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Scienza e tecnica nell'antichità: Seneca, Plinio il Vecchio e Lucrezio, tre grandi a confronto




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Scienza e tecnica nell'antichità: Seneca, Plinio il Vecchio e Lucrezio,  tre grandi a confronto


el mondo antico la scienza fu sempre oggetto di interesse da parte dell'umanità. Alcuni filosofi latini la definivano pura e la distinguevano nettamente da quell'applicata.


E` questo proprio il caso di Seneca, che nel suo "Naturales Quaestiones", dava importanza alla scienza solo allo scopo di indagare nel mondo fisico, per scoprire la natura razionale e provvidenziale del cosmo, ordinato da una mente divina. La scienza della natura era dunque legata alla teologia e tendeva ad identificarsi con essa. Lo scienziato era subordinato al filosofo e ciò implicava la svalutazione degli studi tecnici.


Nelle "Epistolae morales ad Lucilium", Seneca distingue tra "sagacitas" e "sapientia". La prima è un prodotto della mente inferiore (le case, l'agricoltura, i tessuti sono tutte arti inventate dalla ragione, ma non da quella perfetta del sapiente). La seconda sta ben più in alto, e non le mani, ma le anime sono oggetto dei suoi ammaestramenti. La sapienza è frutto di una ricerca spirituale, mediante la quale l'uomo s'innalza dalla terra verso il cielo. Il filosofo non si occupa, quindi, di inventare nuovi strumenti tecnici soggetti ad essere superati da altri, ma di formulare un pensiero universale che non muti nel tempo.


Lo studio scientifico assume valore solo all'interno di una prospettiva morale ed ogni forma di progresso delle scienze, comporta necessariamente un miglioramento nell'ambito delle virtu', mentre la diffusione dei vizi corrisponde invece all'abbandono delle scuole filosofiche. Seneca, comunque, ha fiducia nel progresso scientifico ed esalta il processo inesauribile dell'indagine conoscitiva. ("Cio' che noi ignoriamo sarà conosciuto dai posteri.. Poiché il mondo sarebbe una ben piccola cosa se in esso il mondo non trovasse materia per la ricerca."). Ne segue che, per il filosofo, il saggio tende al conseguimento della virtù suprema, che non ha alcun'attinenza con l'utile o vantaggio materiale poiché questo degrada l'animo.


La filosofia, dunque, non è in alcun modo legata alla tecnica, perché deve condurre l'animo a conoscere la natura senza modificarla; le arti, infatti, tendono a rendere la vita dell'uomo più comoda offrendogli una felicità apparente che lo distoglie dalla ricerca della virtù.


Di diverso avviso è Plinio il Vecchio per il quale la scienza è ricerca e stupore di tutto ciò che accade nella natura.Nella sua maggiore opera "Naturalis Historia", l'interesse per la scienza fanno di costui un uomo rivolto tutto verso la natura ed i suoi fenomeni. Il significato del titolo è "storia della natura", ma egli vuole che sia inteso come ricerca sulla natura nel senso di scienza naturale. I sette libri, in cui l'opera si divide, affrontano una vastità di materie: cosmologia, geografia, etnografia, antropologia, zoologia, botanica, agricoltura, medicina, mineralogia. Plinio, infatti, era spinto alla ricerca da una curiosità insaziabile che gli fece raccogliere molto materiale, che fu poi disposto nei suoi libri in modo disorganico. Questo è il motivo per cui nella sua opera si trova un discorso che non segue un ordine classificatorio, ma si sviluppa a seconda delle affinità che l'autore trovava di volta in volta. Da qui le tante digressioni spesso di natura fantastica che servivano per associare idee non compatibili.


La sua fonte maggiore è Aristotele, ma del filosofo riprende solo materiali e notizie, ignorando completamente la sua rigorosa analisi fisiologica ed anatomica (l'interesse per l'animale morto da sezionare) e il suo pensiero (gli animali non hanno intelligenza). Plinio, al contrario, vuole cogliere gli aspetti particolari, le abitudini e le pose degli esseri viventi. La natura, dunque, non è considerata come un universo di cui studiare le leggi, ma si presenta come un grande insieme d'elementi prodigiosi da analizzare minuziosamente uno per uno, per scegliere poi l'elemento naturale che meglio si presta ad una ricezione spettacolare.


La lingua e lo stile dell'opera devono rappresentare il mondo naturale nei suoi aspetti più umili; ne segue perciò l'uso di termini rozzi, stranieri e barbari. Quest'ultimi sono quelli della lingua tecnica generalmente banditi dai vocaboli della letteratura alta.


La fama di Plinio nell'epoca moderna, è stata determinata non tanto dal suo ruolo di letterato e storico, ma da quello di "Protomartire della scienza", come lo definì Italo Calvino. Plinio, infatti, com'è testimoniato da suo nipote, per bramosia di sapere, dopo aver adempito il suo dovere di funzionario imperiale, salvando molte vite dall'eruzione del Vesuvio, non si curò della sua incolumità e restò nei pressi del vulcano per assistere al mirabiliante fenomeno. Così a causa delle esalazioni venefiche prodotte da un vulcano con magma intrusivo perdeva la vita eroicamente e in nome della scienza.


Il primo, però, tra gli autori latini a riflettere sul problema della natura del progresso umano fu Lucrezio. Da una parte elogia l'uomo per aver compiuto lo sforzo di uscire dallo stato brutale (prospettiva razionalistica), dall'altra egli non trova nessun miglioramento nell'evoluzione dei costumi, anzi denuncia in essa una degradazione morale (prospettiva etica). I vantaggi del progresso sono enumerati con amara ironia (guerre, naufragi, etc.) e Lucrezio ha nostalgia per l'uomo primitivo fisicamente forte, che non aveva né obblighi sociali e né paura della morte; in più l'ignoranza lo proteggeva dai disastri e dalle complicazioni della civiltà. Anche Epicureo aveva condannato le "téchnai" (arti), che miravano al lusso, elogiando l'uomo che si affidava al proprio ingegno per risolvere i suoi problemi. Lucrezio, quindi, vede nel progresso più svantaggi che vantaggi. Giacché l'uomo si allontana dalla natura e perde il senso della misura dei suoi veri bisogni.

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