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Teorie novecentesche della societÀ e della politica




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TEORIE NOVECENTESCHE DELLA SOCIETÀ E DELLA POLITICA


NOVECENTO: l'Occidente ha conosciuto massimo sviluppo della democrazia,

ma anche

interrotta successione di conflitti e di guerre (di cui due mondiali).


inoltre

questo secolo ha visto l'avvento di   regimi totalitari di tipo nuovo,


carattere di massa

forme di terrore mai prima conosciute,

effetti devastanti sulla civiltà giuridica,  

cioè sui sistemi di garanzie affermatisi nel corso della "rivoluzione borghese" dei tre  secoli precedenti.













Il dibattito sulla natura dello Stato


XX secolo: il dibattito teorico in ambito politico in rapporto con le trasformazioni prodotte    dall'avvento della civiltà di massa.


ripensamento due concetti cardine di ogni teoria politica dell'età moderna:





LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO DI FRONTE AL TOTALITARISMO


L'evento dei regimi totalitari nella prima metà del Novecento (fascismo, nazismo, stalinismo .) determina nella filosofia contemporanea una profonda crisi di coscienza.



Di fronte all'esperienza del totalitarismo, e al suo culmine dato dalla tragedia dell'olocausto nei campi di sterminio nazisti, molti pensatori contemporanei ritengono che la razionalità filosofica occidentale si sia infranta

Quindi

occorre smascherare le pretese di assolutezza della ragione occidentale dominanti nella cultura filosofica e scientifica europea tra Otto e Novecento.

Difatti

durante l'epoca dei totalitarismi molti filosofi non reagirono e si rifugiarono nella speculazione o addirittura, scesero in campo, divenendo portavoce o complici dei regimi totalitari.

quindi

si pongono ineludibili questioni:


com'è potuto accadere?

Perché il totalitarismo si è affermato proprio in Europa e soprattutto in Germania, patria della filosofia europea?

Può la razionalità filosofica occidentale dichiararsi completamente innocente

Quale relazione tra i modelli della razionalità che hanno dominato e trionfato in Europa e l'ideologia totalitaria?

Il  totalitarismo è definitivamente sconfitto?

Quali antidoti contro il male totalitario?




EMMANUEL LÉVINAS: pone la questione dell'etica al centro della propria filosofia, a partire dal confronto con l'evento del male rappresentato dal nazismo e dall'olocausto, e dalla sua personale esperienza di ebreo perseguitato. Tale confronto conduce il filosofo a una delle più radicali critiche della filosofia occidentale, accusata di aver coltivato sin dalle origini una vocazione totalitaria e di avere occultato la dimensione etica originaria dell'esistenza umana nel mondo.


KARL POPPER critica il totalitarismo, individua le matrici teoriche nel modello platonico dello Stato e nella concezione hegeliana della storia come manifestazione del divino.


Analogo nesso tra evento del totalitarismo e messa in questione della razionalità filosofica occidentale viene posto in luce da HORKHEIMER e ADORNO, capostipiti della Scuola di Francoforte, uno dei più importanti laboratori del marxismo occidentale.

Di fronte alle svolte autoritarie e agli orrori che segnano la storia dell'Europa occidentale, così come quella dell'Unione Sovietica, tra le due guerre mondiali e oltre, i pensatori francofortesi ritengono che la razionalità filosofica non possa sottrarsi al dovere di compiere una radicale autocritica. È a tale compito che sono dedicate le spietate riflessioni raccolte in Dialettica dell'Illuminismo, un'opera che segnerà profondamente l'orizzonte filosofico del dopoguerra contribuendo in modo decisivo all'elaborazione di una filosofia marxista critica che tenga conto delle lezioni della storia.


i pensatori della

"SCUOLA DI FRANCOFORTE", attribuiscono la responsabilità dei fenomeni totalitari in Occidente all'egemonia della razionalità tecnica, cioè di un modello fondato unicamente sul criterio dell'efficienza, ossia della corrispondenza dei mezzi ai fini (quali essi siano). Questi autori ritengono che l'uso della scienza e della tecnica si sia tradotto in mezzo di manipolazione e controllo delle coscienze, in una nuova forma di dominio, nella quale il ruolo dell'individuo viene ad essere mortificato annullato.

Di fronte alle svolte autoritarie e agli orrori che segnano la storia dell'Europa occidentale, così come quella dell'Unione Sovietica, tra le due guerre mondiali e oltre, i pensatori francofortesi ritengono che la razionalità filosofica non possa sottrarsi al dovere di compiere una radicale autocritica. È a tale compito che sono dedicate le spietate riflessioni raccolte in Dialettica dell'Illuminismo, un'opera che segnerà profondamente l'orizzonte filosofico del dopoguerra contribuendo in modo decisivo all'elaborazione di una filosofia marxista critica che tenga conto delle lezioni della storia



Al di là della loro diversità, attraverso le vie dell'immaginazione e della memoria proprie della scrittura letteraria, si sono dedicati moltissimi autori contemporanei.

confronto della letteratura con il totalitarismo:

GEORGE ORWELL e PRIMO LEVI, due narratori che hanno fatto della loro lotta contro la rimozione dell'incubo totalitario l'impegno fondamentale della propria opera e della propria vita.


Tra i filosofi che ritennero necessario per la filosofia, "dopo Auschwitz" ma anche dopo le epurazioni di massa attuate dal regime staliniano, il confronto con il fenomeno totalitario, spicca fra tutti:


HANNAH ARENDT, pone su basi diverse l'analisi del totalitarismo contemporaneo, considerato come lo sbocco della modernità, l'esito delle sue contraddizioni.

Al totalitarismo si è giunti, infatti, a causa della perdita di ogni legame comunitario, dell'atomismo individualistico che si è armato nella moderna società di massa producendo nell'individuo uno sconcertate e mostruoso offuscamento della sensibilità morale.

Nella società totalitaria, infatti, l'individuo è diventato incapace dei distinguere il bene dal male e si trova a compiere atroci misfatti come se fossero di normale amministrazione: così in "La banalità del male" la Arendt descrive - attraverso la cronaca e il commento del processo di Eichmann - i crimini compiuti nei campi di sterminio nazista.

Ma come è possibile evitare:

la caduta nell'autoritarismo e nel totalitarismo?

l'isolamento dell'individuo,

l'estraniazione dalle relazioni sociali,

il conformismo

una progressiva perdita di senso dell'agire?

invece

Come realizzare:

i diritti e le potenzialità degli individui?

ed estendere gli spazi della democrazia?








HANNAH ARENDT


Hannah Arendt (1906-1975), nata da famiglia ebrea a Hannover.

Dopo gli studi universitari (tra i suoi maestri Heidegger, Husserl e Jasper) è costretta ad abbandonare la Germania per motivi politici.

Si rifugia in Francia (1933) e poi si trasferisce definitivamente negli Stai Uniti (1941).

Qui insegna in diverse università e continua la sua attività di ricerca fino alla morte.

Muore nel 1975, mentre si accinge a scrivere la terza e ultima parte di La vita della mente, l'ultimo suo capolavoro, pubblicato postumo nel 1978.

La sua ricerca era iniziata con la tesi di dottorato in filosofia sul concetto di amore in Sant'Agostino, pubblicata nel 1929.


L'opera che la renderà famosa in tutto il mondo è il saggio del 1951, Le origini del totalitarismo, a cui nel 1958 seguirà La condizione umana, titolo voluto dall'editore americano, mentre la Arendt preferiva il titolo di Vita activa, conservato nella traduzione italiana del libro, realizzata nel 1964.


Di particolare rilevanza è il libro del 1963, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, scritto in occasione del processo contro il criminale nazista Adolf Eichmann, che aveva mandato a morte centinaia di migliaia di ebrei.

La Arendt, che aveva preso parte al processo tenutosi a Gerusalemme  come inviata del speciale del "New Yorker", si convince che la ragioni profonde dei crimini nazisti risiedono non tanto nella cattiveria o nella mostruosità di alcuni carnefici, ma nell'assenza di pensiero in uomini del tutto normali ("banali") nella vita familiare, che, però, se inseriti in una macchina infernale quale l'organizzazione nazista, diventano capaci delle più disumane atrocità.

Queste riflessioni, fatte da una donna ebrea, emancipata, laica e libera da ogni preconcetto, attirarono le critiche dello stesso mondo ebraico, che vedeva in esse una sottovalutazione del fenomeno nazista e delle sue efferatezze.


Le origini del totalitarismo, già ultimato all'indomani della Seconda guerra mondiale nell'autunno del 1949, uscì in prima edizione nel 1951, in piena guerra fredda.

È una delle più importanti opere storico-politiche del Novecento:

analisi cause e funzionamento dei regimi totalitari,

considerati come conseguenza tragica della società di massa,

in cui gli uomini sono resi atomi, sradicati da ogni relazione interumana e privati dello stesso spazio pubblico in cui hanno senso l'azione e il discorso.

Il manoscritto,


contributo della Arendt particolarmente rilevante:


a)     aspetto storico-politico, analisi storia europea moderna e contemporanea e, in particolare, il periodo dagli ultimi venti anni dell'Ottocento fino alla Seconda guerra mondiale;

b)     aspetto filosofico-politico, elaborazione schema generale del regime totalitario, con riferimento al nazismo e allo stalinismo, visti come due fenomeni riconducibili alla medesima idea di totalitarismo.


struttura opera complessa e molto articolata.

libro diviso in tre parti:

dedicata allo studio del fenomeno dell'antisemitismo, ritenuto come una delle premesse del totalitarismo,con un'attenzione particolare alla condizione ebraica della storia moderna.


tema dell'imperialismo, così come si è venuto configurando nel periodo che va dalla fine dell'Ottocento alalo scoppio della Prima guerra mondiale, con il nuovo protagonismo della borghesia (o almeno, della parte più dinamica di essa) che ora, per la prima volta aspira al dominio politico oltre che a quello economico.

conseguenze dell'antisemitismo, assieme alla crisi dell'imperialismo successiva alla Prima guerra mondiale, sono le cause da cui scaturito il totalitarismo nella Germania nazista e nell'Unione Sovietica stalinista, a cui deve aggiungersi il fenomeno inedito dell'avvento della società di massa e senza classi, in cui gli individui sono alla mercè di ristretti gruppi di potere ( le élites ) orientati in senso dispotico.


  1. analisi dei caratteri del totalitarismo nella società di massa , che instaura il suo potere attraverso il binomio ideologia-terrore.

È la più rilevante sotto il profilo filosofico-politico, in quanto la Arendt afferma che l'essenza del totalitarismo consiste appunto nell'intreccio perverso di terrore e ideologia.

Terrore esercitato sia attraverso al polizia segreta sia attraverso i campi di concentramento che hanno la funzione di annientare gli oppositori politici trasformati in nemici.


Il saggio si conclude con la trattazione dell'ideologia totalitaria che ha la pretesa di fornire una spiegazione totale della storia, di trasformare la natura umana e di capovolgere le stese norme della logica.


Dal punto di vista organizzativo, l'ideologia e il terrore si esplicano attraverso gli strumenti del partito unico e della polizia segreta, che sono controllati completamente dal capo supremo, a cui rendono personalmente conto.


La volontà del capo è l'unica legge del partito, che tutti i burocrati devono rispettare e far rispettare. Il potere viene a distribuirsi in maniera gerarchica, secondo il grado maggiore (o minore) prossimità al capo: quanto più si è vicini al leader, tanto più si ha il potere.


La condizione degli individui è quella dell'isolamento totale nella sfera politica e dell'estraniazione in quella dei rapporti sociali.

Il regime totalitario, alla pari di ogni altra forma di tirannide, deve la sua esistenza alla distruzione della vita politica democratica, ottenuta diffondendo paura e sospetto tra gli individui (non più cittadini) isolati.

Ma esso, distrugge anche la vita privata delle persone, straniandole dal mondo, tagliando ogni radice sociale e rendendole tra loro nemiche. E ciò rappresenta una più atroce novità del moderno totalitarismo rispetto al vecchio dispotismo.


Il tratto peculiare dell'indagine arendtiana sul totalitarismo:

accento posto sulla condizione di isolamento degli uomini nella società di massa, dove il conformismo sociale è una minaccia costante alla libertà politica.

Quindi,

il totalitarismo può essere concepito come una potenzialità e un costante pericolo anche dopo la scomparsa delle sue forme storiche del Novecento, il nazismo e lo stalinismo: esso "ci resterà alle costole probabilmente per l'avvenire".


La politeia perduta


Ricerca cause del totalitarismo:

considerazione della scomparsa della dimensione autenticamente politica dell'uomo, come nella polis dell'antica Grecia.


L'autrice non intende proporre come modello del presente l'esperienza storica dell'Atene di Pericle.


al contrario,

l'esperienza della polis, fornisce l'occasione per una analisi critica del presente e della moderna espropriazione dei diritti della cittadinanza e della democrazia diretta.


L'opera in cui la Arendt esamina questo problema è Vita activa.


La tesi centrale del libro è che, a partire dalla fine della polis greco-romana, l'agire, inteso come civiltà dell'azione e del discorso, è stato sostituito prima dal fare e poi dal lavorare, teso unicamente ad assicurare la pura sopravvivenza.


L'oggetto del saggio è la vita activa, in quanto distinta dalla vita contemplativa,

i due momenti fondamentali (come aveva già affermato Platone e, soprattutto Aristotele, della condizione umana).

Però

diversamente di pensatori classici, si parla di condizione e non di natura umana.

La sola affermazione che possiamo fare circa la cosiddetta natura degli uomini, osserva la Arendt, è che essi sono esseri condizionati (donde "condizione umana").

Le condizioni dell'esistenza umana sono rappresentate da "vita, natalità e mortalità, mondanità, pluralità e terra".


Pur tuttavia

si deve aggiungere che l'uomo non si riduce alle sole due condizioni, le quali non lo determinano mai in maniera assoluta.

La "vita activa", cioè l'agire umano si articola in tre forme fondamentali:


a)     L'attività lavorativa (o animal laborans);

b)    L'operare (o homo faber);

c)     L'agire (o zoon politikón).


Il lavoro, dunque, rende l'uomo animal laborans (nell'antichità erano gli schiavi che esercitavano questa attività), cioè colui che provvede al mantenimento della propria vita (o dell'altrui, nel caso dello schiavo), senza che ciò comporti la fabbricazione di oggetti duraturi: l'attività lavorativa è l'energia che si sprigiona e si consuma per provvedere alle esigenze fondamentali della vita, come il procacciamento di cibo, la riproduzione, ecc.

Si tratta di un'attività senza fine, che dura finché dura la vita.


L'operare è tipico dell'homo faber, che ha avuto grande sviluppo a partire dall'età moderna e che può definirsi come colui che costruisce, l'uomo tecnologico che tende produrre oggetti duraturi (opere), tanto da trasformare la stessa faccia della Terra.

Infine l'azione tipica dello zoon politikón.


Delle tre manifestazioni della "vita activa" la più importante è l'ultima, la prassi politica, grazie alle quale gli uomini comunicano tra loro non attraverso gli oggetti, ma attraverso il linguaggio (il discorso) e le nobili gesta.


Il sorgere delle città-stato significò per l'uomo ricevere accanto alla sua vita privata una sorta di seconda vita, quella politica, che non solo si differenziava, ma si poneva anche in diretto contrasto con l'associazione naturale della famiglia, che aveva il suo centro nella casa (oikía).

Tra tutte le attività praticate nelle comunità umane, Aristotele riteneva che solo l'azione (praxis) e il discorso (lexis) appartenessero veramente all'agire politico. Prima ancora della fondazione della polis, l'azione e il discorso erano considerati le attività più elevate dell'uomo.


Essere politici, cioè vivere nella polis, per i Greci significava abbandonare la violenza e riporre ogni fiducia nella forza persuasiva del discorso. Al contrario, la sfera della costrizione e della necessità era considerata prepolitica, tipica della famiglia, in cui il capofamiglia esercitava un poter dispotico sugli schiavi, sui figli e sulla moglie (anche se a livelli diversi), o degli imperi barbarici dell'Asia, il cui dispotismo non a caso veniva sovente paragonato a quello della sfera domestica.


La comunità naturale della casa era ritenuta dai Greci il frutto della necessità: bisognava provvedere, tramite il lavoro (attività non libera, ma tipica degli schiavi) al nutrimento e a tutti gli altri bisogni biologici dei figli. È per questo che gli schiavi venivano considerati letteralmente "non-uomini", perché sottoposti al regno della costrizione: non potevano ritenersi propriamente uomini, cioè liberi dalla necessità.

Al contrario la polis, era la sfera della libertà.

L'unica relazione tra le due sfere era rappresentata dal fatto che il soddisfacimento delle necessità naturali della sfera domestica (gravanti prevalentemente sul lavoro servile) costituiva il presupposto per liberare il cittadino dalle incombenze materiali consentirgli così di dedicarsi interamente al protagonismo pubblico.

Alla radice della coscienza politica greca c'è, dunque, una straordinaria consapevolezza della superiorità della vita libera sul regno della necessità naturale (consistente, cioè, nell'assicurarsi i mezzi di sussistenza e di alimentazione del processo vitale). Tale orientamento si è mantenuto anche presso i romani, ma con al crisi del loro impero e l'affermarsi della società cristiano-medioevale la civiltà della politica decade e, con essa, anche il primato della vita attiva.


In verità, già con Platone e Aristotele era iniziato il processo di pensiero che avrebbe portato alla successiva svalutazione della "vita activa" a vantaggio della "vita contemplativa".

L'autrice ritiene che questo processo di negazione della vita attiva e, al suo interno, di sparizione dell'agire politico nell'ambito di un'indistinta sfera del fare sia al tempo stesso un processo inevitabile e negativo, che la modernità ha portato compimento (in particolare attraverso la rivoluzione cartesiana, che ha radicato nel soggetto ogni fonte di certezza e di verità)

Al dubbio cartesiano discende la nuova epistemologia, caratterizzata dall'abbandono del tentativo di comprendere la natura e, più ingenerale, di conoscere le cose non prodotte dall'uomo, per volgersi esclusivamente alle cosche devono la loro esistenza all'uomo: trionfo dell'homo faber.

Ma se l'agire politico era stato sconfitto dalla vita contemplativa affermatasi in particolare con il cristianesimo, anche l'homo faber deve cedere il posto all'animal laborans, cioè al primato dell'attività che ha come unico scopo la conservazione materiale della vita.

Con uno sguardo pessimistico, la Arendt ritiene che nel mondo moderno l'agire politico, cioè la parte più nobile e propriamente umana, sia divenuto impossibile e che, anzi, la stessa attività di produzione degli oggetti (il fare produttore delle opere) stia cedendo il posto al meschino darsi da fare per sopravvivere.

La fine della politica ci consegna in modo ineluttabile alla società del lavoro e ci trasforma in "impiegati".


Dal cupo pessimismo di Vita activa trapela, proprio nelle pagine finali, una luce di speranza derivante dalla forza del pensiero, presente negli uomini che si dedicano all'arte e ala ricerca scientifica . E a "La vita della mente" (1978) è dedicato l'ultimo lavoro, incompiuto, della Arendt, dedicato l'analisi del pensiero e alla funzione del linguaggio che funge da tramite tra il mondo sensibile e quello della mente.





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