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Giovanni Pascoli - La vita, La visione del mondo, La poetica, Le raccolte poetiche, I temi della poesia pascoliana, Le soluzioni formali




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Giovanni Pascoli

La vita

Giovanni Pascoli nacque il 31 dicembre 1855 a San Mauro di Romagna, da una famiglia della piccola borghesia rurale, di condizione abbastanza agiata: il padre, Ruggiero, era fattore di una tenuta. Era una tipica famiglia patriarcale, molto numerosa: Giovanni era il quarto di ben dieci figli. La vita sostanzialmente serena di questo nucleo familiare venne però sconvolta da una tragedia, destinata a segnare profondamente l'esistenza del poeta: il 10 agosto 1867, mentre tornava a casa dal mercato, Ruggiero fu ucciso a fucilate, probabilmente da un rivale. La morte del padre creò difficoltà economiche alla famiglia, che dovette lasciare la tenuta, trasferirsi a San Mauro e in seguito a Rimini, dove il figlio maggiore Giacomo aveva trovato lavoro, assumendo il ruolo paterno. Al primo lutto in un breve giro di anni ne seguirono altri, in una successione impressionante: nel 1868 morirono la madre e la sorella maggiore, nel '71 il fratello Luigi, nel '76 Giacomo. Giovanni sin dal 1862 era entrato coi fratelli Giacomo e Luigi nel collegio degli Scolopi ad Urbino, dove ricevette una formazione classica. Nel '71, per le ristrettezze della famiglia, dovette lasciare il collegio, ma, grazie alla generosità di uno dei suoi professori, potè proseguire gli studi a Firenze, sempre presso gli Scolopi, dove terminò il liceo. Nel '73 ottenne una borsa di studio presso l'Università di Bologna, dove frequentò la facoltà di Lettere. Negli anni universitari pascoli subì il fascino dell'ideologia socialista: partecipò a manifestazioni contro il governo, fu arrestato nel '79 e dovette trascorrere alcuni mesi in carcere, per venire alla fine assolto. L'esperienza fu però per lui traumatica e determinò il suo definitivo distacco dalla politica militante. Ripresi con impegno gli studi, si laureò nel 1882, con una tesi sull'antico lirico greco Alceo. Iniziò subito dopo la carriera di insegnante liceale, prima a Matera, poi dal 1884 a Massa. Qui chiamò a vivere con sé le due sorelle, Ida e Mariù, ricostituendo così idealmente quel "nido" familiare che i lutti avevano distrutto. Nel 1887, sempre con le due sorelle, passò ad insegnare a Livorno, dove rimase sino al '95. la chiusura gelosa nel "nido" familiare e l'attaccamento morboso alle sorelle rivelano la fragilità della struttura psicologica del poeta, che, fissato ad una condizione infantile, cerca entro le pareti del "nido" la protezione da un mondo esterno, quello degli adulti, che gli appare minaccioso ed irto di insidie. A questo si unisce il ricordo ossessivo dei suoi morti, le cui presenze aleggiano continuamente nel "nido". Non vi sono relazioni amorose nell'esperienza del poeta, che conduce una vita, come egli stesso confessa, forzatamente casta. C'è in lui lo struggente desiderio di un vero "nido", in cui esercitare un'autentica funzione di padre, ma il legame ossessivo con il "nido" infantile spezzato gli rende impossibile la realizzazione del sogno. La vita amorosa ai suoi occhi ha un fascino torbido, è qualcosa di proibito e di misterioso, da contemplare da lontano. Egli, nella sua fantasia, non sa concepire il rapporto con la donna se non nelle forme morbose della violenza, dello strazio. Le esigenze affettive del poeta sono, a livello conscio, interamente soddisfatte dal rapporto sublimato con le sorelle, che rivestono un'evidente funzione materna. Il sesso e la procreazione restano esclusi: essi sono qualcosa che si colloca "fuori", da guardare con turbamento. Si può capire allora perché il matrimonio di Ida, nel 1895, fu sentito da Pascoli come un tradimento e determinò in lui una reazione spropositata, patologica, con vere manifestazioni depressive. Nel 1895, dopo il matrimonio di Ida, Pascoli prese in affitto una casa a Castelvecchio di Barga, nella campagna lucchese. Qui, con la fedele sorella Mariù, trascorreva lunghi periodi, lontano dalla vita cittadina che detestava e di cui aveva orrore, a contatto con il mondo della campagna che ai suoi occhi costituiva un Eden di serenità e pace. La sua vita era quella appartata del professore tutto chiuso nella cerchia dei suoi studi, della sua poesia, degli affetti familiari. Una vita esteriormente serena, ma in realtà turbata nell'intimo da oscure angosce e paure per la presenza ossessiva della morte. Intanto, nel 1895, Pascoli aveva ottenuto la cattedra di grammatica greca e latina all'Università di Bologna, poi di letteratura latina all'Università di Messina, dove insegnò sino al 1903. Passò quindi a Pisa, ed infine dal 1905 subentrò al suo maestro Carducci sulla cattedra di letteratura italiana a Bologna. All'inizio degli anni Novanta aveva pubblicato una prima raccolta di liriche, Myricae, poi negli anni seguenti diverse poesie in varie e importanti riviste, La Vita Nuova, Il Marzocco, Il Convito. Myricae si ampliava sempre più ad ogni ad ogni nuova edizione. Nel 1897 uscirono i Poemetti, poi arricchiti in successive ristampe, nel 1903 i Canti di Castelvecchio, nel 1904 i Poemi conviviali. Negli ultimi anni volle gareggiare con Carducci e D'Annunzio nella funzione di poeta civile, vate dei destini della patria e celebratore delle sue glorie, con una serie di componimenti raccolti in Odi ed inni, Poemi del Risorgimento, Poemi italici, Canzoni di re Enzio. Al poeta schivo si affiancò così il letterato ufficiale, che si assunse il compito di diffondere ideologie e miti. Oltre che con le sue poesie Pascoli espletò questo suo compito con una serie di discorsi pubblici, tra i quali è rimasto famoso La grande proletaria si è mossa. Il poeta però era ormai minato dal male, un cancro allo stomaco. Si trasferì a Bologna per le cure, ma si spense poco dopo, il 6 aprile 1912.

La visione del mondo

La formazione di Pascoli fu essenzialmente positivistica, dato il clima culturale che dominava negli anni in cui egli compì i suoi studi liceali e universitari, gli anni Settanta dell'Ottocento. Tale matrice è ravvisabile nell'ossessiva precisione con cui, nei suoi versi, egli usa la nomenclatura ornitologica e botanica, e di impianto positivistico sono spesso le fonti da cui trae le osservazioni sulla vita degli uccelli, protagonisti di tanti suoi componimenti poetici. Ma in Pascoli si riflette quella crisi della scienza che caratterizza la cultura di fine secolo, segnata dall'esaurirsi del positivismo e dall'affermarsi di tendenze spiritualistiche e idealistiche. Come per tanti della sua epoca che vivono la stessa crisi, anche per lui, al di là dei confini limitati raggiunti dall'indagine scientifica, si apre l'ignoto, il mistero, l'inconoscibile, verso cui l'animasi protende ansiosa, tesa a captare i messaggi enigmatici che ne provengono, non traducibili in nessun sistema logicamente codificato. Gli oggetti materiali hanno un forte rilievo nella poesia pascoliana: i particolari fisici, sensibili sono filtrati attraverso la peculiare visione soggettiva del poeta, e in tal modo si caricano di valenze allusive e simboliche, rimandano sempre a qualcosa che è al di là di essi, all'ignoto di cui sono come messaggi misteriosi e affascinanti. Anche la precisione botanica e ornitologica con cui Pascoli designa fiori, piante, varietà di uccelli, pur avendo le sue radici nel rigore della scienza positivistica, assume poi ben diverse valenze. Dare il nome alle cose è come scoprirle per la prima volta, con occhi vergini e stupiti. Il mondo è allora visto attraverso il velo del sogno e perde ogni consistenza oggettiva; si instaurano così legami segreti fra le cose, che solo abbandonando le convenzioni della visione positivistica possono essere colti. La conoscenza del mondo avviene attraverso strumenti interpretativi non razionali, che trasportano di colpo, senza seguire tutti i passaggi del ragionamento logico, nel cuore profondo della realtà.

La poetica

Da questa visione del mondo scaturisce la poetica pascoliana, che trova la sua formulazione più compiuta nell'ampio saggio Il fanciullino, pubblicato sul "Marzocco" nel 1897. L'idea centrale è che il poeta coincide col fanciullo che sopravvive al fondo di ogni uomo: un fanciullo che vede tutte le cose "come per la prima volta", con ingenuo stupore e meraviglia. Al pari di Adamo, anche il poeta "fanciullino" dà il nome alle cose e, trovandosi come in presenza del "mondo novello", deve usare una "novella parola", un linguaggio che si sottragga ai meccanismi mortificanti della comunicazione abituale e sappia andare all'intimo delle cose, rendere il "sorriso" e la "lacrima" che c'è in ognuna di esse. Dietro questa metafora del "fanciullino" è facile scorgere una concezione della poesia come conoscenza "aurorale", concezione che ha le radici ancora nel terreno romantico, ma che Pascoli piega ormai in direzione decisamente decadente. Grazie al suo modo alogico di vedere le cose, il poeta-fanciullo, "senza farci scendere ad uno ad uno i gradini del pensiero", come è proprio del ragionamento logico e del procedimento della ricerca scientifica, ci fa sprofondare immediatamente nell' "abisso della verità". L'atteggiamento irrazionale e intuitivo consente quindi una conoscenza profonda della realtà, permette di cogliere direttamente l'essenza segreta delle cose, senza mediazioni. Il poeta appare dunque come un "veggente", dotato di una vista più acuta di quella degli uomini comuni, colui che per un arcano privilegio può spingere lo sguardo oltre le apparenze sensibili ed esplorare il mistero. In questo quadro culturale si colloca altresì la concezione della poesia pura: per Pascoli la poesia non deve avere fini pratici; il poeta canta solo per cantare, non si propone obiettivi civili e morali. Il sentimento poetico, dando voce al fanciullino che è in noi, sopisce gli odi e gli impulsi violenti che sono propri degli uomini, induce alla bontà, all'amore, alla fratellanza; placa quel desiderio di accrescere i propri possessi che spinge gli uomini a sopraffarsi a vicenda. Nella poesia "pura" del "fanciullino" per Pascoli è quindi implicito un messaggio sociale che invita all'affratellamento di tutti gli uomini, al di là delle barriere di classe che li separano. Questo rifiuto della "lotta tra le classi" si trasferisce al livello dello stile. Pascoli ripudia il principio aristocratico del classicismo che esige una rigorosa separazione tra ciò che è alto e ciò che è basso ed accetta solo la prima categoria di oggetti nel campo selezionatissimo della poesia. Ricchi di poesia per lui non sono solo gli argomenti elevati e sublimi, ma anche quelli più umili e dimessi. La poesia è anche nelle piccole cose, che hanno un loro "sublime" particolare, una dignità non minore di quelle auliche. In tal modo Pascoli porta alle estreme conseguenze la rivoluzione romantica, che estendeva il "diritto di cittadinanza a tutti gli elementi della realtà".

Le raccolte poetiche

Nel corso degli anni Novanta Pascoli lavora contemporaneamente a vari generi poetici: le poesie nate nello stesso periodo confluiranno poi in raccolte che usciranno scaglionate nell'arco di almeno quindici anni, in Myricae, nei Poemetti, nei Canti di Castelvecchio, nei Poemi conviviali, in Odi ed inni. La distribuzione nelle varie raccolte obbedisce non tanto all'ordine cronologico di composizione, quanto a ragioni formali, stilistiche e metriche. La poesia di Pascoli è sostanzialmente sincronica: sono ovviamente riconoscibili arricchimenti e approfondimenti di temi, mutamenti di soluzioni stilistiche nel corso del tempo, ma svolte veramente radicali, che possano legittimamente far parlare di fasi diverse e distinte, non possono essere individuate. Pascoli cominciò a pubblicare le sue poesie nel corso degli anni Ottanta, su riviste o in edizioni per nozze. La prima raccolta fu Myricae, uscita nel 1891 in edizione fuori commercio e contenente 22 poesie dedicate alle nozze di amici. Il volume si ampliò già dalla seconda edizione del 1892, che conteneva 72 componimenti, ma cominciò ad assumere la sua fisionomia definitiva solo a partire dalla quarta, del 1897, in cui i testi salivano a 116. Si tratta in prevalenza di componimenti molto brevi, che all'apparenza si presentano come quadretti di vita campestre, ritratti con un gusto impressionistico, con rapide notazioni che colgono un particolare. Ma in realtà i particolari su cui il poeta fissa la sua attenzione non sono dati oggettivi, ma si caricano di sensi misteriosi, sembrano alludere ad una realtà ignota e inafferrabile che si colloca al di là di essi. Spesso le atmosfere che avvolgono che avvolgono queste realtà evocano l'idea della morte; ed uno dei temi più insistitamente presenti nella raccolta è il ritorno dei morti familiari, che vengono a riannodare i legami spezzati dall'uccisione del padre e dai tanti lutti successivi. Già a partire da Myricae, quindi, Pascoli delinea quel romanzo familiare che è il nucleo doloroso della sua visione del reale. Compaiono poi, sin di testi più antichi, quelle soluzioni formali che costituiscono la profonda originalità della poesia pascoliana. Una fisionomia diversa possiedono i Poemetti, raccolti una prima volta nel 1897, poi ripubblicati con aggiunte nel 1900, ed infine, nella veste definitiva, divisi in due raccolte distinte, Primi poemetti e Nuovi poemetti. Si tratta di componimenti più ampi di quelli di Myricae; muta anche la struttura metrica: ai versi brevi subentrano le terzine dantesche. Anche qui, però, assume rilievo dominante la vita della campagna. All'interno delle due raccolte si viene a delineare un vero e proprio "romanzo georgico", cioè la descrizione di una famiglia rurale di Barga, colta in tutti i momenti caratteristici della vita contadina. Questa raffigurazione della vita contadina si carica di scoperti intenti ideologici: il poeta vuole celebrare la piccola proprietà rurale, presentandola come depositaria di tutta una serie di valori tradizionali e autentici. La vita del contadino appare al poeta come un rifugio rassicurante. Pascoli si sofferma sugli aspetti più quotidiani, umili e dimessi di quel mondo, designando con precisione gli oggetti e le operazioni del lavoro dei campi, ma anche questa precisione non ha nulla di naturale, di documentario: al contrario risponde all'intento di ridare la sua vergine freschezza originaria alla parola, per esprimere una stupita meraviglia dinanzi alle cose. Il poeta vuole mettere in rilievo quanto di poetico è insito anche nelle realtà umili, la loro dignità "sublime", per cui le più consuete attività quotidiane della vita di campagna sono da lui trasfigurate in una luce di epos, mediante il ricorrere di formule tratte dagli antichi poeti. Al di fuori di questo ciclo "georgico" si collocano però numerosi poemetti, che presentano temi più inquietanti e torbidi, come Il vischio, Digitale purpurea, Suor Virginia, L'aquilone, Italy, La vertigine. I Canti di Castelvecchio si propongono intenzionalmente di continuare la linea della prima raccolta. Anche qui ritornano immagini della vita di campagna. I componimenti si susseguono secondo un disegno segreto, che allude al succedersi delle stagioni: ancora una volta l'immutabile ciclo naturale si presenta come un rifugio rassicurante e consolante dal dolore. Ricorre con frequenza ossessiva, infatti, il motivo della tragedia familiare e dei cari morti, che si stringono intorno al poeta a rinsaldare quel vincolo di sangue e d'affetti che la brutale violenza degli uomini ha spezzato. Vi è anche il rimando continuo del nuovo paesaggio di Castelvecchio a quello antico dell'infanzia in Romagna, quasi ad istituire un legame ideale tra il nuovo "nido" costruito dal poeta e quello spazzato via dalla tragedia. Non mancano però anche in questa raccolta i temi più inquieti e morbosi, che danno corpo alle segrete ossessioni del poeta: il sesso e la morte. Un carattere apparentemente molto diverso presentano i Poemi conviviali. Al clima estetizzante rispondono anche i componimenti pascoliani. Si tratta di poemetti dedicati a personaggi e fatti del mito e della storia antichi, dalla Grecia sino alla prima diffusione del cristianesimo. Anche il linguaggio è raffinatamente estetizzante, e spesso mira a riprodurre in italiano il clima e il sapore della poesia classica. Sotto le vesti classiche, in questi poemetti compaiono tutti i temi consueti della poesia pascoliana. Il mondo antico non è dunque un mondo di immobile e gelida perfezione, come pretendeva la tradizione classicistica, ma si carica delle inquietudini e delle angosce della sensibilità moderna. Ai Poemi conviviali si possono accostare i Carmina latini. Si tratta di trenta poemetti e di settantuno componimenti più brevi, scritti da Pascoli per il concorso di poesia latina di Amsterdam. Non furono raccolti organicamente dal poeta e videro la luce solo postumi; sono in genere dedicati agli aspetti più marginali della vita romana ed hanno per protagonisti personaggi umili. Il latino di Pascoli non è una lingua morta, ma una lingua intimamente rivissuta. Nelle ultime raccolte, Odi ed inni, Poemi italici, Canzoni di re Enzio, Poemi del Risorgimento, Pascoli assume le vesti del poeta ufficiale, celebratore delle glorie nazionali e inteso a propagandare principi morali e civili. Insieme alle raccolte poetiche è necessario ricordare l'attività di saggista e di critico propria di Pascoli: Il sabato e La ginestra dedicati a Leopardi, Eco di una notte mitica dedicato a Manzoni. Il Pascoli propriamente critico è quello che si trova nei tre volumi dedicati a Dante, Minerva oscura, Sotto il velame, La mirabile visione, in cui viene offerta una complessa interpretazione allegorica della poesia dantesca. Accanto agli scritti critici si possono collocare i lavori scolastici di Pascoli: Sul limitare, Fior da fiore, Lyra ed Epos.

I temi della poesia pascoliana

Nel suo vissuto, Pascoli incarna esemplarmente l'immagine del piccolo borghese, appagato della sua mediocrità di vita, chiuso nella sfera limitata dei suoi affetti, del suo lavoro. Dal punto di vista letterario, l'immagine del poeta corrisponde perfettamente a quella dell'uomo. Una parte quantitativamente cospicua della sua poesia è destinata proprio alla funzione di proporre quella determinata visione della vita, in nome di intenti pedagogici, moralistici, sociali. In questo ambito di poesia ideologica  rientra l'esaltazione delle piccole cose quotidiane, la cui intima dignità è anteposta a quella delle realtà più nobili. A questo filone ideologico della poesia pascoliana appartiene quindi anche la predicazione sociale e umanitaria. Da questo umanitarismo scaturisce una serie di temi collaterali, ispirati ad un sentimentalismo patetico, che rimandano alla tematica di certa letteratura di fine Ottocento. Questa predicazione si avvale anche di miti, impiegati per il loro potente valore suggestivo. Col "nido" si collega il motivo ossessivamente ricorrente del ritorno dei morti; anche qui però l'ossessione privata è assorbita entro l'intento predicatorio: la tragedia familiare è trasformata da Pascoli in una vicenda esemplare, da cui si può ricavare l'idea del male che regna tra gli uomini. Affrontando in poesia questi temi Pascoli interpretava la visione della vita e i sentimenti di gran parte della popolazione italiana. La prova di questa sintonia instauratasi tra il poeta e il pubblico è la sua fortuna scolastica: per tanti anni Pascoli è stato infatti il poeta prediletto della scuola elementare. Questa immagine di Pascoli fu accolta anche dalla critica, che fece apparire il poeta come estraneo agli aspetti più inquietanti che in realtà caratterizzavano i suoi scritti. E' questo il Pascoli che oggi non si legge più, poiché le trasformazioni culturali e del gusto hanno portato alla luce un Pascoli tutto diverso: inquieto, tormentato, morboso, che proietta nella poesia le sue ossessioni profonde. Al di là del poeta pedagogo si delinea un grande poeta dell'irrazionale. Perciò il poeta "fanciullino" può essere definito il nostro scrittore più decadente, nel senso positivo del termine: una baluardo contro le angosce della realtà contemporanea.

Le soluzioni formali

Il nuovo modo di percepire il reale si traduce, nella poesia pascoliana, in soluzioni formali estremamente innovative. L'aspetto che più colpisce è quello sintattico. Nei suoi testi poetici la coordinazione prevale sulla subordinazione, in modo che la struttura sintattica si frantuma in serie paratattiche di brevi frasi allineate senza rapporti gerarchici. La frantumazione pascoliana rivela il rifiuto di una sistemazione logica dell'esperienza, il prevalere della sensazione immediata. E' una sintassi che traduce perfettamente la visione del mondo pascoliana, una visione "fanciullesca", alogica, che mira a rendere il mistero che circonda le cose. La conseguenza è che gli oggetti più comuni, visti in quest'ottica, appaiono come immersi in un sogno. Pascoli non usa un lessico "normale": mescola tra loro codici linguistici diversi; come le cose convivono senza gerarchie, così avviene delle parole che le designano. Questa pluralità di codici linguistici costituisce una vistosa infrazione alla norma dominante nella poesia italiana. Grande rilievo hanno anche gli aspetti fonici, cioè i suoni che compongono le parole. Quelle che più colpiscono sono le forme "programmatiche" o "cislinguistiche", quelle espressioni che si situano al di sotto del livello strutturato della lingua e non hanno un valore semantico, ma imitano direttamente l'oggetto. Queste onomatopee non mirano ad una riproduzione neutra del dato oggettivo: indicano invece l'esigenza di aderire direttamente all'essenza segreta dell'oggetto. La metrica pascoliana è apparentemente tradizionale, nel senso che impiega i versi più consueti della poesia italiana e gli schemi di rime e le strofe più usuali. Ma in realtà questi materiali sono piegati dal poeta in direzioni personalissime. Il verso, infatti, è frantumato al suo interno, interrotto da numerose pause. La frantumazione del discorso è accentuata dall'uso frequente degli enjambements. Al livello delle figure retoriche, Pascoli usa molto il linguaggio analogico; egli non si accontenta però di una somiglianza facilmente riconoscibile, accosta invece due realtà tra loro remote. Un procedimento affine all'analogia è la sinestesia, che fonde insieme diversi ordini di sensazioni. Queste soluzioni formali aprono la strada alla poesia del Novecento.

X Agosto

San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto
l'uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena dei suoi rondinini.

Ora è là come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo tornava al suo nido:
l'uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono.

Ora là nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano,
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.

E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male.

Analisi del testo

La poesia appare molto diversa dalle altre di Myricae: non è un quadro di natura, reso con rapide notazioni impressionistiche, ma un discorso ideologicamente strutturato, in cui il poeta, prendendo le mosse dalla propria tragedia familiare, affronta i temi metafisici del male e del dolore. La costruzione tutta predicatoria della poesia è rivelata dalle sue geometriche simmetrie: la prima strofa corrisponde all'ultima, proponendo il motivo del pianto del cielo che guarda da un'infinita lontananza il male della terra, e a sua volta il gruppo delle strofe 2 e 3 risponde esattamente al gruppo della 4 e della 5. Si possono poi ravvisare rispondenze meno scoperte: gli "spini" tra cui cade la rondine ricordano la corona di spine della passione di Cristo, e la conferma viene subito dopo dall'immagine della croce: la rondine uccisa diviene il simbolo di tutti gli innocenti perseguitati dalla malvagità degli uomini e allude alla figura della vittima per eccellenza, Cristo; ma anche il padre che, morendo, perdona i suoi uccisori, ricorda Cristo in croce che perdona i suoi persecutori. Non è però questa la segreta trama di rispondenze simboliche, affidata ad immagini suggestive e dissimulata sotto il discorso di superficie, ma è una trama costruita tutta dall'esterno e cerebralmente, esibita con insistenza a scopi predicatori. In obbedienza al vago spiritualismo proprio dell'anima decadente, delusa e respinta dal fallimento della scienza positivistica, che è incapace di risolvere i problemi dell'esistenza, Pascoli imposta il problema del male in chiave metafisica e religiosa: ogni vittima innocente che soffre è immagine di Cristo. Ma, appunto come è proprio della religiosità decadente, il poeta non approda a una religione positiva: il sacrificio delle vittime innocenti non ha il significato del sacrificio di Cristo, che annuncia la salvezza. Così il pianto del cielo non sembra implicare una prospettiva di riscatto, di purificazione: il cielo appare impotente a riscattare tanto male. Il cielo è remoto, come inaccessibile: tra la dimensione terrena e quella trascendente non vi è comunicazione. Il testo è significativo anche perché vi compare in piena luce uno dei temi centrali della poesia pascoliana, quello del "nido". L'analogia tra rondine e uomo non è solo nel loro sacrificio, ma anche nel fatto che essi vengono violentemente esclusi dal "nido". Il "nido" compendia perfettamente l'idea pascoliana della famiglia, dei suoi legami oscuri e viscerali, che inglobano l'individuo e lo proteggono dal mondo esterno pieno di insidie, escludendolo dalla vita sociale e vincolandolo solo ad una fedeltà ossessiva ai morti. Nel componimento vi è una significativa opposizione interno vs esterno, che è una polarità positivo-negativo. La rondine e il padre vengono uccisi nello spazio esterno, lontano dal "nido", e la loro morte lascia il "nido" indifeso ed esposto a tutte le minacce che vengono dal di fuori.


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