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Alla ricerca di un significato - tesina




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Alla ricerca di un significato


(Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? , Paul Gauguin, 1897, olio su tela, 141x376 cm, Boston, Museum of Fine Arts)



"Dico fra me pensando:

A che tante facelle?

Che fa l'aria infinita, e quel profondo

Infinito seren? che vuol dir questa

Solitudine immensa? ed io che sono?"


(Giacomo Leopardi; Canto notturno di un pastore errante dell'Asia)




Prefazione

'Gli esseri umani non vivono in perpetuo, Reuven. Viviamo meno di quanto dura un batter d'occhio, se si commisurano le nostre vite all'eternità. Può quindi esser lecito chiedere qual è il valore della vita umana. C'è tanta sofferenza, in questo mondo. Che significa dover tanto soffrire se le nostre vite non sono nient'altro che un batter d'occhio? [.] Reuven, ho imparato molto tempo fa che un batter d'occhio è nulla, di per se stesso. Ma l'occhio che batte, quello sì che è qualcosa. Lo spazio di una vita è nulla. Ma l'uomo che la vive, lui sì che è qualcosa. Lui può colmare di significato questo spazio minuscolo, cosicché la sua qualità sia incommensurabile, sebbene la quantità possa essere irrilevante. Comprendi quel che dico? L'uomo deve colmare la sua vita di significato, il significato non viene attribuito automaticamente alla vita. È un compito duro, bada, e questo non credo che tu lo comprenda, per ora. Una vita colma di significato è degna di riposo. E io voglio esser degno di riposo quando non sarò oltre quaggiù. Comprendi quel che dico?'


(Chaim Potok, Danny l'eletto, 1967)


Nel lungo procedere della storia umana, fin dagli albori della coscienza, il significato e il fine della nostra esistenza hanno assillato poeti e filosofi.

Tuttavia, nonostante l'anelito verso la conoscenza dei grandi "Perché" della vita sia stato così forte, nessuno è riuscito a trovare una risposta.

Ancora oggi, questi interrogativi ci assillano e riescono a colpirci anche quando non vorremmo. La morte di una persona cara ci porta irrimediabilmente a chiederci "perché" sia successo proprio a noi e non a qualcun altro. E l'impotenza, l'inerme consapevolezza che ci colpisce quando sappiamo che non c'è nulla che possiamo fare per impedire tutto ciò, ci struggono e ci corrodono dentro.

Ma l'uomo è un essere - per citare il poeta per antonomasia Dante - "fatto per seguir virtute e canoscenza" e non per "viver come bruti". Pertanto, è riuscito a trovare (come Manzoni o Dante) il senso di tutto in un Essere supremo che trascende il mondo sensibile (Dio), o a dare da sé un significato ad un mondo che, altrimenti, ne sarebbe stato privo.




Letteratura italiana


Dante Alighieri

(Il fine di "tutte nature": Dio come ultimo "porto" - Il Primo Canto del Paradiso)


(Firenze, tra il 14 maggio ed il 13 giugno 1265 - Ravenna, 14 settembre 1321)


Il canto si apre sulla consapevolezza che la salvezza è nel ritorno a Dio, con una protasi (Dante si propone di raccontare il suo viaggio fino all'Empireo e il suo incontro con Dio).

"Veramente quant'io del regno santo

ne la mia mente potei far tesoro,

sarà ora materia del mio canto."


(Dante Alighieri; Paradiso - Canto I, vv. 10-12)


. e con un'invocazione ad Apollo, dio della poesia e delle arti, cui il poeta chiede assistenza a causa della difficoltà e dell'altezza dell'argomento.

Dante e Beatrice si trovano ancora sulla cima del Purgatorio, e lo sguardo della donna verso il sole induce Dante a fare lo stesso ed ad affrontare il tema dell'ascesa, del volo verso Dio. I personaggi si trovano in primavera, a mezzogiorno, quando si è nella pienezza della luce; egli si sente avvolto da questo fascio di luce come se avesse riconquistato i poteri dell'uomo prima del peccato originale. La luce è il segno del progressivo avvicinarsi a Dio. In questa armonia di luce c'è però una nota stonata: il suo corpo.

A questo punto, interviene Beatrice a spiegargli che quel mondo non è regolato da leggi fisiche: l'unica legge è quella religiosa.


"Molto è licito là, che qui non lece

a le nostre virtù, mercé del loco

fatto proprio de l'umana spece.


Trasumanar significar per verba

Non si poria; però l'essemplo basti

A cui l'esperïenza grazia serba"


(Dante Alighieri; Paradiso - Canto I, vv. 55-57, 70-72)


Ad ogni cosa Dio ha assegnato un fine. Le cose sono come navi in movimento in un immenso oceano, ognuna con il suo carico; ognuna raggiungerà il porto cui è stata avviata, ma il pilota che guida tutto dall'alto è Dio. Il male può deviare gli uomini dal loro fine, poiché questi si lasciano attrarre dai piaceri mondani e si staccano da Dio. Da qui nasce il bisogno di reinsegnare agli uomini il piacere dell'obbedienza alle leggi di Dio.


"e cominciò: "Le cose tutte quante

hanno ordine tra loro, e questo è forma

che l'universo a Dio fa simigliante.

Qui veggion l'alte creature l'orma

de l'etterno valore, il qual è fine

al quale è fatta la toccata norma.

Nel'ordine ch'io dico sono accline

tutte nature, per diverse sorti,

più al principio loro e men vicine;

onde si muovono a diversi porti

per lo gran mar de l'essere, e ciascuna

con istinto a lei dato che la porti.


Vero è che, come forma non s'accorda

molte fïate a l'intenzion de l'arte,

perch'a risponder la materia è sorda,

così da questo corso si diparte

talor la creatura, c'ha podere

di piegar, così pinta, in altra parte."


(Dante Alighieri; Paradiso - Canto I, vv. 103-114, 127-132)


Infine, liberata la mente dal "falso imaginar", rivolge in viso "inver lo cielo".



Ugo Foscolo

(Il nichilismo materialistico e la "religione" delle illusioni)


(Zante, 6 febbraio 1778 - Turnham Green, Londra, 10 settembre 1827)


Nel periodo illuminista, prendono forma delle dottrine filosofiche che, prescindendo da una visione trascendentale della realtà, cercano di capire la natura attraverso l'uso dei sensi; il sensismo, il cui maestro è E.B. De Condillac, è il punto di riferimento per la poetica del Foscolo. La visione della vita del Foscolo è drammatica; secondo il poeta il fine dell'uomo è il nulla eterno, sono valide solo le conoscenze che derivano dai sensi e dalla ragione e il cosmo è un continuo divenire, un ciclo costante che vede le cose nascere, morire e trasformarsi.

"Forse perché della fatal quïete
Tu sei l'imago a me sì cara vieni
O sera! E quando ti corteggian liete
Le nubi estive e i zeffiri sereni,

E quando dal nevoso aere inquïete
Tenebre e lunghe all'universo meni
Sempre scendi invocata, e le secrete
Vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme

Delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
Quello spirto guerrier ch'entro mi rugge."


(Ugo Foscolo; Alla sera)


L'unica realtà per l'uomo è quella sensibile, egli fa parte di quel meccanismo fatale presente nella natura. Il suo compito è dunque quello di capire questa realtà, tutto ciò che sfugge alle sue capacità razionali e sensibili è falso e non ha valore.


"Pare che gli uomini sieno fabbri delle proprie sciagure; ma le sciagure derivano dall'ordine universale, e il genere umano serve orgogliosamente e ciecamente a' destini. [.] La terra è una foresta di belve. [.] E perché l'umana schiatta non trova né felicità né giustizia sopra la terra, crea gli Dei protettori della debolezza e cerca premj futuri del pianto presente. Ma gli Dei si vestirono in tutti i secoli delle armi de' conquistatori; e opprimono le genti con le passioni, i furori, e le astuzie di chi vuole regnare. [.] Ma mentre io guardo dall'alto le follie e le fatali sciagure dell'umanità, non mi sento forse tutte le passioni, e la debolezza ed il pianto, soli elementi dell'uomo? [.] Abbandonato dal cielo, non chiedi tu ajuto dal cielo? non t'ascolta; eppure nelle tue afflizioni il tuo cuore torna involontario a lui: ti prostra, ma all'are domestiche."


(Ugo Foscolo; Ultime lettere di Jacopo Ortis, lettera del 19 e 20 febbraio 1799)


A questa visione pessimistica della vita, il Foscolo cerca però di reagire affermando i grandi ideali di Verità, di Giustizia, di Bellezza, di Libertà e di Patria. Si forma così nel poeta una nuova fede laica: la religione delle illusioni; lo strumento di esaltazione delle illusioni è la poesia e il compito di essa è quello di cogliere, eternare e tramandare i grandi valori dell'umanità. La poesia è dunque per l'artista espressione di civiltà e di umanità che fa vivere nel tempo, oltre al limite della vita singola di ogni uomo, i grandi ideali.


"Quando il tempo con sue fredde ale vi spazza

Fin le rovine, le Pimplèe fan lieti

Di lor canto i deserti, e l'armonia

Vince di mille secoli il silenzio."

(Ugo Foscolo; Dei sepolcri; vv. 230-234)


Il Foscolo in ogni modo è sempre cosciente che gli ideali e i sentimenti più grandi sono solo delle illusioni, ma egli li contrappone drammaticamente alla limitatezza umana e alla labilità della materia. La visione romantica del poeta raggiunge i punti più alti di espressione nei Sepolcri, in essi si fonde armonicamente la visione romantica e la struttura classica appresa dai poeti del passato, l'opera è inoltre pervasa da una continua tensione fra finito e infinito, dove per finito egli intende la realtà e per infinito le illusioni, l'abbandono ai più nobili impulsi del cuore, i Sepolcri sono in continuo contrasto tra vita e morte, l'uomo sfida il proprio destino eterno cercando di tramandare ai posteri il suo pensiero e i suoi più grandi valori spirituali: è questa continua ricerca dell'eternità, dell'infinito che da un significato alla sua vita.


"All'ombra de' cipressi e dentro l'urne

Confortate di pianto è forse il sonno

Della morte men duro?


Qual fia ristoro a' dì perduti un sasso

Che distingua le mie dalle infinite

Ossa che in terra e in mar semina morte?


Celeste è questa corrispondenza d'amorosi sensi,

celeste dote è negli umani; e spesso

per lei si vive con l'amico estinto

e l'estinto con noi."


(Ugo Foscolo; Dei sepolcri; vv. 1-3, 13-15, 29-33)


Questa illusione sarà sempre presente nella visione poetica del Foscolo e sarà la sua ragione di esistenza.



Giacomo Leopardi

(La "social catena" come mezzo per contrastare l'insensato male della Natura)


(Recanati, 29 giugno 1798 - Napoli, 14 giugno 1837)


Quasi contemporaneo al Foscolo è il Leopardi. La poetica del Leopardi è in alcuni suoi aspetti analoga a quella di Foscolo, anch'egli aderisce alle posizione illuministe del '700 e fonda il suo pensiero sulla base delle dottrine sensistiche, al contrario però, la sua opera si differenzia per un pessimismo più radicale e per delle diverse soluzioni da quelle auspicate dal Foscolo.  Inizialmente, il poeta ha una visione dalla natura benigna (pessimismo storico). Questa è dovuta in gran parte allo studio dei testi di Rousseau, ma in seguito capovolge il proprio pensiero verso la visione di una natura matrigna (pessimismo cosmico), evidente soprattutto nelle Operette morali e nei canti pisano-recanatesi.

La natura è per il poeta un ciclo continuo di trasformazione della materia, di nascita e di morte, le illusioni sono solo uno slancio sentimentale della giovinezza che non portano alla felicità, la quale è per il poeta qualche cosa d'irraggiungibile, essa in ogni momento della vita viene ricercata ma non è mai raggiunta (teoria del piacere).


"Islandese: [.] Io soglio prendere non piccola ammirazione considerando come tu ci abbi infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità del piacere; disgiunta dal quale la nostra vita, come priva di ciò che ella desidera naturalmente, è cosa imperfetta: e d'altra parte abbi ordinato che l'uso di esso piacere sia quasi di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo. [.] Io non mi ricordo di aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena. [.]

Natura: Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n'avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, e non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei. [.] Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest'universo è un perpetuo ciclo di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all'altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l'una o l'altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione.

Islandese: [.] dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?

Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni [.] che appena ebbero la forza di mangiarsi quell'Islandese; come fecero; [.] Ma sono alcuni che [.] narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l'Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui disseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città d'Europa."


(Giacomo Leopardi; Dialogo della Natura e di un Islandese, Operette morali)


La condizione dell'umanità è una condizione di sofferenza, l'uomo deve prendere coscienza della sua condizione esistenziale e del suo continuo soffrire e attraverso la solidarietà deve cercare di reagire alla drammaticità della vita, deve reagire al meccanismo cieco della natura esprimendo i sentimenti più puri presenti nel suo animo.


"Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l'un l'altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quest'ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora."


(Giacomo Leopardi; Dialogo di Plotino e di Porfirio, Operette morali)


"Ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell'infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera. [.] E di più vi dico francamente, ch'io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini."


(Giacomo Leopardi; Dialogo di Tristano e di un amico, Operette morali)


La presa di posizione del Leopardi è una presa di posizione più laica, meno illusoria di quella del Foscolo. Il solo modo reale di vincere momentaneamente la natura è quello di affermare la dignità dell'uomo che si esprime con l'unione di tutti gli uomini. Il poeta supera così lo storicismo romantico e contrappone il diritto dell'uomo al raggiungimento della felicità attraverso un approccio sensibile e non ideale. La visione ottimistica della società borghese falsifica i veri drammi dell'uomo e la sua continua infelicità, la visione pessimistica espressa dal poeta paradossalmente si rivela così come una concezione progressista della storia che smitizza i falsi valori presenti nella società borghese.


"Qui mira e qui ti specchia,

Secol superbo e sciocco,

Che il calle insino allora

Dal risorto pensier segnato innanti

Abbandonasti, e volti addietro i passi,

Del ritornar ti vanti, E procedere il chiami.


Libertà vai sognando, e servo a un tempo

Vuoi di novo il pensiero,

Sol per cui risorgemmo

Della barbarie in parte, e per cui solo

Si cresce in civiltà, che sola in meglio

Guida i pubblici fati.


Nobil natura è quella

Che a sollevar s'ardisce

Gli occhi mortali incontra

Al comun fato, e che con franca lingua,

Nulla al ver detraendo,

Confessa il mal che ci fu dato in sorte,

E il basso stato e frale;


Così fatti pensieri

Quando fien, come fur, palesi al volgo,

E quell'orror che primo

Contra l'empia natura

Strinse i mortali in social catena,

Fia ricondotto in parte

Da verace saper, l'onesto e il retto

Conversar cittadino,

E giustizia e pietade, altra radice

Avranno allor che non superbe fole,

Ove fondata probità del volgo

Così star suole in piede

Quale star può quel c'ha in error la sede."

(Giacomo Leopardi; La ginestra, Canti, 34; vv. 52-57, 72-77, 111-117, 145-157)


Come visto, la presa di coscienza dell'infelicità dell'essere umano implica un superamento di questa condizione attraverso l'affermazione dei valori più nobili dell'animo umano e soprattutto la costruzione di una reciproca solidarietà estesa a tutta la comunità mondiale. Naturalmente, il pessimismo cosmico presente in Leopardi rimane sempre una costante, l'uomo può solo raggiungere parzialmente uno stato di felicità attraverso la modificazione del rapporto con i propri simili, ma non può comprendere i grandi enigmi dell'infinito e del nulla eterno. Il poeta sentirà profondamente questo dramma e la sua vita sarà sempre impegnata nella comprensione del destino umano.





Alessandro Manzoni

(Il dolore terreno come preludio ad un bene superiore)


(Milano, 7 marzo 1785 - Milano, 22 maggio 1873)


I temi del significato della vita umana affrontati dal Foscolo e dal Leopardi sono trattati anche dal Manzoni. La poetica del Manzoni, però, si differenzia notevolmente da quella dei due autori citati, essendo quest'ultimo un cattolico per il quale il fine della vita umana è la salvezza eterna.

Per il Manzoni, il significato della vita va ricercato nei valori cristiani, il dolore e il male sono visti, a differenza del Leopardi, non come una costante insita nella natura, ma come una dimenticanza della morale cattolica. Il modello di vita cattolica cui aderisce il Manzoni concretizza i grandi principi della Rivoluzione Francese e difatti, contrariamente a molti cattolici a lui precedenti, la visione che ha della storia è sostanzialmente progressista.


"Perché, baciando i pargoli,

la schiava ancor sospira?

e il sen che nutre i liberi

invidïando mira?

Non sa che al regno i miseri

Seco il Signor solleva?

che a tutti i figli d'Eva

nel suo dolor pensò?

Nova franchigia annunziano

i cieli, e genti nove;


Tempra de' baldi giovani

il confidente ingegno;

reggi il viril proposito

ad infallibil segno;

adorna la canizie

di liete voglie sante;

brilla nel guardo errante

di chi sperando muor."


(Alessandro Manzoni; La Pentecoste, vv. 65-72, 137-144)

Il poeta attraverso le sue opere cerca di trasmettere dei valori positivi che superano la visione reazionaria presente nella società italiana del suo tempo. Si riscontra così, nella sua poetica, un'adesione reale alle problematiche presenti nel popolo: l'ingiustizia e le disuguaglianze sono viste come un male che va risolto attraverso un rinnovamento spirituale che riconosca la dignità dell'uomo e la sua uguaglianza di fronte a Dio.

L'adesione profonda al cattolicesimo, maturata durante gli anni della sua vita, è una costante che si rispecchia in tutta la sua opera e il messaggio cristiano arricchisce il pensiero dello scrittore che vede l'esistenza come l'opera di un disegno divino, ma, diversamente da Foscolo e da Leopardi, solo attraverso il cristianesimo si può comprendere la nostra presenza su questa terra e il fine impercettibile della nostra vita.


'Renzo!' disse il frate, afferrandolo per un braccio, e guardandolo ancor più severamente.
'E se lo trovo,' continuò Renzo, [.] 'se la peste non ha già fatto giustizia [.] la farò io la giustizia!'

'Sciagurato!' gridò il padre Cristoforo, "[. ] Guarda chi è Colui che gastiga! Colui che giudica, e non è giudicato! Colui che flagella e che perdona! Ma tu, verme della terra, tu vuoi far giustizia! Tu lo sai, tu, quale sia la giustizia! Va', sciagurato, vattene! Io, speravo sì, ho sperato che, prima della mia morte, Dio m'avrebbe data questa consolazione di sentir che la mia povera Lucia fosse viva; forse di vederla, e di sentirmi prometter da lei che rivolgerebbe una preghiera là verso quella fossa dov'io sarò. Va', tu m'hai levata la mia speranza. Dio non l'ha lasciata in terra per te; e tu, certo, non hai l'ardire di crederti degno che Dio pensi a consolarti. Avrà pensato a lei, perché lei è una di quell'anime a cui son riservate le consolazioni eterne. Va'! non ho più tempo di darti retta.'

E così dicendo, rigettò da sé il braccio di Renzo, e si mosse verso una capanna d'infermi.
'Ah padre!' disse Renzo, andandogli dietro in atto supplichevole: 'mi vuol mandar via in questa maniera?'

"[.] Ardiresti tu di pretendere ch'io rubassi il tempo a questi afflitti, i quali aspettano ch'io parli loro del perdono di Dio, per ascoltar le tue voci di rabbia, i tuoi proponimenti di vendetta? T'ho ascoltato quando chiedevi consolazione e aiuto; [.] ma ora tu hai la tua vendetta in cuore. [.] Ho odiato anch'io: io, che t'ho ripreso per un pensiero, per una parola, l'uomo ch'io odiavo cordialmente, che odiavo da gran tempo, io l'ho ucciso. [.] credi tu che, se ci fosse una buona ragione, io non l'avrei trovata in trent'anni? Ah! s'io potessi ora metterti in cuore il sentimento che dopo ho avuto sempre, e che ho ancora, per l'uomo ch'io odiavo! S'io potessi! io? ma Dio lo può: Egli lo faccia! [.] Egli ti vuol più bene di quel che te ne vuoi tu [.] Tu sai, tu l'hai detto tante volte, ch'Egli può fermar la mano d'un prepotente; ma sappi che può anche fermar quella d'un vendicativo. E perché sei povero, perché sei offeso, credi tu ch'Egli non possa difendere contro di te un uomo che ha creato a sua immagine? Credi tu ch'Egli ti lascerebbe fare tutto quello che vuoi? No! ma sai tu cosa puoi fare? Puoi odiare, e perderti; puoi, con un tuo sentimento, allontanar da te ogni benedizione. Perché, in qualunque maniera t'andassero le cose, qualunque fortuna tu avessi, tien per certo che tutto sarà gastigo, finché tu non abbia perdonato in maniera da non poter mai piú dire: io gli perdono.'


(Alessandro Manzoni; I promessi sposi, cap. XXXV)


La storia dell'umanità non è un lungo procedere verso il nulla, ma è la conquista dell'eternità.












Giovanni Verga

(Gli esclusi e il senso della vita: il crollo degli antichi valori)


(Vizzini, 2 settembre 1840 - Catania, 27 gennaio 1922)


La figura dell'escluso, del disadattato sociale, dell'intruso in una nuova classe sociale, ha sempre nel Verga un pathos profondo che rivela non solo un'attenzione conoscitiva, ma anche un processo di identificazione, di cui bisogna ritrovare le ragioni storiche.

Non bisogna dimenticare che il periodo in cui nasce e si sviluppa la corrente letteraria del Verismo (quello in cui vive ed opera Verga) è caratterizzato da notevoli mutamenti sotto il profilo economico (è l'epoca della Seconda Rivoluzione Industriale). Tali mutamenti causano da un lato il crollo dei valori tradizionali, a cui si erano aggrappati sino a quel momento gli artisti, e dall'altro lo sviluppo di nuovi valori prettamente materialistici, quali la "vaga bramosia dell'ignoto" e "l'accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe stare meglio", contro i quali Verga si scaglia apertamente.

"Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta fino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell'ignoto, l'accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio. [.] Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l'umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell'insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l'accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l'egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l'immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c'è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l'attività dell'individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti.

(Giovanni Verga; I Malavoglia, Prefazione)


Ciò comporta la lenta ma definitiva esclusione dell'artista dai meccanismi che governano una società alla quale egli sente di non appartenere più. Tale situazione viene rappresentata dal Verga tramite alcuni personaggi, i quali vivono anch'essi il dramma di una vita che sembra essere priva di significato ma, come vedremo, sono in realtà questi personaggi, gli "esclusi", a possedere il vero significato del senso della vita.

Tra le opere più significative, degno di nota è il romanzo I Malavoglia, dove domina ancora l'illusione della "religione della famiglia", ovvero quell'insieme di valori autentici che animavano la società arcaico-rurale di un tempo e che non sono più riscontrabili nella società moderna. Portavoce di questa "religione" è il vecchio Padron 'Ntoni, così radicato ai suoi detti arcaici.

Dall'altro lato, invece, vi è il giovane 'Ntoni, che tenta di cambiare il proprio status sociale, ritenendo, come molti altri a quell'epoca, che il vero senso della vita risiedesse nelle città, che iniziavano pian piano a trasformarsi in vere e proprie metropoli pulsanti di vita. Questa scalata sociale, tuttavia, non avrà successo e non consentirà al giovane 'Ntoni neppure il ritorno nella logica arcaica di Trezza, che abbandona per sempre in un finale ricco di pathos e di significato.


"- Addio, ripeté 'Ntoni. Vedi che avevo ragione d'andarmene! qui non posso starci. Addio, perdonatemi tutti.

E se ne andò colla sua sporta sotto il braccio; poi quando fu lontano, in mezzo alla piazza scura e deserta, che tutti gli usci erano chiusi, si fermò ad ascoltare se chiudessero la porta della casa del nespolo, mentre il cane gli abbaiava dietro, e gli diceva col suo abbaiare che era solo in mezzo al paese."


(Giovanni Verga; I Malavoglia, cap. XV)


L'addio di 'Ntoni sembra simboleggiare l'addio del poeta stesso al suo tentativo di trovare un ruolo attivo e protagonistico in una modernità che è riuscita a scardinare qualunque altro valore esistente (i valori famigliari della società arcaico-rurale di Trezza), offrendone al loro posto altri più materialistici e deleteri.



Giovanni Pascoli

(L'incomprensibilità del male e della sofferenza: X Agosto)


(San Mauro Pascoli, 31 dicembre 1855 - Bologna, 6 aprile 1912)


Un altro autore che si è soffermato sul significato della vita e del male che la domina incontrastato è stato Giovanni Pascoli. L'origine della sua riflessione si può far risalire alla tragica uccisione del padre, mentre tornava a casa, il 10 agosto 1867. L'avvenimento sarebbe rimasto impresso per sempre nella mente di Pascoli come un esempio della ingiustificata e improvvisa crudeltà dell'uomo.

Il ricordo di tale avvenimento offre lo spunto per un componimento che verrà scritto dal poeta trent'anni più tardi, e precisamente il 9 agosto 1896, che rievoca quella giornata in tutta la sua drammaticità.

X Agosto è una poesia dedicata alla morte del padre, che Pascoli collega a quella di una rondine uccisa anch'essa senza motivo mentre torna al nido dove l'attendono i suoi piccoli; il cielo, dal'alto della sua infinita e serena distanza, assiste alle due morti con un lacrimare di stelle (fenomeno particolarmente fitto la notte del 10 agosto).

Tuttavia, l'uomo e la rondine sono, al di là della loro esistenza individuale, simboli del dolore universale e della malvagia ingiustizia che regola la vita sulla Terra; e la lontananza del cielo esprime la lontananza incolmabile del bene e della giustizia dalla sofferenza umana.


"San Lorenzo, io lo so perché tanto

di stelle per l'aria tranquilla

arde e cade, perché si gran pianto

nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto:

l'uccisero: cadde tra i spini;

ella aveva nel becco un insetto:

la cena dei suoi rondinini.

Ora è là, come in croce, che tende

quel verme a quel cielo lontano;

e il suo nido è nell'ombra, che attende,

che pigola sempre più piano.

Anche un uomo tornava al suo nido:

l'uccisero: disse: Perdono;

e restò negli aperti occhi un grido:

portava due bambole in dono.

Ora là, nella casa romita,

lo aspettano, aspettano in vano:

egli immobile, attonito, addita

le bambole al cielo lontano.

E tu, Cielo, dall'alto dei mondi

sereni, infinito, immortale,

oh! d'un pianto di stelle lo inondi

quest'atomo opaco del Male!"


(Giovanni Pascoli; Myricae, III)


Gabriele D'Annunzio

(L'estetismo e il superuomo: il senso della vita nel culto del Bello)


(Pescara, 12 marzo 1863 - Gardone Riviera, 1s marzo 1938)


Mentre in autori come Verga o Pascoli abbiamo assistito alla piena consapevolezza del decadimento di tutti i valori autentici di un tempo, questo non accade in D'Annunzio, il quale si propone alle masse come l'ultimo grande Umanista, attraverso la figura del superuomo.

L'idea del superuomo dannunziano deriva da una lettura alquanto forzata di Nietzsche. Infatti, mentre per Nietzsche il superuomo (o meglio, oltreuomo) è il prototipo di un nuovo tipo di umanità che sia in grado di allargare i propri orizzonti e di creare da sé i propri valori (su questo argomento ci si soffermerà in seguito nella sezione dedicata alla filosofia), per D'annunzio è un individuo eccezionale in grado di elevarsi al di sopra della massa rozza e di dominarla e guidarla.

Il superuomo dannunziano è in grado di entrare in piena simbiosi con la natura che lo circonda e di carpirne la forza vitale che attraversa sotterranea tutti gli esseri viventi, in modo di entrare in intimo contatto con il segreto che la anima. Da ciò scaturisce una visione pienamente vitalistica della vita, a differenza di quanto si è visto precedentemente.

È possibile suddividere le fasi del superuomo dannunziano in tre parti:

Superuomo esteta: cerca la realizzazione di se stesso attraverso il culto della bellezza, vivendo la propria vita "come si fa un'opera d'arte". Fanno parte di questa fase i romanzi Il piacere e il Trionfo della morte. In entrambi i romanzi, tuttavia, si assiste al fallimento degli ideali estetici dei protagonisti (Andrea Sperelli nel primo, Giorgio Aurispa nel secondo), a causa dell'irruzione nelle loro vite estetiche dei vuoti valori della società di massa. Tuttavia, mentre Andrea trova la forza di affrontare il fallimento dei suoi propositi di vita, Giorgio sceglie il suicidio;


"Sotto il grigio diluvio democratico, che molte belle cose e rare sommerge miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di anticha nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizion familiare d'eletta cultura, d'eleganza e di arte. [.] Il conte Andrea Sperelli-Fieschi d'Ugenta [.] era, per così dire, tutto impregnato di arte. [.] aveva una scienza profonda della vita voluttuaria e insieme una certa inclinazione byroniana al romanticismo fantastico. [.] Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: 'Bisogna fare la propria vita, come si fa un'opera d'arte. [.] Habere, non haberi. '


(Gabriele D'Annunzio; Il piacere, Libro Primo, cap. II)


"Nelle stanze non rimaneva quasi più nulla. Dalle finestre prive di tende entrava lo splendore rossastro del tramonto, entravano tutti gli strepiti della via sottoposta. Alcuni uomini staccavano ancóra qualche tappezzeria dalle pareti, scoprendo il parato di carta a fiorami volgari, su cui erano visibili qua e là i buchi e gli strappi. Alcuni altri toglievano i tappeti e li arrotolavano, suscitando un polverio denso che riluceva ne' raggi. Un di costoro canticchiava una canzone impudica. E il polverio misto al fumo delle pipe si levava sino al soffitto. Andrea fuggì. Nella piazza del Quirinale, d'innanzi alla reggia, sonava una fanfara. Le larghe onde di quella musica metallica si propagavano per l'incendio dell'aria. L'obelisco, la fontana, i colossi grandeggiavano in mezzo al rossore e si imporporavano come penetrati d'una fiamma impalpabile. Roma immensa, dominata da una battaglia di nuvoli, pareva illuminare il cielo. Andrea fuggì, quasi folle. Prese la via del Quirinale, discese per le Quattro Fontane, rasentò i cancelli del palazzo Barberini che mandava dalle vetrate baleni; giunse al palazzo Zuccari. I facchini scaricavano i mobili da un carretto, vociando. Alcuni di costoro portavano già l'armario su per la scala, faticosamente. Egli entrò. Come l'armario occupava tutta la larghezza, egli non poté passare oltre. Seguì, piano piano, di gradino in gradino, fin dentro la casa."


(Gabriele D'Annunzio; Il piacere, Libro Quarto cap. III)


Superuomo tribuno: cerca di riportare in auge la romanità contro la decadenza del secolo presente. Fanno parte di questa fase i romanzi Le vergini delle rocce e Il fuoco. Per esempio, il protagonista del primo romanzo, Claudio Cantelmo, va alla continua ricerca di una donna che sia in grado di dargli un figlio capace di riscattare la degradazione presente. Egli, infatti, è convinto di appartenere a una specie superiore, ben diversa dalla volgarità del popolo e della borghesia. Il superomismo arriva addirittura a sfiorare la megalomania;

Fase notturna: caratterizzata dalla riflessione sul tema della morte e della sfuggevolezza della giovinezza. Fa parte di questa fase il terzo libro delle Laudi, Alcyone.

Eppure, sebbene D'Annunzio abbia passato tutta la sua vita a perseguire un ideale così irraggiungibile, non può fare a meno di percepire il vicolo cieco nel quale sfocerà irrimediabilmente quella estenuante ricerca.


"E piove [.]

su la favola bella

che ieri

m'illuse, che oggi t'illude

o Ermione."


(Gabriele D'Annunzio; La pioggia nel pineto, vv. 116-128)

Italo Svevo

(La tendenza umana all'autodistruzione: la constatazione finale di Zeno)


(Pescara, 12 marzo 1863 - Gardone Riviera, 1s marzo 1938)


La cultura di Svevo deriva dalla confluenza di vari filoni di pensiero: da un lato il positivismo, dal'altro quello negativo di Schopenhauer e di Nietzsche. Da notare è anche l'influenza della psicoanalisi freudiana. Da ciò deriva il costante interesse per le teorie psicoanalitiche che, in quegli anni, stavano conoscendo una notevole diffusione in tutta Europa. Per Svevo, Freud è un maestro dell'analisi dell'ambiguità costitutiva dell'io, mosso da pulsioni che non può controllare, Tuttavia, Svevo rinuncia ad una visione totalizzante della psicoanalisi e alla sua applicabilità in campo medico. Essa permette esclusivamente all'individuo di conoscere meglio se stesso.

Il rifiuto della psicoanalisi si manifesta appieno nel personaggio di Zeno, protagonista del romanzo La coscienza di Zeno, il quale è affetto da nevrosi. Per Svevo, tuttavia, la nevrosi è anche un segno positivo di non rassegnazione e di non adattamento ai meccanismi alienanti della civiltà, la quale impone lavoro, disciplina, obbedienza alle leggi morali, sacrificando la ricerca del piacere. La terapia lo renderebbe più "normale", ma a prezzo di spegnere in lui le pulsioni vitali. Per questo l'ultimo Svevo difende la propria "inettitudine" e la propria nevrosi, viste come forme di resistenza all'alienazione circostante.

Così si spiega il quadro finale che viene delineato dall'autore nell'ultimo capitolo del romanzo. Ormai solo da più di un anno a Trieste, egli può disporre liberamente del patrimonio paterno, comprando qualunque merce gli venga offerta "Fu il mio commercio che mi guarì e voglio che il dottor S. lo sappia" afferma Zeno. Dunque, certo della propria "guarigione", Zeno fa le sue considerazioni generali sulla vita.


"La vita attuale è inquinata alle radici. L'uomo s'è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l'aria, ha impedito il libero spazio. [.] Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. [.]  Solamente al pensiero soffoco! [.] Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. [.] Ma l'occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c'è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l'uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l'ordigno non ha più alcuna relazione con l'arto. [.] Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' più ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie."


(Italo Svevo; La coscienza di Zeno, dal capitolo Psico-analisi)

Filosofia


Arthur Schopenhauer

(La vita come un "pendolo": la cecità della Volontà e le vie per combatterla)


Danzica, 22 febbraio 1788 - Francoforte sul Meno, 21 settembre 1860)


In campo filosofico, importante fu la riflessione del tedesco Arthur Schopenhauer.

Egli riprende da Kant i concetti di fenomeno e noumeno. Il fenomeno è il prodotto della nostra coscienza, esso è il mondo come ci appare mediante le forme a priori dell'intelletto (tempo, spazio, causalità), mentre il noumeno è la cosa in sé, fondamento ed essenza vera del mondo.

Il fenomeno materiale è dunque per Schopenhauer solo parvenza, illusione, sogno, come in molta filosofia indiana, dalla quale egli prende spesso ad esempio il mito del "velo di Maya"; per questo il filosofo tedesco apre la sua opera principale con l'espressione il mondo è mia rappresentazione. Ma al di là di questa, che è mero strumento, necessario alla conservazione dell'esistenza della specie e dello stesso individuo, è la 'cosa in sé' cioè il noumeno che l'uomo desidera conoscere per lenire il dolore e la miseria della propria vita. Proprio perché l'uomo sente questa necessità di conoscere il noumeno egli è un animale metafisico.


"È Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche assomiglia alla corda gettata a terra, che egli prende per un serpente"


(Arthur Schopenhauer; Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. I)


Se fossimo solo esseri conoscenti, rappresentanti, non potremmo mai scoprire la cosa in sé. Ma noi siamo anche corpo, la realtà delle cose ci concerne, siamo nel mondo come una sua parte; difatti vogliamo, desideriamo certe cose e certe altre le evitiamo, rifuggiamo il dolore e ricerchiamo il piacere. Proprio questo ci permette di squarciare il velo del fenomeno e cogliere la cosa in sé. Infatti, ripiegandoci in noi stessi, scopriamo che la radice noumenica del nostro io è la volontà: noi siamo volontà di vivere, un impulso irrazionale che ci spinge, malgrado noi stessi, a vivere e ad agire.


"In verità, il senso tanto cercato di questo mondo, che mi sta davanti come mia rappresentazione [.] non si potrebbe assolutamente mai raggiungere se l'indagatore medesimo non fosse nient'altro che il puro soggetto conoscente (alata testa d'angelo senza corpo). [.] al soggetto conoscente, che appare come individuo, è data la parola dell'enigma; e questa parola è volontà. Al soggetto della conoscenza [.] questo corpo è dato [.] come rappresentazione nell'intuizione dell'intelletto, come oggetto fra oggetti e sottomesso alle leggi di questi; ma è dato contemporaneamente [.] come quell'alcunché direttamente conosciuto da ciascuno, che la parola volontà esprime. Ogni vero atto della sua volontà è immediatamente e ineluttabilmente anche un moto del suo corpo."


(Arthur Schopenhauer; Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. I)


La volontà di vivere è in realtà non solo la radice noumenica del nostro io, ma di tutta la realtà. Infatti la volontà si oggettiva in tutta la realtà fenomenica: nelle cose inanimate, nelle piante, negli animali e nell'uomo (in cui raggiunge la massima consapevolezza). In quanto rappresentazione sorgente in un cervello animale, il fenomeno è dunque la volontà dispiegata in gradi diversi di oggettivazione (forze meccaniche, elettriche, chimiche, vegetative ed animali) e moltiplicata in innumerevoli individui sparpagliati nello spazio e nel tempo secondo il nesso della causalità. Dunque, ogni estrinsecazione di tali forze in un punto dello spazio e del tempo, comprese le azioni e la vita stessa di ogni animale e vegetale, è solo la rappresentazione di un'idea (intesa nel senso platonico), di un tale preciso grado di oggettivazione della volontà. Tali idee, tali gradi di oggettivazione sono dunque estranee alle determinazioni di spazio e di tempo, sono anzi il fondamento e il senso ultimo di ogni qualità della materia e del nesso causale a cui sottostà qualsiasi rappresentazione. Eterne sono le idee, eterna è quindi la volontà di vivere di cui tutte quelle idee sono oggettivazioni; essa è aspaziale, atemporale, incausata, senza fine e senza scopo.

La conseguenza dell'afinalità e dell'irrazionalità della volontà è l'insensatezza del mondo stesso e della vita di tutti gli esseri viventi in esso. È la volontà di vita a creare il mondo così come ci si presenta, come continua lotta di tutte le forze naturali tra loro per conquistarsi la materia necessaria alla loro estrinsecazione; è la volontà di vita a generare, infine, per questa sua lotta, il dolore, la miseria e la morte in tutti gli esseri conoscenti e senzienti. La tradizione cristiano-giudaica trova un senso alla nostra vita postulando l'esistenza di un Dio, ma secondo Schopenhauer per Dio non si pensa altro che un essere conoscente che abbia voluto creare il mondo, cioè un essere che ha elargito agli uomini come un dono un tale miserevole stato di cose: un pensiero quindi davvero opprimente e aberrante.

La volontà di vivere è causa di sofferenza per tutti gli esseri conoscenti, e in special modo per l'uomo, la cui maggiore razionalità rende infinitamente più dolorosa la sua vita rispetto a quella degli altri animali.

La volontà di vivere produce incessantemente nell'uomo bisogni che richiedono soddisfazione: desideri, che sono dunque reazione ad un senso di mancanza, di sofferenza. Difficilmente però tutti i desideri si realizzano, e la mancata realizzazione di alcuni di essi causa un'ulteriore, più acuta sofferenza. Ma, anche quando un desiderio viene soddisfatto, il piacere che ne deriva risulta essere solo di natura negativa, soltanto, cioè, un alleviamento temporaneo della sofferenza provocata da quel prepotente bisogno iniziale. E quando pure l'uomo non viva nel bisogno fisico e nella miseria, quando nessun desiderio gli riempia i giorni e le ore, subito la noia, la più orrenda e più angosciosa di tutte le sofferenze, si abbatte su di lui. La vita umana è quindi un alternarsi di dolore e di noia, passando per la momentanea sensazione meramente negativa del piacere.

La volontà di vivere causa anche la lotta per la sopravvivenza tra gli esseri viventi in cui solo il più forte riesce a sopravvivere ("La vita dei più non è che una diuturna battaglia per l'esistenza").

Detto ciò, esiste per l'uomo una possibilità di sottrarsi ai meccanismi della Volontà cieca e di riconquistare il proprio diritto alla felicità? Schopenhauer individua tre vie per giungere al completo distacco dal principio di auto individuazione che tiene l'individuo ancorato alla dimensione della propria individualità e al superamento della Volontà:

  • L'arte: attraverso l'arte l'uomo non partecipa alla vita ma la osserva, poiché l'arte è contemplazione della vita stessa. Egli nell'arte trova conforto, poiché la voluntas non domina più completamente l'uomo ma si assopisce. L'arte però è una soluzione temporanea.
  • La compassione: questa è la partecipazione al dolore universale. Se riusciamo ad andare oltre alla nostra particolare vita, riusciamo a capire come in ogni vita, sia in quella del carnefice come in quella della vittima, ci sia il dolore come marchio fondamentale. L'uomo provando compassione per il dolore degli altri, non solo prende coscienza del dolore ma lo sente e lo fa suo accorgendosi veramente della voluntas che è inconscia. Il dolore unendo gli uomini li accomuna e li conforta. Ma anche questa soluzione è parzialmente momentanea.
  • L'ascesi: questa è la tappa in cui si verifica il passaggio dalla voluntas alla noluntas, l'uomo deve rinunciare a qualsiasi piacere fisico e di sussistenza vitale, e solo nel momento in cui rinunciando a tutto non desidererà più nulla, la voluntas si estinguerà e l'uomo sarà libero attraverso il nirvana, che è l'esperienza del nulla di essere tutto l'universo e non un individuo. È ovvio che sconfitta anche in un solo uomo la voluntas stessa, poiché è unica, è sconfitta in tutti gli uomini.


Friedrich Nietzsche

(La morte di Dio e la fine di tutti i valori: l'oltreuomo come prototipo di una nuova umanità)


Röcken. 15 ottobre 1844 - Weimar, 25 agosto 1900)


In una delle sue opere più importanti, Umano, troppo umano, il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche ripercorre l'origine e la storia dei valori e dei sentimento per individuarne, al di là della loro sacralità apparente, il carattere umano. Tra i valori che vengono sconsacrati dal filosofo vi sono la giustizia e i principi logici (identità, terzo escluso, non contraddizione). La prima viene fatta risalire ad un originario patto stipulato tra uomini di egual forza che non riuscivano a dominarsi l'un l'altro, i secondi, invece, vengono attribuiti al progressivo adattamento dell'uomo all'ambiente circostante per favorirne la propria sopravvivenza.

L'analisi di Nietzsche prosegue sino a porre la questione dell'esistenza di un qualsiasi fondamento della morale stessa. La fine di ogni fondamento è espresso da Nietzsche con il concetto della morte di Dio nella Gaia scienza.


"Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: "Cerco Dio! Cerco Dio!". E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. "È forse perduto?" disse uno. "Si è perduto come un bambino?" fece un altro. "0ppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?" - gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: "Dove se n'è andato Dio? - gridò - ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all'ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l'intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov'è che si muove ora? Dov'è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all'indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatòri, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un'azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!". A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch'essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. "Vengo troppo presto - proseguì - non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest'azione è ancora sempre più lontana da loro delle piú lontane costellazioni: eppure son loro che l'hanno compiuta!". Si racconta ancora che l'uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: "Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?"."


(Friedrich Nietzsche; La gaia scienza)


La morte di Dio equivale alla fine di tutti i valori esistenti e al venir meno di ogni punto di riferimento per poterne stabilire di nuovi. Al tempo stesso, però, tale evento esalta la responsabilità umana, perché gli uomini devono diventare essi stessi dèi e trovare in se stessi il senso della vita che nessun punto di riferimento esterno può più dare loro. Per questo motivo, l'annuncio della morte di Dio non provoca sgomento ma sollievo, in quanto rappresenta il riaprirsi delle possibilità, l'emancipazione dell'uomo che, senza più una guida, non ha altra possibilità che fondare un nuovo senso morale su se stesso.

La riflessione continua nell'opera successiva, L'annuncio di Zarathustra. Il protagonista dell'opera, il filosofo persiano Zarathustra, annuncia pubblicamente nella piazza del mercato l'imminente arrivo dell'oltreuomo. Il salto evolutivo che deve portare l'uomo "comune" alla tappa successiva dell'oltreuomo richiede un salto evolutivo paragonabile al passaggio dalla scimmia all'uomo.

Il discorso di Zarathustra, tuttavia, è interrotto dalla folla, la quale vuole assistere all'esibizione del funambolo. Zarathustra si zittisce, mtnre il funambolo inizia la sua esibizione. Lentamente, egli inizia a camminare sul filo quando, ad un certo punto, compare un pagliaccio multicolore che lo sorpassa, facendolo precipitare al suolo. Zarathustra raccoglie i resti del funambolo e li nasconde nel cavo di un albero. A questo punto, egli decide di non parlare più alla folla, ma solo a singoli individui, capaci di comprendere il suo messaggio.

Il pagliaccio multicolore rappresenta presumibilmente le forze istintive e vitali (in poche parole, il dionisiaco) che possono travolgere l'individuo quando tenta di attraversare l'abisso che intercorre tra lui e l'oltreuomo. Egli, infatti, deve tramontare, rinunciare completamente a quello che è. Ma questo passaggio non può essere compiuto da tutti, e per questo motivo Zarathustra rinuncia a rivolgere il proprio messaggio alla folla. L'uomo al quale egli si rivolge è colui che sa creare da sé i propri valori, che deve trovare il coraggio di distruggere il mondo ultraterreno al quale sottostava sino a quel momento.

Tale mutamento viene espresso dall'autore mediante tre figure: il cammello, il leone e il fanciullo.

- Cammello: è l'uomo della morale, che sopporta il peso del dovere;

- Leone: è la forza distruttiva che combatte il drago, simbolo del dovere e di ogni morale che viene imposta all'individuo;

- Fanciullo: è il creatore che, liberato da ogni morale precostituita, può inventare da sé il mondo.

Il passaggio all'oltreuomo è una vera e propria rinascita che implica una completa rottura con il proprio passato, la propria storia, la propria tradizione, cioè di tutta la morale millenaria che costituisce il vecchio uomo.. Questo processo non è indolore. L'uomo, infatti, deve cambiare il proprio atteggiamento nei confronti della vita. A tale proposito, Nietzsche introduce il concetto dell' "eterno ritorno". Secondo tale teoria (tempo circolare), poiché ogni attimo si ripresenterà all'infinito, l'uomo deve considerare ogni attimo come provvisto di valore e di senso in sé.

Di fronte al crollo di tutti i valori, l'uomo può:

giungere all'odio per la vita (nichilismo passivo);

essere lui stesso fondamento di ogni valore ed essere lui colui che dà senso ad un mondo che altrimenti ne sarebbe privo (nichilismo attivo).

Il primo passo, dunque, è il riappropriarsi di quegli istinti vitali (dionisiaco) che la morale, a partire da Socrate, ha costantemente represso. Tale recupero degli istinti vitali, dei "valori della terra", viene identificato da Nietzsche con la "volontà di potenza", che ha come scopo l'accrescimento della potenza dell'individuo.



Sigmund Freud

(L'interpretazione dei sogni e la struttura della psiche)


(Freiberg, 6 maggio 1856 - Londra, 23 settembre 1939)


L'interesse per il mondo onirico ha sempre costituito un punto chiave per la psicoanalisi freudiana. Infatti, l'opera L'interpretazione dei sogni, a detta dello stesso Freud, segna la nascita della psicoanalisi. In essa, Freud analizza il rapporto che intercorre tra il sogno e la veglia, gli stimoli da cui trae origine il sogno, le cause dell'oblio dopo il risveglio ecc. Analizzando un qualunque sogno, Freud giunge alla conclusione che ciascun sogno presenta due contenuti:

contenuto manifesto è quella parte del sogno che viene raccontata al risveglio da parte del sognatore; in sostanza, la storia e gli elementi del sogno per come vengono espressamente ricordati dal sognatore. Gli elementi che compongono tale 'storia' sono simbolici, e devono essere interpretati analiticamente per poter arrivare al significato 'profondo' del sogno stesso;

contenuto latente: Si definiscono contenuto latente di un sogno quei contenuti mascherati dagli elementi simbolici che vengono indicati col termine 'contenuto manifesto'. Attraverso l'interpretazione analitica dei simboli contenuti nel sogno si riesce ad arrivare alla ricostruzione dei contenuti inconsci che, altrimenti, non potrebbero apparire alla coscienza.

Il sogno è un linguaggio simbolico attraverso il quale vengono espressi contenuti inconsci e, al di là dell'apparente incoerenza, utilizza un linguaggio specifico che mostra la logicità delle dinamiche della psiche.

Tra le caratteristiche del linguaggio onirico, rientrano i processi di "condensazione" e di "spostamento". Il primo indica la fusione di più elementi in un'unica immagine, il secondo, invece, avviene quando elementi secondari del sogno vengono investiti di un alto significato emozionale: è il caso di paure ingiustificate o di sentimenti di piacere provocati da oggetti innocui. Questa circostanza permette a Freud di dedurre che il contenuto del sogno viene prima filtrato da una sorta di censura onirica, per cui desideri, emozioni e fobie possono entrare nella rappresentazione solo sotto forme giudicate non pericolose.

Mediante l'analisi dell'attività onirica, Freud giunge a proporre un primo modello (prima topica) del sistema psichico, suddiviso in:

Inconscio: è la parte sommersa della psiche: i suoi scopi sono autonomi e nascosti alla coscienza superficiale. L'inconscio contiene il 'ribollire' dei pensieri nascosti al sentire immediato, l''uomo non sente il contenuto dell'inconscio, l'inconscio ha una sua vita autonoma, le forze psichiche in esso contenute lottano e 'agiscono' all'oscuro del pensato cosciente;

Preconscio è composto da i ricordi non completamente consci ma facilmente richiamabili alla coscienza superficiale, come, ad esempio, desideri e sentimenti dominanti che sottendono particolari circostanze o fasi della vita. Già dal nome si può notare come il preconscio è posto da Freud come termine medio tra l'assolutamente non percepito rappresentato dall' 'inconscio' e il percepito chiaramente rappresentato dal 'conscio';

Conscio è la parte superficiale della psiche, la coscienza 'chiara e distinta' del contenuto della mente, l'ordinaria percezione dei pensieri, con il loro flusso di idee immediatamente presenti alla coscienza.

Successivamente, nella Metapsicologia, egli approfondisce la propria analisi, proponendo un ulteriore suddivisione dell'inconscio (seconda topica) in :

Es: è il serbatoio dell'energia vitale, l'insieme caotico e turbolento delle pulsioni, quell'entità che si fa interprete della volontà di ottenere il piacere ad ogni costo. L'Es è quindi governato dal principio di piacere;

Super-Io è la censura morale, l'insieme dei divieti sociali sentiti dalla psiche come costrizione e impedimento alla soddisfazione del piacere. Il super-io rappresenta quindi la censura morale della coscienza;

Io è la coscienza mediatrice prodotta dai due movimenti contrastanti dell'Es e del Super-io. L'Io è governato dal principio di realtà, il suo compito è quello di mediare le istanze vitali dell'Es, tese al soddisfacimento irrazionale e assoluto, e le istanze del Super-Io, indirizzate verso la censura delle istanze dell'Es.



Il merito maggiore di Freud è stato quello di aver scoperto l'esistenza nell'uomo di forze che vanno al di là del suo controllo, facendo un ulteriore passo nella conoscenza del "mistero uomo".

Letteratura latina


Seneca

(Alla conquista della libertas interiore)


(Cordoba, 21 maggio 4 a.C. - Roma, 65)


Tra i più grandi pensatori dell'antichità, un posto di riguardo spetta a Seneca.

Egli fu animato da un atteggiamento non dogmatico verso le principali scuole di pensiero greco-ellenistico. Aderì principalmente allo stoicismo, ma nella sua filosofia sono riconoscibili anche elementi platonici, neopitagorici e cinici. Il nucleo di pensiero prevalente fu comunque quello stoico: il suo interesse per la natura, il concetto di divinità, l'insistita riflessione morale, lasciano arguire che Seneca non fu solo seguace dello stoicismo, ma ne sviluppò anche con originalità alcune posizioni. Nonostante il saldo ancoraggio alla tradizione filosofica a lui precedente, si può notare in tutta l'opera di Seneca una continua polemica contro la filosofia insegnata nelle scuole, sinonimo spesso di un'erudizione fine a se stessa, contraria al principio che la sapienza non è in verbis, bensì in rebus (Epistulae ad Lucilium 16,3).

La fondamentale trattazione della tematica del tempo era già stata sviluppata da Seneca nell'opera De brevitate vitae. Oltre ad affermare che la vita non è breve, ma siamo noi a renderla tale, sprecando gran parte del tempo che il destino ci ha concesso, Seneca espone il proprio concetto di tempo, integrando la prospettiva degli stoici con quella degli epicurei: il saggio non deve affidare nulla della propria vita al futuro, perché la vita può cessare da un momento all'altro; egli deve invece interessarsi solo al presente, vivendo ogni singolo giorno come se fosse l'ultimo.

Seneca ha un senso molto moderno della fugacità del tempo e sa che l'unico modo di arginarla è quello di preporre alla quantità del tempo (vivere a lungo non dipende da noi), la qualità (far buon uso del proprio tempo dipende da noi). Se per gli epicurei si trattava di non pensare alla morte che verrà, per Seneca si tratta di pensare continuamente alla morte: solo chi si prepara per tempo può congedarsi dalla vita senza rimpianti.


"Libet itaque ex seniorum turba comprendere aliquem: <>. [.] Audies plerosque dicentes: <>. Et quem tandem longioris vitae praedem accipis? [.] Non pudet te reliquias vitae tibi reservare et id solum tempus bonae menti destinare quod in nullam rem conferri possit? Quam serum est tunc vivere incipere cum desinendum est!"


"Mi piacerebbe, perciò, prendere uno qualsiasi dalla moltitudine dei vecchi: <>. [.] Udrai moltissimi dire: <>. E che garanzia hai, di grazia, di una vita più lunga? [.] Non ti vergogni di riservare per te stesso gli avanzi della vita, e di destinare a perfezionarti moralmente solo quel tempo che non può essere impiegato per nessuna faccenda? Com'è tardi cominciare a vivere allorché si deve finire!"


(Seneca; De brevitate vitae, cap. 3)


In contrapposizione ai filosofi, che riescono ad impiegare in maniera qualitativamente ottima il tempo a loro disposizione, ci sono gli occupati, che sprecano il loro tempo in vane occupazioni

Le vie del saggi devono condurre tutte verso un'unica meta: il conseguimento della libertas interiore, attraverso un processo comprendente fondamentalmente tre tappe: il trionfo sulle passioni, la consapevolezza di sé come facenti parte di uno stesso lògos, l'accettazione di tale destino.

Tale tesi quindi concede al corpo quanto basta per la sua sopravvivenza e quanto sufficiente per mantenerlo in salute rifuggendo in tal modo alle facili lusinghe di una vita comoda e dedita ai piaceri. Chi si abbandona totalmente al corpo ed ai sensi, dimentica facilmente di avere un'anima, la quale ci fa essere diversi da un animale o da una pianta, ed è l'unica che determini reali differenze di valore tra uomo e uomo. Riferendosi al corpo infatti, non si nota alcuna differenza tra ricco e povero, sono infatti entrambi mortali ed entrambi sono uguali davanti alla morte.

La stessa uguaglianza davanti alla morte si ha anche per il libero e lo schiavo Infatti, il libero e lo schiavo godono dello stesso cielo, vivono, respirano e muoiono allo stesso modo. La vera, colpevole schiavitù non è quella esteriore, dovuta alla sorte, ma quella interiore dovuta solo a noi stessi. L'anima dell'uomo ha la possibilità di riscattarsi dalla schiavitù del corpo, cioè dei sensi, delle passioni, delle avidità e delle ambizioni terrene, raggiungendo "l'autosufficienza" (autarkéia), possibile solo attraverso la ragione cioè la filosofia. Solo la filosofia può rendere l'uomo simile ad un dio facendolo arbitro tra il bene ed il male e costruendo attorno a lui un muro inespugnabile che si ottiene solo vincendo la paura della malattia e della morte e dedicandosi alla pratica della virtù. La pratica della virtù distacca l'uomo da gioie e dolori caduchi elevandolo alla contemplazione del divino.


"Ego vero omnia in te cupio transfundere, et in hoc aliquid gaudeo discere, ut doceam; nec me ulla res delectabit, licet sit eximia et salutaris, quam mihi uni sciturus sum. Si cum hac exceptione detur sapientia, ut illam inclusam teneam nec enuntiem, reiciam: nullius boni sine socio iucunda possessio est. [.] Apertior res est sapere, immo semplicior: paucis est ad mentem bonam uti litteris, sed nos ut cetera in supervacuum diffundimus, ita philosophiam ipsam. Quemadmodum omnium rerum, sic litterarum quoque intemperantia laboramus: non vitae, sed scholae discimus. [.] Sed aliquid praecipientium vitio peccatur, qui nos docent disputare, non vivere, aliquid discentium, qui propositum adferunt ad praeceptores suos non animum excolendi sed ingenium. Itaque philosophia fuit facta philologia est."


"Io davvero desidero trasmetterti tutta la mia sapienza e questo è lo scopo per cui sono felice di imparare qualcosa, insegnarla; e nessuna cosa mi darà gioia, sia pure pregevole e utile, se la dovrò sapere solo per me stesso. Se la sapienza mi fosse concessa a questa condizione, di tenerla chiusa dentro di me e di non trasmetterla, la rifiuterei: il possesso di nessun bene è bello se non lo puoi condividere. [.] La saggezza è cosa più accessibile, anzi più semplice: pochi sanno utilizzare gli studi per migliorarsi, noi come sprechiamo inutilmente tutto, così facciamo con la filosofia. Come in ogni altro campo, anche nello studio ci danneggia la mancanza di misura: noi impariamo non per la vita ma per la scuola. [.] Ma da una parte sbagliano i docenti, che ci insegnano a disputare, non a vivere, dall'altra i discepoli, che vanno dal maestro con l'intenzione di coltivare non la loro interiorità ma la loro intelligenza, Così quella che un tempo è stata filosofia è diventata filologia."


(Seneca; Epistulae 6, 4; 106, 12; 108, 23)

Letteratura greca


Gli epigrammisti greci:

Leonida di Taranto

(La riflessione sul tempo)


(Taranto, 320 o 330 a.C. - Alessandria d'Egitto, 260 a.C.)


Leonida è stato un poeta greco antico di scuola alessandrina.

È considerato il massimo poeta epigrammatico greco. Nacque a Taranto in epoca magno-greca e morì ad Alessandria d'Egitto in date incerte, visto che della sua vita poco si conosce, se non quello che si può desumere dai suoi epigrammi. Questi, tra i più belli della poesia greca, sono un po' più lunghi della media e possono pertanto anche essere interpretati come brevi elegie. In essi, con toni realistici, Leonida tratta in prevalenza della miseria e dei personaggi più umili delle poleis ellenistiche.

Leonida visse a Taranto fino al 272- 270 a.C., fino a quando, cioè, i romani non la espugnarono. Quando la città stava per cedere, Leonida fu tra i pochi abitanti della città a fuggire: un gesto che inizialmente egli interpretò come una benedizione avendo evitato la schiavitù, ma che presto si rivelerà un'amarissima illusione, giacché da allora, e fino alla morte, egli sarà costretto a vivere lontano dalla patria, misero ed errabondo, vivendo «una vita che vita non è» come scrisse in un celebre epigramma. Dopo tanto penare (viaggiò per la Grecia, l'Asia Minore e il sud Italia) si rifugiò ad Alessandria d'Egitto, dove morì intorno al 260 a.C.

Di temperamento anticonformista e contestatore, Leonida disprezzò la frivolezza, la menzogna, il lusso: secondo il suo pensiero la felicità è nella tranquillità, e la tranquillità la si trova solo conducendo una vita modesta e solitaria. Visse quindi in misere dimore fra i campi o lungo la riva del mare, e condusse vita povera ed errabonda.




Il tempo infinito (A.P. VII. 472)


                  

Polibio

(Il "ciclo biologico" delle costituzioni e il ruolo della θύχη)


(Megalopoli, circa 206 a.C. - Grecia, 124 a.C.)



Dimostrandosi figlio dei suoi tempi e del suo mondo, Polibio nel ricercare le ragioni della prepotente affermazione di Roma individua fattori di natura costituzionale, prima ancora che politici o economici. Muovendo dalle premesse elaborate nell'ambito della riflessione platonica e aristotelica, Polibio riprende la distinzione, ormai canonica, delle forme di governo ('πολιτέιαι') esistenti in natura: monarchia, aristocrazia, democrazia, ciascuna associata alla propria forma degenerata, ovvero tirannide, oligarchia, oclocrazia (il 'governo della massa').

Tali forme si succedono naturalmente all'interno di una sorta di ciclo 'biologico' ('ανακύκλοσις'), per cui la  monarchia, prima forma di governo, degenera in tirannide per essere soppiantata dall'aristocrazia, che a sua volta si trasforma in oligarchia e lascia il posto alla democrazia; questa, degenerata a sua volta in 'governo della massa', l'oclocrazia appunto, crea le condizioni per il ripristino dell'autorità monarchica, sicché il ciclo si riavvia dal principio. Essendo del tutto naturale questo avvicendamento, così come è naturale che alla giovinezza faccia seguito l'età matura e poi la vecchiaia, non esiste di fatto forma di governo, per quanto perfetta, capace di sopravvivere indefinitamente nel tempo.

Si danno per la verità, storicamente, alcuni casi nei quali una città si è data una costituzione 'mista' ('μικτή πολιτέια'), nella quale appaiono cioè armonizzate le tre forme positive di governo, la monarchia, l'aristocrazia e la democrazia; Polibio cita la costituzione di Roma, evolutasi nel corso dei secoli, nella quale l'autorità monarchica è incarnata dai consoli, quella aristocratica è espressa nel senato, e quella democratica infine si realizza nei 'comitia'.

La costituzione mista gode di maggiore stabilità rispetto alle singole forme pure, e tuttavia anch'essa è naturalmente al declino e alla morte: Roma va costruendo il più grande e solido impero della storia umana, ma anche Roma conoscerà un giorno la decadenza e la fine.

A differenza di quanti, anche fra i Romani, avevano concepito la storia dell'umanità come inserita all'interno di un preciso disegno divino, finalisticamente orientato, Polibio tende a ridurre all'immanenza dei 'πραγμάτα' politico-militari le sorti degli stati come degli individui; semmai la religione appare nella sua opera come formidabile 'instrumentum regni'.

Pure nella sua visione sostanzialmente razionalista del mondo e della storia, l'irrazionale fa capolino attraverso il ruolo della 'Θύκη', il Fato, il cui influsso sulle vicende umane neppure Polibio può negare. E che non si tratti solo di una concessione alla mentalità del tempo lo testimoniano i passi in cui lo storiografo riflette con assoluta serietà sul rapporto tra sorte e virtù, costituendo anche per questo aspetto un antecedente del pensiero rinascimentale: in particolare Machiavelli, per tanti versi erede dell'elaborazione polibiana, specialmente nei suoi 'Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio', a quasi diciassette secoli di distanza, riproporrà il problema in modo sostanzialmente analogo, vedendo nella 'fortuna' quella variabile incognita che l'uomo deve sempre tenere in considerazione nel suo progettare, e contro la quale la virtù deve armarsi a porre riparo, in una visione antropocentrica in cui il senso del limite intrinseco alla condizione dell'uomo non giunge mai a paralizzarne l'iniziativa.


"Scipione, vedendo ridotta ormai all'estrema rovina la città di Cartagine, pianse apertamente, si dice, per i nemici. A lungo egli rimase meditabondo, considerando come la sorte di città, popoli, domini, vari come il destino degli uomini: ciò era accaduto ad Ilio, città una volta potente, era accaduto ai regni degli assiri, dei Medi, dei Persiani, che erano stati grandissimi ai loro tempi, e recentemente al regno macedone. Infine sia volontariamente, sia che tali parole gli siano sfuggite, esclamò: <>.

Polibio che gli era stato maestro e gli poteva parlare liberamente, gli chiese che cosa egli volesse significare con queste parole e allora scipione senza reticenza nominò la patria, per la quale temeva considerando la sorte degli uomini. Ciò riferisce Polibio, avendolo udito con le sue orecchie,"


(Polibio; Storie, XXXIX, 6)

Storia


L' <>

(La Prima Guerra Mondiale: gli anni che cambiarono il mondo)


La Prima Guerra Mondiale: αιτία, πρόφασις, αρχή


Tra le varie cause che hanno dato origine al primo conflitto mondiale, si possono annoverare senz'altro le innumerevoli tensioni instauratesi tra le varie potenze europee:


- tensione tra Russia e Autria-Ungheria e Inghilterra in seguito alla firma della pace di S. Stefano tra Russia e Turchia, si era formato un vasto Stato di Bulgaria, comprendente gran parte dei territori sotto il controllo ottomano e politicamente subalterno alla Russia. Ciò causò l'intervento dell'Austria-Ungheria e dell'Inghilterra, che, col Congresso di Berlino, imposero alla Russia di rinunciare alla Bulgaria;

- tensione tra Italia e Francia in seguito all'occupazione francese della Tunisia, l'Italia ne temeva un'ulteriore espansione nel Mediterraneo;

- tensione tra Germania e Francia in seguito alla conquista tedesca (1871) della regione dell'Alsazia-Lorena;

- tensione tra Austria-Ungheria e Serbia in seguito all'impedimento da parte di Austria-Ungheria e Italia di avere uno sbocco nel Mediterraneo (1912).


A queste cause, si possono aggiungere anche le numerose correnti irrazionalistiche e i vari nazionalismi che iniziavano a dilagare in quel periodo.

Dopo la conquista francese della Tunisia (1881), l'Italia tentò di far sentire la propria voce in capitolo, ma non venne ascoltata. Pertanto, prese la decisione di entrar a far parte, nel 1882, della cosiddetta Triplice Alleanza, che comprendeva l'Austria-Ungheria, la Germania e l'Italia. L'accordo aveva un carattere puramente difensivo. La Francia, dal canto suo, stipulò un'alleanza con la Russia (1892).

Dunque, la Germania aveva dinanzi a sé la prospettiva di una guerra su due fronti: quello francese e quello russo. La soluzione al problema venne trovata nel 1905 con l'ideazione del cosiddetto piano Schlieffen, che prevedeva dapprima l'attacco in direzione della Francia (grazie all'attraversamento del Belgio) e successivamente della Russia. L'attraversamento del Belgio, tuttavia, avrebbe causato l'immediata reazione negativa da parte della Gran Bretagna.

L'inarrestabile corsa agli armamenti navali che si andava progressivamente instaurando tra Inghilterra e Germania, portò la prima a stringere delle alleanze con i nemici della seconda, la Francia e la Russia.

Nel frattempo, nel 1902, Italia e Francia riuscirono a trovare un accordo: in caso di invasione francese del Marocco, l'Italia avrebbe avuto via libera per la conquista della Libia.

Nel 1911, la Francia decise di occupare il Marocco. L'Italia ne approfittò per imporre il proprio dominio sulla Libia, scatenando così un conflitto italo-turco. La Serbia ne approfittò per attaccare l'Impero ottomano, obbligandolo a cedere parte della Macedonia. Tuttavia, Austria-Ungheria e Italia intervennero, negandole l'accesso al mare. Ciò causò un inasprimento dei rapporti tra l'Impero austro-ungarico e la Serbia, che culminò nell'attentato del 28 giugno 1914 a Sarajevo all'arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo.

Il governo austro-ungarico fece ricadere la responsabilità dell'attentato sullo stato serbo, al quale inviò un ultimatum, che prevedeva l'intromissione della polizia austriaca nelle indagini. Tale punto non venne accettato ed il 28 luglio 1914 venne dichiarata la guerra.


Il conflitto dal punto di vista europeo


La Germania, in occasione dell'annuncio dello scoppio della guerra, decise di invadere il Belgio, provocando l'immediata reazione dell'Inghilterra, che dichiarò guerra alla Germania. Inoltre, dopo un ultimatum da parte della Germania all'Impero zarista, si ebbe la dichiarazione di guerra della potenza tedesca alla potenza zarista e, di conseguenza (in quanto facente parte anch'essa della Triplice Intesa), anche alla Francia.

L'attacco decisivo contro Parigi non riuscì a concretizzarsi, sebbene le armate tedesche fossero arrivate a 40 km dalla capitale. Il 5 settembre, vicino al fiume Marna, gli esercito francese e inglese passarono all'attacco, annullando qualsiasi speranza di una rapida vittoria tedesca sul fronte occidentale.

Da quella che sarebbe dovuta essere una guerra lampo, si passò ad una vera e propria guerra di logoramento.

Le due battaglie più importanti del conflitto furono quella di Verdun e quella nei pressi del fiume Somme.

A Verdun, l'esercito francese riuscì a resistere al bombardamento da parte dei tedeschi; in quella nei pressi del fiume Somme, i tedeschi riuscirono a contenere l'offensiva inglese.

A partire dal 1914, la marina britannica istituì un rigido blocco navale, finalizzato all'indebolimento del commercio tedesco. Questo provocò una maggiore difficoltà in Germania nel reperimento dei generi alimentari di prima necessità. Nel giugno 1916, la Germania intraprese una guerra sottomarina contro l'Inghilterra, che, tuttavia, non sortì alcun effetto positivo, grazie anche all'adozione, da parte dell'Inghilterra, del "sistema dei convogli".

Sul fronte orientale, a causa della debolezza dell'esercito russo, l'avanzata tedesca fu inarrestabile. L'esercito russo si sgretolò, provocando la caduta dello zar e poi (7 novembre) la rivoluzione dei comunisti, guidati da Lenin. Il nuovo governo comunista, il 3 marzo 1918, firmò con la Germania la pace di Brest-Litovsk.

L'uscita di scena della Russia, significò per la Germania la fine della guerra su due fronti. Tuttavia, tale successo venne vanificato dall'entrata in scena degli Stati Uniti, guidati dal presidente Woodrow Wilson contro la Germania il 6 aprile 1917.

Contro il protrarsi della sanguinosa lotta, si alzò contro la guerra anche la voce del pontefice Benedetto XV, con un appello ai paesi belligeranti del 1° agosto 1917. Tale appello, tuttavia, rimarrà inascoltato.


"In sì angoscioso stato di cose, dinanzi a così grave minaccia, Noi, non per mire politiche particolari, né per suggerimento od interesse di alcuna delle parti belligeranti, ma mossi unicamente dalla coscienza del supremo dovere di Padre comune dei fedeli, dal sospiro dei figli che invocano l'opera Nostra e la Nostra parola pacificatrice, dalla voce stessa dell'umanità e della ragione, alziamo nuovamente il grido di pace, e rinnoviamo un caldo appello a chi tiene in mano le sorti delle Nazioni. Ma per non contenerci più sulle generali, come le circostanze Ci suggerirono in passato, vogliamo ora discendere a proposte più concrete e pratiche. Siamo animati dalla cara e soave speranza di vederle accettate, e di giungere quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale ogni giorno di più apparisce inutile strage."


(Benedetto XV; Nota ai capi dei paesi belligeranti)


Il 21 marzo 1918, l'esercito tedesco iniziò una grande offensiva che avrebbe dovuto sfondare il fronte occidentale, ma che in realtà si concluse con un insuccesso. Il 3 novembre si arrese l'Impero austro-ungarico, mentre l'11 novembre 1918, la delegazione tedesca firmò l'armistizio con le potenze alleate.


Il conflitto dal punto di vista italiano


Allo scoppio del conflitto, il governo italiano, capeggiato da Antonio Salandra, decise di non entrare immediatamente in guerra. Si crearono così, nell'opinione pubblica italiana, due correnti di pensiero opposte.

Da una parte vi furono gli interventisti, che erano favorevoli all'entrata dell'Italia nel conflitto. Facevano parte del movimento interventista: gli irredentisti democratici, i repubblicani, gli ex-garibaldini, i liberal-conservatori, i nazionalisti e i sindacalisti rivoluzionari (tra questi ultimi si distinse ben presto Benito Mussolini).

Dall'altra vi furono i neutralisti, favorevoli, invece, all'astensione dal conflitto. Ne facevano parte: Il PSI, i cattolici, Giolitti e i giolittiani.

Gli interventisti intensificarono a tal punto la loro azione di propaganda in favore della guerra, che il 26 aprile 1915 il governo italiano sottoscrisse il segreto Patto di Londra, impegnandosi ad entrare in guerra contro Austria-Ungheria e Germania entro un mese dalla sottoscrizione del patto stesso.

A favore della ratificazione del patto da parte del Parlamento, durante il maggio del 1915, nelle principali città italiane, si ebbe una serie di scontri violenti tra neutralisti ed interventisti. Alla fine il patto venne ratificato il 20 maggio, con la conseguente entrata in guerra dell'Italia il 24 maggio 1915.

Le operazioni militari italiane si svolsero maggiormente nel Trentino e nel Carso. Nel maggio 1916 avvenne la cosiddetta "Strafexpedition" (spedizione punitiva) dell'Austria nei confronti dell'Italia, a causa dell'abbandono italiano della Triplice Alleanza. L?esercito austro-ungarico attaccò in forze il Trentino e riuscì ad avanzare per una ventina di chilometri, ma venne infine fermato.

Il collasso dell'esercito russo nel 1917 permise la concentrazione di tutte le armate austro-ungariche sul fronte italiano; i tedeschi assunsero il diretto comando delle operazioni. Il piano tedesco prevedeva una massiccia offensiva sul fronte dell'Isonzo. Il generale Cadorna, nei giorni immediatamente precedenti all'attacco, fu avvertito da alcuni disertori tedeschi, ma non prestò fede a quelle notizie. L'esercito italiano, perciò, il 24 ottobre 1917, fu colto completamente alla sprovvista dall'attacco nemico. Tale tragica disfatta venne definita "disfatta di Caporetto". L'avanzata tedesca, tuttavia, venne arrestata nei pressi del fiume Piave.

Non appena vennero alla luce le responsabilità della disfatta di Caporetto, Cadorna diede le dimissioni e l'incarico dell'esercito venne assegnato al generale Armando Diaz. La direzione politica, invece, venne assunta da Vittorio Emanuele Orlando, che si preoccupò di individuare le principali necessità economiche del paese, ormai insofferente della guerra.

Nell'autunno del 1918, la situazione della Germania e dell'Austria-Ungheria era ormai disperata. Consapevole di ciò, il generale Diaz ordinò l'attacco il 26 ottobre. Le truppe austro-ungariche non riuscirono a resistere e si disgregarono. Il 3 novembre l'Austria-Ungheria firmò la resa che prevedeva, per il giorno seguente (4 novembre 1918), la cessazione del conflitto.

La Prima Guerra Mondiale terminava, lasciandosi alle spalle un considerevole numero di vittime: circa 5.165.000 militari e 3.155.000 civili, 13.990.000 feriti.




Letteratura inglese


Robert Louis Stevenson

The Strange Case of Dr. Jekyll & Mr. Hyde: a deep insight into human nature )


(13 November 1850 - 3 December 1894)


The novel had its origin in a dream in which Stevenson had seen a man who had turned into a different being after swallowing a drug. It was the Gothic aspect of the story that attracted him, because he's always been interested in the duality of man's nature, the good and the evil sides.

The story is narrated from the point of view of Mr. Utterson, a London lawyer and friend to Dr. Henry Jekyll. He begins to investigate further into Jekyll's life, discovering a shocking truth: Jekyll has invented a potion able to release his evil side, Mr. Hyde. These two beings are in struggle. Going on, Hyde manages to overthrow Jekyll, so at the end the only solution is suicide.

The novel is set in a place between England and Scotland, London and Edinburgh. Both capitals had a "double" nature and reflected the hypocrisy of Victorian society. This ambivalence is reinforced by the symbolism of Jekyll's house whose two façades are symbolically the two faces of the same man.

Most scenes of the novel take place at night. There's no natural daylight.

The novel is the portrayal of "good" and "evil" and its characters are the stereotypes of people who are "good" and "evil". As Jekyll has lived a virtuous life, his body is harmoniously proportioned; Hyde's, instead, ad he's pure hate and evil, is deformed with "Satan's signature" in his traits.

Gradually, Hyde spoils his good twin, overthrowing him.

The novel has a multi-narrative structure, with a complex series of points of view. There are four narrators: Enfield (relative of Utterson), Utterson (friend of Jekyll, that has the role of the detective), Dr. Lanyon (friend of Jekyll) and, in the end, Jekyll himself, who confesses his crimes.


"I thus drew steadily nearer to that truth by whose partial discovery I have been doomed to such a dreadful shipwreck: that man is not truly one, but truly two. I say two, because the state of my own knowledge does not pass beyond that point. Others will follow: others will outstrip me on the same lines; and I hazard the guess that man will be ultimately known for a mere polity of multifarious, incongruous and independent denizens."


"Mi andai sempre più avvicinando a quella verità la cui parziale scoperta mi ha condannato a questa rovina totale, e cioè che l'uomo non è unico, ma duplice. Dico duplice perché il livello delle mie conoscenze non va al di là di ciò. Altri seguiranno, altri mi supereranno sulla stessa via; io mi limito a pronosticare che un giorno l'uomo sarà conosciuto come un insieme di multiformi, incongrue e indipendenti componenti."


(Robert Louis Stevenson; The strange case of Dr Jekyll & Mr. Hyde)

Geografia astronomica


I terremoti

(Le origini di un fenomeno che porta con sé morte e distruzione )


(6 aprile 2009 - Il terremoto in Abruzzo sconvolge le vite di migliaia di persone)


I terremoti sono manifestazioni superficiali dell'azione di forze tettoniche che si sviluppano all'interno della crosta terrestre. Essi consistono in dei forti scuotimenti del suolo che possono provocare gravi danni a persone e infrastrutture. Secondo la cosiddetta "teoria del rimbalzo elastico", le rocce che compongono la crosta presentano un comportamento elastico e, se sottoposte a sforzi, accumulano energia fino a giungere al punto di rottura. A questo punto l'energia viene liberata istantaneamente con formazione di un piano di faglia. Una volta formata la faglia, il meccanismo si può innescare anche in tempi successivi; in questo caso, tuttavia, affinché ci possa essere un'ulteriore spostamento, gli sforzi interni della crosta devono vincere l'attrito tra le due parti rocciose a contatto sul piano di faglia.

La tensione si accumula per lunghi periodi di tempo fino a quando non viene vinta la forza di attrito che ostacola il movimento. In pochi secondi l'energia viene liberata sottoforma di calore e di onde elastiche (onde sismiche).

Il punto in profondità dove si verifica la rottura si chiama ipocentro. La proiezione in superficie di tale punto si chiama epicentro.

Dall'ipocentro di un terremoto si propagano due tipi di onde sismiche:

onde P: provocano oscillazioni delle particelle che formano i diversi materiali dell'interno della Terra nella stessa direzione di propagazione dell'onda. La velocità di tali onde dipende dal materiale attraversato;

onde S: provocano oscillazioni delle particelle perpendicolari rispetto alla direzione di propagazione dell'onda.

Quando i fronti d'onda delle onde P e S raggiungono la superficie, a partire dall'epicentro si propagano onde superficiali dette anche onde L.

Si distinguono due tipi di onde L:

onde di Rayleigh:generano movimenti ellittici delle particelle del materiale attraversato dall'onda;

onde di Love: generano movimenti trasversali e perpendicolari alla direzione di propagazione dell'onda.

L'intensità dei terremoti è valutata secondo due scale:

la scala Richter :fornisce una valutazione obiettiva (magnitudo) della quantità di energia liberata. La magnitudo è una grandezza il cui valore è direttamente proporzionale all'energia liberata: si misura calcolando l'ampiezza massima delle onde sismiche registrate in un qualsiasi fenomeno tellurico e confrontando tale risultato con un'ampiezza standard;

la scala MCS (Mercalli, Cancani, Sieberg):assegna un grado (in totale vi sono 12 gradi) agli effetti del terremoto sull'ambiente. Si tratta di una scala puramente descrittiva, priva di valore scientifico.

Su cartina geografica è possibile racchiudere con delle linee chiuse (isosisme) le zone che presentano un medesimo grado di intensità.



Fisica


La termodinamica

(I primi due principi e il rendimento )




Introduzione alla termodinamica: nozioni base


Un 'sistema termodinamico' è un qualunque porzione dell'universo a cui ci si sta interessando come oggetto d'indagine (la rimanente parte dell'universo si definisce invece ambiente). Questa porzione di spazio è separata dal resto dell'universo, cioè dall'ambiente esterno, mediante una superficie di controllo (superficie reale o immaginaria, rigida o deformabile), ed è sede di trasformazioni interne e scambi di materia o energia con l'ambiente esterno. Questi stessi scambi causano perciò la trasformazione del sistema, poiché esso passa da una condizione di partenza ad una differente. In pratica un sistema si trasforma quando passa da uno stato d'equilibrio iniziale ad uno finale. L'ambiente rimane invece generalmente 'inalterato', poiché il sistema rispetto ad esso è talmente piccolo che uno scambio di energia o materia risulterebbe ininfluente per l'ambiente rispetto alla totalità degli stessi al suo interno, altrimenti non si parlerebbe di ambiente ma di un altro sistema (al quale l'ambiente per definizione non corrisponde).

Gli scambi di materia o energia possono avvenire sotto forma di calore o lavoro. Questi due concetti non sono delle proprietà intrinseche del sistema, ma sussistono nel momento in cui esso interagisce con l'ambiente, cioè scambia energia con l'esterno. Quindi un sistema non possiede calore o lavoro, bensì energia; ogni variazione di energia è poi esprimibile in termini di calore, se il passaggio di energia è dovuto ad una differenza di temperatura tra ambiente e sistema, e lavoro (per qualunque variazione energetica che non sia dovuta alla differenza di temperatura, come ad esempio una forza meccanica che provochi uno spostamento, un trasferimento di energia elettrica o elastica).

Si possono distinguere vari tipi di sistemi, in dipendenza dal modo di scambiare energia con l'esterno:

  • sistemi aperti: scambiano calore, materia, lavoro con l'ambiente.
  • sistemi chiusi: scambiano energia (calore, lavoro), ma non materia con l'ambiente.
  • sistemi isolati: non scambiano né energia né materia con l'ambiente; l'universo è quindi per definizione un sistema isolato, non essendoci un 'ambiente esterno' di riferimento con cui scambiare materia o energia.

Tipi di trasformazioni termodinamiche


Quando un sistema passa da uno stadio di equilibrio ad un altro, si dice che avviene una trasformazione termodinamica: si distingue tra trasformazioni reversibili, ovvero quelle trasformazioni che consentono di essere ripercorse in senso inverso (si ritorna precisamente al punto di partenza, ripercorrendo all'indietro gli stessi passi dell'andata), e trasformazioni irreversibili, ovvero quelle trasformazioni che, se ripercorse all'indietro, non faranno ritornare al punto iniziale, ma ad uno diverso.

Le trasformazioni termodinamiche possono essere anche dei seguenti tipi:

  • Isobare: se la pressione si mantiene costante;
  • Isocore, se il volume si mantiene costante (e il lavoro scambiato tra sistema ed esterno è dunque nullo);
  • Isoterme, se la temperatura si mantiene costante;
  • Adiabatiche, se il calore totale scambiato è nullo;

Il primo principio della termodinamica


Quando un corpo viene posto a contatto con un altro corpo relativamente più freddo, avviene una trasformazione che porta a uno stato di equilibrio, in cui sono uguali le temperature dei due corpi. Per spiegare questo fenomeno, gli scienziati del XVIII secolo supposero che una sostanza, presente in maggior quantità nel corpo più caldo, passasse nel corpo più freddo. Questa sostanza ipotetica, detta calorico, era pensata come un fluido capace di muoversi attraverso la materia. Il primo principio della termodinamica invece identifica il calore come una forma di energia che può essere convertita in lavoro meccanico ed essere immagazzinata, ma che non è una sostanza materiale.

È stato dimostrato sperimentalmente che il calore, misurato originariamente in calorie, e il lavoro o l'energia, misurati in joule, sono assolutamente equivalenti. Ogni caloria equivale a 4,186 joule.


Il primo principio è dunque un principio di conservazione dell'energia. In ogni macchina termica una certa quantità di energia viene trasformata in lavoro: non può esistere nessuna macchina che produca lavoro senza consumare energia.




Il secondo principio della termodinamica


Esistono molte formulazioni equivalenti di questo principio. Quelle che storicamente si sono rivelate più importanti sono:


  • Nella formulazione di Clausius, si afferma che è impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato sia quello di trasferire calore da un corpo più freddo a uno più caldo.
  • Nella formulazione di Kelvin-Planck, si afferma che è impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato preveda che tutto il calore assorbito da una sorgente omogenea sia interamente trasformato in lavoro.
  • Non è possibile - nemmeno in linea di principio - realizzare una macchina termica il cui rendimento sia pari al 100%.

L'equivalenza dell'enunciato di Kelvin-Planck e di quello di Clausius si può mostrare tramite il seguente ragionamento per assurdo.


Non Clausius implica non Kelvin (ovvero Kelvin implica Clausius)

Supponiamo che l'enunciato di Clausius sia falso, ovvero che esista una macchina frigorifera ciclica in grado di trasferire calore da una sorgente fredda ad una calda, senza apporto di lavoro esterno.

Sia Q la quantità trasferita per ogni ciclo della macchina dalla sorgente fredda a quella calda.

Possiamo allora far lavorare una macchina termica tra le due sorgenti, in modo tale che essa sottragga ad ogni ciclo una quantità di calore Q' dalla sorgente calda, trasferendo a quella fredda una quantità Q (uguale a quella precedentemente sottratta) e convertendo la differenza Q - Q' in lavoro.

La sorgente fredda allora non subisce alcun trasferimento netto di calore e pertanto il nostro sistema di macchine termiche sta estraendo calore, globalmente, dalla sola sorgente calda, producendo esclusivamente lavoro, in violazione della formulazione di Kelvin-Planck del secondo principio;


Non Kelvin implica non Clausius (ovvero Clausius implica Kelvin)

Supponiamo ora di poter convertire integralmente il calore in lavoro, estratto per mezzo di una macchina ciclica da una sola sorgente S a temperatura costante.

Sia L tale lavoro estratto in un ciclo.

Allora possiamo prendere una seconda sorgente S' a temperatura più alta e far funzionare una macchina frigorifera tra le due sorgenti, che assorba ad ogni ciclo il lavoro L prodotto dall'altra macchina.

Si ha così un trasferimento netto di calore dalla sorgente fredda S alla sorgente calda S', in violazione dell'enunciato di Clausius.


Il rendimento


Il rendimento è il rapporto tra il lavoro compiuto e l'energia fornita al sistema.

Il rendimento è espresso come valore compreso tra zero e uno o sotto forma di percentuale. Esso non può mai assumere il valore 1 (100%), altrimenti violerebbe il secondo principio della termodinamica.

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