciclo dei vinti, ma riesce a portare a termine solo i primi due: I Malavoglia, Mastro don Gesualdo, La duchessa de Leyra (iniziato ma non terminato), L'onorevole Scipioni  e L'uomo di lusso (progetta solo il titolo).

Verga voleva studiare i meccanismi del progresso dagli strati sociali più bassi ai più alti, descrivere l'uomo che si muove per soddisfare i suoi bisogni, dettati dalla legge economica: i Malavoglia sono pescatori che vogliono vivere più dignitosamente, mentre mastro don Gesualdo è un povero muratore che spende la sua vita per diventare ricco, ma non ci riesce neanche quando sposa una nobildonna decaduta. La duchessa de Leyra è la figlia di mastro don Gesualdo e in lei troviamo il desiderio di un titolo nobiliare, di avere uno status sociale riconosciuto. L'onorevole Scipioni anela l'ambizione politica e l'uomo di lusso avrebbe dovuto avere su di se tutte queste ambizioni.

Verga però non riesce a terminare il Ciclo dei Vinti, secondo alcuni critici perché non entra più in contatto con si suoi personaggi: prova simpatia per i personaggi siciliani vicino a lui, ma c'è un'incapacità dello scrittore di immedesimarsi in personaggi che non gli appartengono.

Nella Prefazione ai Malavoglia Verga si sofferma sulla sua idea di progresso: da lontano sembrerebbe un fenomeno positivo, mentre visto da vicino è qualcosa di terribile. È un sorta di fiumana che colpisce chi si stacca dallo scoglio, ovvero dalla famiglia, dalla quotidianità, per arrivare al benessere, a stare meglio. I vinti sono i meno adatti, le vittime travolte dal progresso. Lo scrittore ha quindi il dovere di dar voce alle classi sociali che non riescono a emergere.


La novella Libertà rappresenta il massimo pessimismo verghiano agganciato a una realtà storica.

Verga cita un episodio avvenuto a Bronte, vicino a Catania, dove alcuni contadini, accecati dal mito della libertà e del benessere promosso dai garibaldini, diventano dei veri e propri carnefici facendo una strage tra i nobili del villaggio. Alla fine però ci si rende conto che i galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace.

Per Verga ogni tentativo di cambiamento è destinato a fallire. Infatti i vinti, ovvero i più deboli (in questo caso i contadini di Bronte) non riescono a cambiare la propria condizione, tutt'altro: alcuni di loro vengono giustiziati o imprigionati, per cui alla fine la loro vita miserabile non solo non muta, ma addirittura peggiora. Questo accade perché secondo Verga le leggi umane sono le medesime leggi della natura, che si possono violare, ma non si possono cambiare. Di conseguenza l'errore dei contadini è quello di aver creduto all'esistenza della libertà e alla possibilità di ottenerla.


La roba e la volontà di vivere

Il protagonista della novella La roba è Mazzarò, un contadino che, risparmiando e la lavorando tutta la vita, accumula una grande quantità di terreni, di roba. Il suo arricchimento è però fine a sé stesso: anche quando potrebbe concedersi qualche svago o qualche lusso non lo fa, al fine di accumulare sempre più roba. Attaccato all'inverosimile ai suoi beni materiali, Mazzarò non si gode la sua giovinezza e alla fine ha un unico assillo: perdere  con la morte tutto ciò che ha accumulato con fatica durante la sua vita. È questa la maggior causa della sua sofferenza.

Mazzarò presenta la tipica mentalità siciliana pre-capitalistica: la vera ricchezza risiede nella terra e tutto ciò che non è terra non vale nulla. È ancora il desiderio economico a muovere l'uomo, la voglia di migliorare le proprie condizioni e il proprio status sociale.


Per riflettere

Il pessimismo che impronta la produzione di Verga si può riassumere nella cosiddetta morale dell'ostrica. Secondo Verga l'uomo può essere paragonato a un'ostrica che sta attaccata allo scoglio, ovvero alla famiglia e alla propria condizione sociale. Se l'ostrica si stacca dallo scoglio è inevitabilmente travolta da una sorta di fiumana, ovvero dal progresso. Verga sottolinea quindi l'impossibilità di cambiamento della vita umana e se si tenta comunque di migliorare la propria condizione si otterrà spesso il risultato contrario.

Anche il cosiddetto pessimismo titanico di Leopardi può essere rappresentato tramite un paragone tra l'uomo e la forza della natura esterna a lui e a lui ostile: la ginestra è il simbolo della condizione umana. Infatti è un fiore che cresce nei terreni più aspri, e verrà travolto dalla lava, ma nonostante questo diffonde il suo profumo e rifiorisce la primavera successiva. Allo stesso modo l'uomo diffonde il suo pensiero e si piegherà al fato accettandolo con virilità.

È evidente che Leopardi, benché sottolinei la sottomissione inevitabile dell'uomo alla natura maligna, chiude con un positivo: l'uomo è un essere corporalmente finito ma spiritualmente infinito; mentre Verga si limita a ribadire più volte che nella vita dell'uomo è meglio che non cambi mai nulla, condannandoci alla rassegnazione.


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