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Giacomo Leopardi




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Giacomo Leopardi



"La più sublime, la più nobile tra le Fisiche scienze ella è senza dubbio l'Astronomia. L'uomo s'innalza per mezzo di essa come al di sopra di se medesimo, e giunge a conoscere la causa dei fenomeni più straordinari"


Così inizia l'introduzione della Storia dell'Astronomia dalla sua origine fino all'anno MDCCCXI scritta da Giacomo Leopardi nel 1813 in soli sei mesi. Il saggio venne completato quando l'autore non aveva ancora compiuto sedici anni, sebbene il giovane fosse oppresso da pesanti studi di greco, latino ed ebraico e fosse già impegnato nella stesura delle sue prime composizioni poetiche. Gli anni che vanno dal 1809 al 1816 sono infatti quelli dello "studio matto e disperatissimo" in cui Leopardi si dedicò giorno e notte allo studio e alla scrittura, impossessandosi di un'erudizione solidissima resa possibile dalla ricchezza della biblioteca paterna che constava di circa quindicimila volumi. In questi anni il giovane poeta accoglie con entusiasmo l'ideologia illuminista e la sua fiducia nella scienza, nella ragione e nella ricerca sperimentale ed empirica della verità. Tant'è che sia nella Storia dell'Astronomia sia nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, egli si batte contro le credenze popolari e le superstizioni legate all'apparizione di comete o alle eclissi di sole e di luna. Il motivo per cui decise di scrivere una storia dell'astronomia è ben esplicato nella parte finale dell'introduzione alla stessa.


"L'Astronomia dunque è sì stimata da tutti i sapienti, sì favorita da tutti i principi saggi ed illuminati, sì utile ad ogni genere di persone, condotta dalle umane ricerche allo stato in cui al presente si trova merita alcerto che lo studioso filosofo si applichi ad indagare l'origine, a ricercare i progressi e a conoscere l'epoche principali. Non credei dar cosa discara alla letteraria repubblica nel tesser la Storia delle più ardite imprese dell0 umano intelletto. I più celebri astronomi sì antichi, che moderni e le più interessanti vicende dell'Astronomia, verranno in questa con la possibile esattezza noverate e descritte"


Esattezza, quella di Leopardi, al limite dell'incredibile data la sua giovane età e l'ampiezza della biblioteca paterna che conteneva sì un immensità di volumi, ma che non poteva certo rivaleggiare con le biblioteche delle antichissime università in cui l'Astronomia era sempre stata studiata.

Il fascino della volta celeste non abbandonò mai Leopardi che più volte in età matura si lasciò cullare dalle sue luminescenze rivolgendo a questa, a volte, le sue inquietudini più profonde.

Un esempio è la celeberrima Alla luna


O graziosa luna, io mi rammento

che, or volge l'anno, sovra questo colle

io venia pien d'angoscia a rimirarti:

e tu pendevi allor su quella selva

siccome or fai, che tutta la rischiari.

Ma nebuloso e tremulo dal pianto

che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci

il tuo volto apparia, che travagliosa

era mia vita: ed è, né cangia stile,

o mia diletta luna. E pur mi giova

la ricordanza, e il noverar l'etate

del mio dolore. Oh come grato occorre

nel tempo giovanil, quando ancor lungo

la speme e breve ha la memoria il corso,

il rimembrar delle passate cose,

ancor che triste, e che l'affanno duri!


Questo testo poetico fu composto nel 1819 e fa parte di quelli che poi furono definiti piccoli idilli. Il 1819 è un anno importante nella vita del giovane poeta. Da poco ha attraversato due fasi determinanti nella sua crescita artistica: la conversione al bello e la conversione al vero. Nonostante questo leopardi vive ancora in uno stato di sofferenza continua, una sorta di prigionia fisica e psicologica, fatta di , noia, "insensataggine" e "stupidità". Nel luglio 1819 il giovane tenta la fuga da Recanati, pronto a tuffarsi nell'energia e la vitalità della società fuori dal borgo. Purtroppo, però, il piano viene sventato dall'attenta famiglia del ragazzo, facendo ripiombare di nuovo quest'ultimo in quella "civiltà defunta", in quella "atmosfera decadente" e in quell' "ambiente uggioso e retrivo" in cui era cresciuto. Quest'ennesima costrizione, unita all'umiliazione del fallimento, portarono il giovane poeta alla morte delle passione ed ad una concezione della vita fatta di "solido nulla".

La poesia " Alla luna " è espressione di questa fase, in cui il poeta ha una necessità quasi fisica di esprimere il dolore che la sua anima custodisce, trovando come unica interlocutrice disposta ad ascoltarlo, una pallida e solitaria luna. Il ricordo è il tema fondamentale della poesia, o meglio la "ricordanza", titolo originario del testo poetico. La "ricordanza" è la rievocazione di una avvenimento con il fine di riportarlo alla memoria, quasi come se fosse reale e tangibile. Leopardi sostiene spesso, già nelle lettere, che il ricordo è l'unica consolazione della vita, e non può essere evitato. "Rimembrar" è fondamentale perché ci fa illudere che tutto possa rivivere, sia esso un passato di gioia o di dolore. In particolare, i ricordi della giovinezza, sono quelli più piacevoli. Sono ricordi "grati", perché ricordare dispiaceri passati raddolcisce il presente.

Nei versi "sovra questo colle/ io venia pien d'angoscia a rimirarti:" il poeta pone l'accento sulla propria angoscia, su come sia questa a tenere le redini della sua vita. È lei, infatti, che lo fece salire sul colle (forse il monte Tabor), ed è lei ancora oggi a chiedergli di ricordare. La stessa luna appare come la personificazione dell'angoscia, con la sua desolazione, la sua freddezza e la sua incombenza. Nonostante questo essa è anche in grado di rischiarare il buio che regna nella selva con il suo alone di mistero e compassione. Ed è sempre lei a consolare il poeta, pur rimanendo immobile e sempre uguale a se stessa.

La luna, e la natura in generale, appare a Leopardi nella prima fase della sua vita, come una madre benevola, un'entità positiva che genera illusioni, solide e generose, le quali rendono l'uomo capace di essere virtuoso e grande. La civiltà invece è l'unica colpevole dell'infelicità, poiché rende l'uomo consapevole delle proprie illusioni, lo porta alla sofferenza e al pianto. Pianto che è responsabile della distorsione delle forme della luna, che così appare offuscata e tremolante, specchio delle sofferenze e del tormento. La consapevolezza della sofferenza è necessaria perché genera speranza di una felicità futura. Il patimento è strumento di conoscenza.

Il tema della disarmonia fra natura e uomo è ripreso ed ampliato nell' Ultimo canto di Saffo composto nel dicembre 1821 e facente parte dei Canti. Al tema del suicidio si affianca quello della rottura moderna del rapporto armonioso fra natura ed uomo, causato dalla svolta materialistica del poeta, ispirata dal meccanicismo settecentesco. Viene respinta ogni ipotesi sull'esistenza di elementi spirituali infondendo un ulteriore elemento di sofferenza nella povera Saffo che non possiede altro se non la sua bruttezza esteriore. Ciò cozza con la bellezza della natura alla quale caldamente si rivolge in apertura del canto dicendo:


"Placida notte, verecondo raggio

della cadente luna; e tu che spunti

fra la tacita selva in su la rupe,

nunzio del giorno"


Con questi versi intende appellarsi al pudico raggio della luna che tramonta mentre Venere sorge, annunciatore del giorno, sulla rupe fra la selva silenziosa. Si riesce quasi a percepire quell'attimo che precede l'alba, in cui l'universo tace e le stelle stanno ormai sbiadendo mentre sale all'orizzonte Venere più splendente che mai. Certamente Leopardi doveva essere stato tanto incantato da un tale spettacolo da rendersi conto che l'uomo non poteva in nessun modo avvicinarsi alla sua bellezza. Infatti scrive:


" Bello il tuo manto, o divino cielo, e bella

sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta

infinita beltà parte nessuna

alla misera Saffo i numi e l'empia

Sorte non fenno"


La disarmonia tra Saffo e la natura si fonda sulla mancata partecipazione della donna alla bellezza generale dell'universo. La bellezza del paesaggio resta una bellezza per sé e in sé, dalla quale Saffo è esclusa e respinta.

Il personaggio di Saffo non può non essere paragonato a quello di Leopardi, che certamente proietta la propria esperienza nel "rappresentare l'infelicità di un animo delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e giovane" come l'autore stesso scrisse.

Nelle "Ricordanze", composte nel 1829, estremamente malinconiche e a tratti trasognate, le immagini evocate si inseriscono all'interno di un sonnolento contesto notturno in cui dominano le "vaghe stelle dell'Orsa" e in cui, fra un ricordo e l'altro, emerge ancora la volta celeste, oggetto principale delle contemplazioni serali del poeta:


"delle sere io solea passar gran parte

mirando il cielo, ed ascoltando il canto

della rana rimota alla campagna!"


Leopardi aveva un rapporto estremamente intimo con gli astri. Li contemplava, li cercava, li indagava e vi si rivolgeva con vere e proprie domande, come nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Questo componimento fu composto fra il 22 ottobre 1829 e il 9 aprile 1830 e fa parte dei grandi canti del ciclo pisano - recanatese di cui esprime appieno la definitiva maturità stilistica e tematico - filosofica. In questo testo la rappresentazione della tematica prescinde la personale vicenda del soggetto poetico, ma anzi si distacca dall'esperienza affidando la responsabilità del discorso ad un soggetto appositamente costruito: un pastore nomade dell'Asia. Il titolo del testo è esplicativo dello stesso dal momento che ogni parola è ricercata per dare definizione al contesto filosofico. Canto: rimanda alla dimensione lirica e melodica. Notturno: esalta la dimensione esistenziale del testo, essendo la notte il momento canonico della meditazione sul senso della vita. Inoltre, questo termine esprime la mancanza di certezze, cioè il buio che circonda le domande del pastore. Pastore: rappresenta la guida, colui che va in avanscoperta della verità e della strada da seguire. Errante: significa "senza meta", ma anche "che sbaglia". Asia: evoca una dimensione di distanza radicale e di ignoto. L'insieme del titolo definisce una condizione umana di inquieta solitudine.


"Che fai tu, luna, in ciel? dimmi , che fai

silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai

Contemplando i deserti; indi ti posi.

Ancor non sei tu paga

Di riandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

Di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita

La vita del pastore.


Dimmi, o luna: a che vale

Al pastor la sua vita,

la vostra vita a voi? dimmi: ove tende

questo vagar mio breve,

il tuo corso immortale?"


Le domande rivolte alla luna sono interrogativi intorno al significato dell'esistenza. L'esistenza in sé, rappresentata dalla luna e dal cielo stellato, quanto la propria personale esistenza. Il confronto tra al vicenda lunare e la propria, crea un vero e proprio scambio di termini in quanto la luna è antropomorfizzata e il pastore "sorge". Tanto la breve vicenda del pastore quanto quella eterna della luna sembrano limitate ad una ripetizione di gesti uguali, che nell'uomo provoca noia e che ci riporta all'eterno ritorno niciano. La luna, da parte sua, si mostra impassibile, silenziosa. Un diverso atteggiamento della luna aprirebbe nell'uomo la possibilità di qualche risposta per sé, ma il rapporto fra io e paesaggio è ormai rotto.

Nella strofa seguente Leopardi fa una descrizione intensamente allegorica della condizione umana. Come ad esempio la figura del "vecchierello" che si affatica e soffre per correre verso la distruzione e la perdita di coscienza che rappresenta la vita umana, ritratta nella sua mancanza di scopo e di significato. Essa è nient'altro che una futile preparazione all'annullamento segnato dalla morte. La terza strofa introduce il tema del dolore. Il pastore si chiede perché la vita continui, nonostante la mancanza di significato e il prevalere inutile della sofferenza. Infatti, persino il momento della nascita è doloroso e può essere preso come paradigma della condizione infelice dell'uomo in quanto essere mortale. La luna, al contrario, trascendendo i limiti dell'umana caducità, avrebbe un destino diverso. La sua perfetta alterità fa, inoltre, sospettare l'indifferenza nei confronti della sorte terrena dell'uomo, come già annunciato dal silenzio che risponde alle richieste della prima strofa. La luna, dunque, oltre che muta sarebbe anche sorda.


"Intatta luna, tale

è lo stato mortale.

Ma tu mortal non sei,

e forse del mio dir poco ti cale."


"E tu certo comprendi

il perché delle cose, e vedi il frutto

del mattin, della sera

del tacito, infinito andar del tempo.


Mille cose sai tu, mille discopri,

che son celate al semplice pastore.


La quarta strofa porta il tema centrale del testo poetico: l'ipotesi circa il significato dell'esistenza. Esso è nascosto all'umile sguardo del pastore, ma tuttavia esiste ed è solo noto alla luna. L'ipotesi che un significato ci sia ma che sfugga al pastore non riesce a determinare una prospettiva fiduciosa verso la realtà, che continua a essere guardata quale inutile disperazione, sofferenza e morte.  




"Spesso quand'io ti miro

star cos' muta in sul deserto piano,

che, in suo giro lontano, al ciel confina;

ovver con la mia greggia

seguirmi viaggiando a mano a mano;

e quando mio in cielo arder le stelle;

dico fra me pensando:

a che tante facelle?

Che fa l'aria infinita, e quel profondo

Infinito seren? Che vuol dir questa

Solitudine immensa? Ed io che sono?

Così meco ragiono: e della stanza

Smisurata e superba,

e dell'innumerabile adoprar, di tanti moti

d'ogni celeste, ogni terrena cosa,

girando senza posa,

per tornar sempre là donde don mosse;

uso alcuno, alcun frutto

indovinar non so. Ma tu per certo,

giovinetta immortal, conosci il tutto.

Questo io conosco e sento,

che degli eterni giri,

che dell'esser mio frale,

qualche bene o contento

avrà fors'altri; a me la vita è male."


La presenza della luna nella quinta strofa quale compagna silenziosa delle solitarie notti del pastore, non trasmette la fiducia in un significato, ma accresce, con la sua distanza imperturbabile, il bisogno di interrogarsi sul perché dell'universo, della vita e di se stessi. Il tutto rientra in un generale bisogno teorico di conoscenza. Inoltre il pastore dalla propria esperienza materiale fa derivare la certezza del male quale carattere indubitabile della propria vita. Il silenzio della luna, non sembra dunque essere occasionale, ma costitutivo: né ora né mai si udrà risposta alle domande del pastore.



Nella sesta strofa il pastore dialoga con le pecore che, evitando di porsi le domande di senso, vivono felici.


"Forse s'avess'io l'ale

Da volar su le nubi,

e noverar le stelle ad una ad una,

o come il tuono errar di giogo in giogo,

più felice sarei, dolce mia greggia,

più felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero,

mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:

forse in qual forma, in quale

stato che sia, dentro covile o cuna,

è funesto a chi nasce il dì natale."


La settima ed ultima strofa serve a spezzare le congetture fin qui avanzate circa la possibilità di forme di vita felici. Infatti non basterebbe essere come la luna e vedere le cose dall'alto, né essere come un animale e vivere senza coscienza, perché la vita è sventura in se stessa, in ogni condizione.

Leopardi, dunque, non riesce ad entrare in comunicazione con la natura né a scoprire il senso della propria esistenza, ma riassumendo il suo vissuto, conclude che la vita è male. La luna anche qui appare distaccata e disinteressata, ma pur sempre fonte delle più profonde domande di senso e di quella meraviglia e quella suggestione che rimarranno in Leopardi uniche nella storia della letteratura.




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